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Autore: Beauty    06/05/2012    5 recensioni
Ciao a tutti! Questa storia è una mia personale rivisitazione de "La Bella e la Bestia", la mia favola preferita...
Catherine, diciottenne figlia di un mercante decaduto, per salvare il padre dalle grinfie di un misterioso essere incappucciato, accetta di prendere il suo posto. Ma quello che la ragazza non sa è che nelle vesti del lugubre e malvagio padrone di casa si cela un mostro, un ibrido mezzo uomo e mezzo animale. Col tempo, Catherine riuscirà a vedere oltre la mostruosità dell'essere che la tiene prigioniera, facendo breccia nel suo cuore...ma cosa succede se a turbare la felicità arrivano una matrigna crudele e un pretendente sadico e perverso?
Riuscirà il vero amore ad andare oltre le apparenze e a sconfiggere una maledizione del passato? E una bella fanciulla potrà davvero accettare l'amore di un mostro?
Genere: Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il mostro e la fanciulla'
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Angolo autrice: Ciao a tutti! J. Dunque, solo un paio di avvisi prima che leggiate.

Numero 1: questo capitolo è bello lungo, quindi caffè alla mano!

Numero 2: nella prima parte di questo capitolo il rating si alza leggermente, in quanto ci si allontana parecchio dall’ambiente fiabesco perché c’è la presenza di un linguaggio a volte scurrile (minorenni, siete avvisati! XD) e di scene di violenza piuttosto forti…almeno, a mio parere sono forti, poi magari alla fine del capitolo mi direte che perfino i Teletubbies sono più violenti di questo, ma spero comunque di non turbare la sensibilità di nessuno e che questo capitolo piaccia, nonostante tutto…

Grazie, e buona lettura!

 

Catherine afferrò svelta il suo mantello, che era rimasto in quella cella dalla prima notte e in cui spesso si era avvolta per combattere il freddo durante le ore della punizione. Se lo gettò sulle spalle, sollevando il cappuccio sul capo; prese un bel respiro e afferrò la maniglia della porta.

Forza, Cathy. Ora o mai più.

Aprì la porta, sbirciando fuori nel corridoio buio. Nessuno. Scivolò lentamente fuori, chiudendo la porta, attenta a non far rumore. Prese a scendere velocemente gli interminabili gradini del castello. Passò di fronte alla camera dove dormivano i domestici. Sentì un rumore soffocato, e si bloccò di colpo, trattenendo il fiato, mentre il cuore faceva una capriola nel petto.

Rimase immobile per qualche secondo, prima di rendersi conto che era solo Peter che mugolava nel sonno. Tirò un sospiro di sollievo, e riprese a scendere le scale.

Arrivò nell’atrio, che attraversò in fretta, aggrappandosi al batacchio del portone d’ingresso; tirò con tutte le sue forze, esultando silenziosamente quando i battenti si aprirono.

Uscì dal castello, inspirando per un momento l’aria fresca della notte; ma fu solo un attimo. Sapeva che non poteva permettersi di perdere tempo, quell’essere che la teneva prigioniera avrebbe potuto svegliarsi da un momento all’altro e cercare di riportarla indietro, doveva sbrigarsi.

Catherine attraversò di corsa il cortile, spalancando il cancello. Era notte fonda, non si vedeva un palmo dal naso, e lei non aveva nemmeno idea di dove si trovasse. Non aveva denaro con sé, niente, fatta eccezione per quei vestiti stracciati e quel mantello che non bastava neanche lontanamente a ripararla dal forte vento che aveva cominciato a soffiare proprio in quel momento.

La ragazza si guardò intorno; solo alberi, nient’altro, alberi e arbusti che le arrivavano alle ginocchia che impedivano totalmente non solo la vista del sentiero, ma ostacolavano anche il passaggio. Non sapeva dove si trovava, era notte fonda, lei non aveva nemmeno un cavallo, né la più pallida idea di come fare per tornare a casa.

Ma non gliene importava niente.

