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Autore: Brin    03/05/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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15
Qualcosa inizia a muoversi. Ricordate che nulla è come sembra ;)
Buona lettura.

Brin







14.
FUGA

*



L’aria umida si appiccicava sulla pelle, e l’odore del mare impregnava le narici con prepotenza.
Fuggirono nella notte come ladri, silenziosi e attenti a ogni rumore. Erano ombre nel buio, sagome che rifuggivano la luce delle torce.
Percorsero le stradine secondarie: una via di fuga perfetta, dal momento che erano poco battute e scarsamente controllate. Abidos, alla testa del gruppo, apriva la strada. Seguiva Sari, e per ultimo Namar, protetto dal cappuccio di un mantello che aveva trovato nella fucina del fabbro. Si appostarono a ogni angolo per controllare la strada, attenti a non rimanere troppo a lungo in zone scoperte. Una cacofonia di voci sembrava provenire da ogni punto, e più di una volta temettero di venire scoperti. Namar sembrò sul punto di avere una crisi di nervi: non faceva altro che guardarsi attorno con insistenza, sussultando al minimo alito di vento. Sari, davanti a lui, aveva il cuore che galoppava.
Non aveva il coraggio di chiedere ad Abidos come intendesse condurli lontano da Naima. Aveva paura che, se avesse aperto bocca anche solo per sussurrare, qualcuno l’avrebbe sentita. Un timore irrazionale, che però l’attanagliava.
Superarono l’ennesimo angolo, seguiti dalle loro ombre disegnate dalle lanterne assicurate ai muri degli edifici. Sari cominciò a pensare che avrebbero continuato a vagabondare tutta la notte per la città, quando Abidos improvvisamente rallentò. Si guardò attorno, assorto.
«Siamo quasi arrivati.»
«Ma davvero? Sono piuttosto curioso di sapere dove ci stai portando, dal momento che io non vedo nulla a parte queste quattro case» esclamò Namar, allargando le braccia spazientito. Sari lo guardò di sottecchi. Aveva gli occhi spalancati, i denti scoperti in una strana smorfia animalesca, e il petto che si alzava e si abbassava convulsamente. Sembrava un cane rabbioso.
Abidos si limitò a sorridergli, comprensivo.
«L’unico modo per andarcene è percorrere la città lungo vie sotterranee, come le fogne per esempio.»
Namar lo guardò senza dir nulla. Si sistemò il cappuccio sul capo, senza distogliere lo sguardo. Era diffidente.
«Allora continua a camminare, e in fretta.»
Quando si rimisero in marcia, Sari si sentì afferrare per un braccio: era Namar, il viso a pochi centimetri dal suo orecchio. Una smorfia cattiva gli alterava la linea delle labbra.
«Credi che non mi sia accorto dell’adorabile giochetto che state inscenando tu e il tuo amico?»
Il sangue le si gelò improvvisamente nelle vene, ma cercò di dominare il panico che quella frase le aveva scatenato.
Non poteva farle del male, almeno finché gli era più utile da viva che da morta. Ma nonostante tutto, non riuscì a sentirsi confortata: aveva perso ogni speranza di fuggire. Namar non l’avrebbe più persa di vista, neppure per un istante. E la cosa più sconcertante, la cosa che si rifiutò di accettare, era che una parte di lei si sentiva quasi sollevata di non dover tentare la fuga.
Non riuscì a ribattere, turbata da quelle emozioni contrastanti. Il fuggiasco sogghignò soddisfatto.