Si fece forza, cacciando via tutti quei dubbi. Doveva tornare a casa, si disse, e ci sarebbe tornata, anche a costo di vagare nella foresta tutta notte, ma presto avrebbe riabbracciato suo padre, Rosalie e Lydia, costasse quel che costasse.

Si strinse il mantello intorno alla gola, e si addentrò nel folto del bosco.

 

***

 

- Ehi, e guarda un po’ dove vai, Ralph!- biascicò Glouster ridendo al suo compare, che lo aveva accidentalmente urtato barcollandogli a fianco.

- Scusa…è che sono parecchio stanco…- ghignò Ralph, con un’aria così brilla che tutto avrebbe potuto lasciar pensare, tranne che alla stanchezza.

- Sì, stanco…- fece infatti Glouster di rimando, tracannano un sorso di birra dalla bottiglia già mezza vuota che teneva in mano.

Ralph, per tutta risposta, si abbandonò ad una risata sgangherata, battendogli una mano sulla spalla.

I due continuarono ad avanzare nella foresta, facendosi largo fra le sterpaglie, ridendo e barcollando come due ubriachi, raccontandosi barzellette sconce e passandosi di volta in volta la bottiglia di mano, che diveniva via via sempre più vuota.

- Scherzi a parte…- disse ad un certo punto Ralph, con voce strascicata.- Davvero sono stanco, non mi reggo quasi in piedi…

- Eh, si vede!

- No, sul serio, ma perché il capo ci manda a fare questi lavoracci proprio a quest’ora di notte?- chiese Ralph, visibilmente contrariato.

- Beh, vuole che ci assicuriamo che quello là sia morto…- rispose Glouster, noncurante, e giù un altro sorso di birra.

- Sì, ma perché a quest’ora? Insomma, quando uno è morto non può più andare da nessuna parte, dico bene?

- Che vuoi che ti dica? Lord William è fatto così…ma, d’altronde, con quello che ci paga, di che ti lamenti? Se si vuole campare, bisogna pur fare qualche sacrificio, no?

- Sì, forse hai ragione…- ridacchiò Ralph.

Glouster gli diede una pacca sulle spalle.

- Ora muoviamoci, però. Troviamo quel cadavere alla svelta e torniamocene a casa, sennò facciamo l’alba…

 

***

 

Catherine incespicò, ma riuscì a mantenersi in equilibrio. Sospirò; stava cercando di destreggiarsi in mezzo ad un ammasso di cespugli ed erbacce, ma senza troppo successo. Provò a continuare, ma si accorse che un lembo della sua gonna si era impigliato in un rovo. Tirò la veste, lasciandone un lembo alla pianta. Beh, poco male, si disse, tanto peggio di così…

Fece per proseguire, ma sembrava esserci una forza maligna che faceva di tutto per metterle i bastoni fra le ruote. Infatti, inciampò in una radice, finendo lunga distesa per terra.

Mugolò, cercando di rimettersi in piedi; d’un tratto, però, si accorse di aver toccato qualcosa con una mano. Sollevò lo sguardo; di fronte a lei c’era un ammasso informe ricoperto da terra, foglie e rami. Catherine rimase un attimo immobile nel tentativo di capire cosa fosse, quando si rese conto che, in mezzo a tutto quel pasticcio di terriccio e fogliame, si distinguevano chiaramente degli abiti di pelle tutti sbrindellati. La ragazza ansimò, spostando lo sguardo più in alto; i suoi occhi incrociarono una pupilla morta. Un occhi grigio fisso su di lei, privo di vita, incavato in una metà di volto insanguinata; l’altra metà era stata tranciata via con un grosso morso.

Catherine lanciò istintivamente un grido, scattando in piedi; indietreggiò nervosamente, tremando, incapace di staccare lo sguardo da quello che si era rivelato essere un cadavere. Inciampò nuovamente nelle sterpaglie, scivolando all’indietro.

Cadde a terra, ma prima di toccare il suolo urtò la schiena contro qualcosa che si ritrasse immediatamente al tocco.

- Ehi, ma guarda dove metti i piedi!- le intimò una voce maschile.

Catherine, distesa sull’erba, si sollevò in ginocchio.

A parlare erano stati due uomini, uno grande e grosso con capelli e barba scuri, l’altro piccolo e tarchiato.

- Ma non vedi dove vai?- ripeté il primo.

Catherine si rialzò di scatto, cercando di liberarsi del mantello che la impacciava.

- C’è un cadavere laggiù!- disse, quasi gridando, indicando la pianta dietro alla quale aveva visto il corpo.

I due uomini non parvero molto sorpresi, anzi.

- Davvero?- fece l’ometto.

- Sì, proprio là dietro…è stato sbranato…- aggiunse Catherine, cercando di recuperare la calma.

- Sbranato?- fece eco il bruno.- Oh, capisco…peccato, un’altra vittima…ci dev’essere qualche belva feroce in questo bosco, non è sicuro restare qui…

- Già, concordo - fece l’altro, con uno strano sorriso.

- Ma…- incominciò Catherine, ma si zittì immediatamente.

Prese un bel respiro, cercando di recuperare il sangue freddo.

Hanno ragione, Catherine. Non sei al sicuro, qui. Quello è morto, ormai, non può più farti niente. Non devi preoccuparti dei morti…devi preoccuparti…

Guardò istintivamente i due. Erano ubriachi fradici, si vedeva lontano un miglio, e continuavano a fissarla con un’aria complice e furbesca che non le piaceva per niente.

…devi preoccuparti dei vivi.

D’un tratto, li riconobbe. Li aveva già visti prima, un paio di volte, durante le sue gite in paese. Erano Ralph e Glouster, i due scagnozzi di Lord William. Non sapeva per che cosa lui li pagasse esattamente, ma di certo non godevano di una buona reputazione.

- Sì…sì, è vero…avete ragione, è meglio andarsene…- mormorò Catherine, prima di girare i tacchi e di avviarsi in fretta nella direzione opposta alla loro.

- No, dai, aspetta un momento!- sentì gridare Glouster, mentre i due iniziavano ad andarle dietro, in fretta. Catherine non si voltò.

- Aspetta! Aspetta!- fece l’altro; in men che non si dica, se li ritrovò accanto, Glouster e Ralph, l’uno alla sua destra, l’altro a sinistra. Il primo aveva in mano una bottiglia di birra, mezza piena e mezza vuota.

- Ehi, vuoi rallentare?- non ci pensava nemmeno!

- Ti riaccompagniamo a casa?- propose Glouster.

- No, grazie.

- Sul serio, per noi è un piacere…

- Sono quasi arrivata, grazie - tagliò corto Catherine, con il cuore che pulsava all’impazzata, accelerando ulteriormente il passo.

Sperò che avessero gettato la spugna, ma quei due non avevano intenzione di mollare. Le stettero dietro senza problemi, continuando a sghignazzare.

- Ehi, ma…non ci siamo già conosciuti, noi?- tornò all’attacco Glouster.

La ragazza cominciò ad accusare stanchezza, e si fermò.

- Non credo - rispose, secca.

- Ma sì, ti ho già visto da qualche parte…ah, certo, ora ci sono…tu sei Catherine Kingston, vero? Catherine Kingston, la figlia del mercante…

La ragazza non disse nulla; sperò che il suo silenzio li convincesse a lasciarla perdere e ad andarsene via, ma non fu così.

- Ehi, vuoi rispondere?

- Sì - rispose lei, asciutta.

- Io sono Glouster; lui, invece, è Ralph - e indicò il suo compare, che non faceva altro che sghignazzare.

- Lo so chi siete.

- Sì, certo, certo, giusto per sicurezza, sai…

Catherine non rispose, sostenendo il loro sguardo e cercando di non mostrarsi impaurita, continuando a sperare con tutto il cuore che se ne andassero e la lasciassero in pace. Ma loro non demordevano.