«Beccati. Fatemi qualche scherzo di cattivo gusto e vi torturerò così lentamente che mi pregherete di uccidervi, è chiaro dottoressa?»
La sua voce era bassa e carezzevole, come se le stesse sussurrando parole d’amore, ma ebbe l’effetto di farla rabbrividire. Annuì, ingoiando pensieri amari su quei desideri ambivalenti che non avrebbe mai potuto accettare.
«Ora andiamo» la spinse avanti, e per poco Sari non incespicò.
Guardò avanti, ma in testa aveva solamente quanto Namar le aveva appena detto. Percepiva i suoi passi alle proprie spalle, il fruscio del mantello che indossava, e quell’assurdo senso di colpa che provava al pensiero di abbandonarlo al suo destino la faceva sentire stupida.
In un istante si era ricordata di cos’era Namar. Non avrebbe dovuto farsi prendere dalla pietà, e ne aveva avuto la prova. Non era un suo amico, e neppure un compagno di viaggio. Era il suo rapitore.
L’aveva sequestrata e l’aveva minacciata: due cose essenziali che non doveva dimenticare.
Venne strappata a forza da questi pensieri, quando sentì qualcosa di duro cozzare contro il suo naso. La schiena di Abidos. Si era fermato e lei non se n’era neppure accorta.
«Che diavolo succede?» sussurrò, trattenendo a stento un’imprecazione. Il ragazzo si voltò, guardando prima lei e poi Namar. Sembrava preoccupato.
«Arriva qualcuno.»
In quel momento Sari li sentì: dei passi leggeri, provenienti dalla fine della strada. Qualcosa si agitava nell’ombra con movimenti lenti, sinuosi. Per un istante pari a un battito di ciglia qualcosa brillò. Due occhi di fiera.
Sari scosse il capo, sperando di aver immaginato ogni cosa.
«Andiamo avanti» sussurrò Namar, quel tanto che bastava per farsi sentire dai due ostaggi.
«Chiunque sia, non guardatelo in faccia e non fermatevi per nessun motivo.»
Sari annuì poco convinta. Intuì subito che quei fugaci bagliori non erano frutto della sua fantasia: l’espressione preoccupata di Namar lo provava. E forse anche lui aveva capito che cosa si nascondeva nel buio.
Demoni!
Il suo istinto le gridava di non andare in quella direzione, di voltarsi e di allontanarsi da quella figura che la inquietava, ma nonostante tutto riprese a camminare con il capo chino.
Mantenne lo sguardo fisso sulle caviglie di Abidos anche quando quella creatura uscì dall’ombra, cogliendo a stento le sue fattezze di donna. Non vide la frangia che le copriva la fronte; non vide gli occhi azzurri che scrutavano il gruppetto, beffardi. Non si accorse del lungo, pesante sguardo carico d’intesa che Abidos le rivolse. Non seppe neppure che Namar, alle sue spalle, non aveva mai distolto lo sguardo da quella figura demoniaca.
La donna non aprì bocca. Oltrepassò il gruppo, allontanandosi in silenzio così com’era giunta.
Solo quando svoltò l’angolo e sparì dalla strada, Sari si sentì sollevata. Chiuse gli occhi, e si accorse che per quella manciata di secondi interminabili aveva respirato a stento, trattenendo il fiato a causa dell’ansia. Non ebbe neppure il coraggio di sollevare lo sguardo.
«L’avete vista, vero?» domandò la psicologa.
«Sì» mormorò Abidos continuando a camminare.
«Quegli occhi, nell’ombra…»
Questa volta il ragazzo non rispose. Era chiaro a tutti e tre cosa volesse dire ciò, e Sari credeva di sapere il perché un demone si trovasse in una cittadina di mare come Naima, in terra nemica.
Erano sulle sue tracce, e cercavano ciò per cui suo padre era morto. Erano arrivati.