- Ti possiamo parlare un secondo?- biascicò Glouster; Ralph non la piantava di sghignazzare.

- Ho fretta.

Era inutile, quei due non mollavano. Catherine si guardò intorno; era buio, si trovava in mezzo una foresta da sola, in compagnia solo di quei due brutti ceffi, lontana chissà quanto da ogni altro essere umano. Se credeva di aver risolto tutti i suoi guai fuggendo dal maniero di quel mostro, beh, si era sbagliata.

Anche se avesse gridato con quanto fiato aveva nei polmoni, realizzò inorridita, nessuno avrebbe potuto sentirla.

Era piombato il silenzio. Ralph e Glouster continuavano a fissarla con quei due ghigni complici e maligni. Catherine indietreggiò istintivamente, stringendosi nel mantello.

D’un tratto, con uno scatto, Glouster l’afferrò per un braccio.

- Ehi, bella…che ne dici, ti va di divertirti un po’ con noi?

Catherine trasalì; si liberò dalla stretta, e cominciò a correre nella direzione opposta.

- Forza, andiamole dietro!

- Tanto non ci scappi, sgualdrina!

Catherine maledisse di non essere più veloce. Il mantello era pesante, la gonna la impacciava, e il rami e le radici degli alberi non facevano altro che ostacolarla.

Il cuore le batteva all’impazzata, sembrava quasi stesse per scoppiare. Che cosa sarebbe successo se l’avessero presa? Se le avessero messo le loro sudice mani addosso?

- Forza, forza, non lasciamocela scappare!

Catherine cercò di richiamare alla memoria tutto quel poco che sapeva sull’autodifesa; pugni, calci negli stinchi…Ma loro erano in due, due uomini grandi e grossi, e lei era da sola. Come poteva pensare di cavarsela?

Un lembo del mantello s’impigliò in un ramo; Catherine si fermò, tirando con tutte le sue forze per liberarsi. Il mantello si strappò, e lei riprese la sua fuga. Non aveva il coraggio di voltarsi a guardare. Era terrorizzata dal pensiero di ritrovarseli lì, a pochi centimetri da lei. E infatti, sentiva i loro passi sempre più vicini, e le loro urla sempre più nitide.

Continuò a correre, ma gli abiti femminili la impacciavano, e aumentavano sempre di più la stanchezza e la fatica. Provò ad urlare:

- Aiuto! Aiutatemi, per favore!

Ma sapeva che era tutto inutile. Era in un luogo isolato, disabitato, intorno a lei c’erano solo alberi, sassi ed erba, ma nessun altro essere. Ma la disperazione era così forte che ci riprovò ugualmente.

- Aiuto!

Non ti sente nessuno…

- L’abbiamo quasi presa!

Catherine sentì le voci paurosamente vicine; si voltò per guardare, ma inciampò in un sasso. Cadde a terra. S’insudiciò i vestiti, e avvertì un bruciore acuto alle ginocchia e alla mano destra, che vide sanguinare. Ma quello fu niente, in confronto al dolore che provò alla caviglia. Forte, acutissimo, come se delle mani possenti gliela stessero stritolando nel tentativo di spezzarla.

Catherine cercò di ignorarlo e si rialzò, ma non riusciva ad appoggiare completamente la pianta del piede. Le faceva troppo male.

Ralph e Glouster.

Li sentì alle sue spalle. Erano vicini. Cercò di rimettersi a correre, ma tutto quello che riuscì a fare fu zoppicare. Aveva le gambe pesanti, la milza dolorante la costringeva a stare piegata in due, il cuore sembrava saltarle via dal petto, sentiva i polmoni sul punto di scoppiare…

Stava per cadere di nuovo; si aggrappò al tronco di un albero.

Tanto non ce la farai, non ce la farai!

- Eccoti, finalmente!- l’avevano raggiunta.

- Lasciatemi in pace!- strillò con disperazione.

Tentò di riprendere a correre, ma incespicò, e Glouster l’afferrò per la pianta dei capelli. La scosse con violenza, facendola urlare.

- Ecco, abbaia! Abbaia, cagna!

- Lasciatemi, vigliacchi!- gridò Catherine.

- Ah, sì? Hai sentito, Ralph? Questa puttanella ci minaccia, oh, ma che paura!

- Lasciatemi!- cercò di liberarsi, ma senza successo.

- Ma guarda, la gattina ha tirato fuori gli artigli!- ironizzò di nuovo Glouster. Poi, ancora con quello sguardo da maniaco, proseguì:- Ora vedi di chiudere la bocca e di stare ferma, o ti ammazzo quale cagna che sei!

Le tirò un pugno, sulla guancia. Le lasciò i capelli, e Catherine cadde a terra come un sacco vuoto.

Si rialzò subito, ma aveva rinunciato alla fuga. Sapeva che con la caviglia messa in quel modo non ce l’avrebbe mai fatta a scappare, ma non aveva comunque intenzione di arrendersi a quello che sarebbe dovuto essere il suo destino, quella notte.

Si lanciò contro Glouster, serrò le dita nella mano e gli restituì il pugno, colpendolo in pieno sul naso. Probabilmente gli ruppe il setto, perché sentì le ossa scricchiolare.

- Maledetta troia!- le urlò, mentre si portava le mani al viso, che aveva preso a grondare

sangue.

Catherine cercò nuovamente di scappare, ma aveva fatto male i conti. Glouster urlò al suo compare, sempre tenendosi le mani premute sulla faccia, mentre il sangue gli inzuppava la camicia bianca.

- Tienila ferma! Falla stare ferma, ora gliela faccio vedere io…

Ralph le afferrò i polsi, imprigionandoglieli dietro la schiena. Per un attimo Catherine credette che stesse per spezzarle le braccia. Gridò di nuovo.

- Aiuto!

- Falla tacere!- e Ralph le tappò la bocca con una mano; continuò ad urlare, ma si udì solo un mugolio soffocato.

Glouster tolse lentamente le mani dalla faccia: dal naso in giù, era tutta una maschera di sangue. Sembrava aver perso tutta la rabbia, perché le parlò con tono calmo:

- Mi hai fatto male, lo sai?

- Sono contenta, stronzo!

- Ah sì? Sei contenta?

Si chinò. La bottiglia di birra gli era caduta di mano, ma non si era rotta, né il suo contenuto era stato versato; la raccolse da terra, e me la mostrò.

- Sai, Catherine - disse, sempre calmissimo.- Prima eravamo anche disposti a fartela passare

liscia. Sai, una scopata e poi, basta, via, ti avremmo lasciata andare e non ti avremmo più dato fastidio, mi capisci? Ma no, tu hai voluto ribellarti, hai dovuto fare la difficile…mi hai fatto arrabbiare…e non conviene mai a nessuno farmi arrabbiare…quindi, sai che ti dico?

L’afferrò per il bavero del mantello, ricominciando a gridare:- Ti dico che noi la scopata ce la facciamo lo stesso, e poi ti ammazziamo! Oppure prima ti sgozziamo e poi ci facciamo il tuo cadavere, tanto a noi basta che sia caldo, hai capito, schifosa puttana?!

Sollevò in aria la bottiglia, e gliela sfasciò contro una tempia.

La ragazza finì di nuovo a terra a peso morto.

Era stordita. Puzzava di sangue e birra. Il sopracciglio sinistro le faceva male. Si portò a fatica una mano alla fronte, e la sentì umida e appiccicosa. Quando riabbassò la mano, vidi che tutto il palmo era coperto di sangue. Emise un gemito debolissimo, quasi impercettibile perfino a se stessa. Ralph le allungò un calcio in pieno stomaco; mentre Catherine si contorceva dal dolore, tossendo furiosamente, Glouster tornò alla carica, afferrandola per il collo e costringendola a mettersi in ginocchio.