*


Si calarono nel tombino, attenti a dove mettevano i piedi.
Sari fu investita dall’odore putrido e pungente del canale fognario non appena cominciò a scendere, e credette di vomitare, in preda a un conato.
Erano circondati dal buio. Dovettero aspettare diversi minuti prima di riuscire ad abituarsi all’oscurità e di poter distinguere l’ambiente. Il rumore dell’acqua proveniva da sinistra, e quando riuscirono a intravedere i contorni del condotto, riuscirono anche a individuare i flutti del canale.
Dall’altra parte, il muro. Quando Sari vi appoggiò la mano sentì qualcosa di spiacevolmente molliccio a contatto con la pelle, qualcosa che impregnava l’aria assieme al fetore dell’acqua.
Arricciò il naso, pulendosi la mano sui pantaloni.
«Muffa.»
Faceva fatica a vedere dove metteva i piedi, e aveva l’impressione di poter scivolare da un momento all’altro. La muffa doveva aver aggredito anche il pavimento, ipotizzò. Continuò a camminare alle spalle di Abidos, cercando di mantenere l’equilibrio tenendo le braccia protese.
In mezzo a tutto quel buio e a quel silenzio rotto solo dai loro passi, rifletté a lungo. I pensieri si susseguivano senza sosta come un fiume in piena, e lei non sembrava capace di fermarli.
Suo padre, il suo assassino, la voglia di trovarlo. Poi il suo sequestro, l’impossibilità di fuggire da Namar, la donna nel vicolo, e quel vago senso di colpa che provava quando pensava alla decisione di fuggire da lui. Non riusciva a capire cosa voleva fare.
Quando Namar li aveva scoperti si era quasi sentita sollevata: una scorciatoia facile per annientare i sensi di colpa. Una strada che le aveva lasciato un vago disgusto per se stessa.
Poi vennero le domande. Se anche fosse riuscita a trovare Shem, che cosa avrebbe fatto dopo?
Fu ciò che provò a quel pensiero ad atterrirla più di ogni altra cosa. Vendetta, giustizia o verità? Lei non sapeva più cosa desiderava, e la realtà era che in quel momento le sembrava di essere lontana anni luce dall’assassino di suo padre. Tutti quei pensieri confusi erano come un’oscurità fitta e impenetrabile, ma all’improvviso si ricordò di una cosa, e fu come vedere la luce.
Namar.
Lui conosceva Shem.
Il cuore cominciò a battere più velocemente. Non aveva idea di come avesse fatto a dimenticarsi di un particolare così importante, e si diede della stupida.
«Namar?»
«Non ho voglia di fare conversazione. Cammina e stai zitta.»
Sari si costrinse a mantenere la calma e a insistere. Non poteva lasciarsi scappare quell’occasione.
«Tu hai conosciuto Shem Gaynor, vero?»
Non ottenne risposta. Fu sul punto di desistere dai suoi intenti quando Namar sospirò.
«Se ti accontento la pianti di parlare? Mi stai infastidendo.»
Sari si fece improvvisamente attenta, con un largo sorriso soddisfatto.
«Si può fare.»
«Lavorava ad Artika.»
«Sì, quello lo so.»
«Allora la cosa finisce qua, non so altro.»
«Come sarebbe a dire che non sai altro? L’hai conosciuto! Ci avrai parlato, no?» sbottò Sari incredula, frustrata dal non riuscire a ottenere nessuna informazione che potesse essere utile. Le sembrò di vedere Abidos raddrizzare la testa, un movimento leggero e prudente, come se stesse ascoltando di proposito la conversazione e volesse nasconderlo. Non ci prestò molta attenzione: l’urgenza delle possibili rivelazioni di Namar aveva la precedenza.
Ma il fuggiasco non diede prova della disponibilità in cui lei si ostinava a sperare, lo dimostrò ancora una volta quando sbuffò infastidito.
«Per tua informazione, ad Artika il personale non si trastulla in chiacchiere con i detenuti. L’ho conosciuto, ma non so nulla della sua vita.»
Una delusione profonda avvolse Sari. Per un istante aveva creduto che Namar potesse aiutarla, dandole delle informazioni che l’avrebbero condotta verso Shem, ma fu costretta a fare i conti con la realtà. Shem era letteralmente sparito nel nulla, e tutti i suoi sforzi per trovarlo si erano risolti in un buco nell’acqua. Si era introdotta ad Artika con l’unico risultato di essere presa in ostaggio.
Rimase in silenzio, delusa e amareggiata. Solo in quel momento, con la complicità di un vivace flusso di pensieri, si rese conto di ciò di cui era appena stata testimone: Abidos, quel ragazzo così garbato, aveva appena violato uno dei punti fondamentali dell’etichetta. Aveva origliato.
La sensazione prodotta da quell’idea era fastidiosa, irritante, ma si disse che in fin dei conti non c’era nulla di male. Era da maleducati, certo, ma non avrebbe danneggiato nessuno.
Fu un errore pensarlo.


*


Abidos camminò sicuro con un sorriso mordace stampato in viso, un ghigno ben nascosto a Sari. Sarebbe arrivato fino in fondo, e avrebbe raggiunto il suo obiettivo prima di venire intralciato dai tirapiedi dei Maghi.
Stava conducendo la ragazza dritta nella sua rete, doveva solo giocarsi bene le carte che aveva a sua disposizione senza seccatori tra i piedi.
Mancava davvero poco.
«Quanto manca Abidos?»
Era Sari. Il ghigno sul viso delicato del ragazzo si fece ancora più affilato.
«Poco. Molto poco.»


*


L’aria sembrava aprirsi al loro passaggio, e Amaya aveva la sensazione che mille mani le schiaffeggiassero il volto nello stesso momento.
Pregò più volte perché riuscissero ad arrivare incolumi a destinazione.
Non era l’elfo che stava guidando il drago a impensierirla. Al contrario, fino a quel momento si era dimostrato gentile e comprensivo, evitando spericolati avvitamenti in aria che l’avrebbero fatta morire di paura. Il vero problema era se stessa.
Il drago volava così velocemente che lei riusciva a mala pena a respirare; doveva compiere uno sforzo enorme ogni volta che i polmoni catturavano l’aria.
Volavano nel cielo buio della notte, e sopra le loro teste le stelle sembravano sfrecciare, impazzite.
Volker aveva insistito per aspettare che il sole fosse tramontato prima di levarsi in volo e dirigersi verso Naima, e Amaya si era trovata d’accordo con lui: se qualcuno li avesse visti volare sul dorso di un drago, avrebbero avuto rogne a non finire.
Drago significava magia nera, e magia nera significava demoni: un binomio che non era assolutamente tollerato. Amaya si impose di non pensarci, come cercò di non pensare all’altezza che li separava da terra.
Tenne gli occhi chiusi, stringendo ancor di più le braccia attorno alla vita di Volker, che si lasciò scappare un leggero sorrisetto.
I secondi passarono e divennero minuti. I minuti trascorsero e si tramutarono in ore. Non seppe dire da quanto erano in volo, né riuscì a capire dove fossero. Verso il basso, chiazze più o meno scure si susseguivano senza fine; boschi, fiumi e zone collinose si alternavano continuamente. Ogni tanto, qualche sparuta luce appariva nell’oscurità: una manciata di case, un piccolo villaggio isolato dalle città nel bel mezzo della pianura.
Furono quasi sul punto di credere che non sarebbero mai arrivati, quando lo videro: un mare di luce, una piccola area illuminata a giorno.
Fuochi accesi ovunque: per le strade, alle entrate della città, alle porte di ogni singola abitazione, addirittura nelle zone esterne alla città. Naima era a caccia.
«Accipicchia, certo che si stanno dando un gran da fare per acchiappare questo tizio» constatò Volker ridacchiando. Amaya però non trovava la cosa divertente.
«È un uomo pericoloso, Kramer.»
«Chiamami Volker.»
«Come preferisci» sbuffò, infastidita dalla malizia che gli percepiva nella voce. E lui ridacchiò di nuovo, divertito.
«E ora che si fa?»
«Dobbiamo avvertire Victor che siamo arrivati a destinazione con un drago.»
Amaya cacciò una mano in tasca ed estrasse un gingillo, che Volker aveva già visto: un prodotto della raffinata tecnologia elfica. Lo chiamavano Ragno. Era una sorta di guanto metallico a forma di aracnide, le cui zampe reggevano una pietra piccola e completamente nera. Quando lo indossò, delle venature dorate colorarono la pietra, finché non cancellarono quasi completamente il nero. Fu allora che il Ragno cominciò a brillare di una luce dorata.
«Victor, mi senti?»
Per un istante la luce si spense e nessuno dall’altra parte rispose, ma poi la pietra riprese a pulsare finché il bagliore dorato non divenne stabile.
«Ce l’avete fatta?» la voce di Silver era metallica, quasi artificiale.
«Siamo sopra Naima, ma non possiamo scendere con il drago, altrimenti ci scoprirebbero.»
«Mi basta che setacciate la zona dall’alto, non voglio che corriate ulteriori rischi.»
«Perfetto. Quando vedo qualcosa ti…»
«Guarda là» Volker la interruppe, indicandole un punto in mezzo alla boscaglia. Inizialmente non riuscì a capire che cosa volesse mostrarle, ma quando aguzzò meglio la vista capì subito.
Tre sagome si muovevano in mezzo alle fronde, lontano dal sentiero.
L’ipotesi che fosse il C.S.M. era piuttosto remota, dal momento che non avrebbero avuto motivi per camminare nel bosco fuori dal sentiero: era più probabile che potessero essere Sari e il suo rapitore.
C’era però una terza persona, presenza alla quale non sapeva dare spiegazioni.
«Amaya, è successo qualcosa?» la voce di Silver sembrava preoccupata.
«Forse li abbiamo trovati. Stanno scappando attraverso i boschi, ma sono in tre.»
«Quel tizio potrebbe aver preso qualcun altro in ostaggio» ipotizzò Volker.
«In che direzione sono diretti?» chiese Silver.
Amaya rifletté per alcuni istanti e guardò il cielo, cercando di orientarsi con le stelle.
«Sud.»
«A sud, eh? Se tu fossi braccata dall’esercito e volessi trovare rifugio da qualche parte, quale sarebbe il posto più adatto in quella direzione?»
L’elfa provò a pensare velocemente a tutte le cittadine in cui un ricercato potesse essere al sicuro. Una città in cui la Corporazione non avrebbe potuto estendere i suoi artigli.
Il posto che aveva questi requisiti era uno solo, unico in tutta Silindril.
Un piccolo regno indipendente, in cui erano le leggi dettate dal sovrano a regolare la vita della città.
«Assen.»
Era sicura che in quel momento Silver stava sorridendo soddisfatto.
«Incontriamoci lì. Andiamo a liberare Sari.»

   
 
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