Sono morta, riuscì a pensare, appena prima che Glouster le sbattesse la testa contro la corteccia di un albero.

Ora era accasciata per terra; non aveva più nemmeno la forza di reagire, faticava a respirare, vedeva tutto confuso e annebbiato, mentre una figura – non riusciva a capire chi fosse, se Glouster o Ralph – avanzava verso di lei brandendo in aria la bottiglia rotta.

Falla finita in fretta!

Riuscì a pensare questo, prima di udire, molto vicino, un sonoro nitrito. Si girò, per veder un grande purosangue nero che s’impennava agitando gli zoccoli a pochi centimetri da lei, mentre dalle narici usciva uno sbuffo di fumo.

Catherine si ritrasse di scatto, prima che l’animale tornasse sulle quattro zampe. La ragazza ormai distingueva solo le sagome, ma riuscì comunque a vedere il cavaliere che, mentre un lungo mantello nero sventolava sulle sue spalle, agitava in aria una lunga frusta.

- Ehi, ma cosa…?- iniziò Glouster, prima di venire interrotto da un sonoro e secco schiocco.

Il cavaliere lo colpì con la frusta; un attimo dopo, Glouster era accasciato a terra, guaendo di dolore mentre si nascondeva la faccia con le mani.

- Maledetto bastardo!- ruggì Ralph, scaraventandosi contro il cavaliere, che, però, lo atterrò con un altro colpo di frusta. L’uomo finì a terra accanto al suo compare.

Catherine gemette, osservando l’ombra del cavaliere che smontava svelto dal cavallo, mentre Glouster si rialzava, lanciandosi contro di lui. Il cavaliere, con un gesto fulmineo, estrasse dal mantello un grosso pugnale. La lama scintillò nel buio, prima di calare rapidamente su Glouster. L’uomo emise un grido di dolore, mentre il coltello affondava in una spalla. Il cavaliere ringhiò, affondando ancora di più la lama. La estrasse con la stessa rapidità, esultando quando la vide impregnata di sangue, mentre Glouster indietreggiava barcollando, premendosi una mano sulla ferita.

Il cavaliere non si accorse che Ralph si era rialzato, e ora lo stava aggredendo alle spalle.

- Attento…- soffiò Catherine, sperando che la sentisse.

Il cavaliere si voltò di scatto, pronto a ricevere Glouster; lo afferrò per la casacca, e con una forza fuori dal normale lo scaraventò contro il suo compare, il quale lo trascinò al suolo con sé.

Il cavaliere li guardò, pronto a ricevere il contrattacco, ma i due si rialzarono a fatica, e presero a correre nella direzione opposta.

- Via, via!- ansimò Glouster.

- Ma chi è quello?- Ralph incespicò; il suo compare lo risollevò per la casacca.

- Forza, muoviti! Via da qui!

I due continuarono a correre, sparendo ben presto nel folto della foresta.

Il cavaliere sospirò, voltandosi verso Catherine.

La ragazza non riusciva più a vedere nulla, distingueva solo una figura alta e slanciata con addosso un lungo mantello nero e il capo incappucciato. Indietreggiò istintivamente.

- Come stai?- fece il cavaliere, allungando una mano verso di lei; Catherine la respinse.

- No!- strillò, cercando di allontanarsi.

- Hai la febbre - disse il cavaliere, calmo.- Vieni, ti riporto a casa…

- No! No!- continuò a strillare la ragazza. Aveva davvero la febbre, lo shock era stato fortissimo, non ragionava più.

- Shhht…- fece l’uomo, sfiorandole per un breve attimo una ciocca di capelli corvini, imbrattata di sangue.- Tranquilla, non ti farò del male…- sussurrò.

Catherine sembrò calmarsi; gemette, mentre le palpebre cominciavano a divenire pesanti.

Sentì un fruscio, poi delle braccia forti che le cingevano le spalle; ebbe la sensazione di fluttuare, mentre il cavaliere le faceva poggiare i capo contro il suo petto.

- Bastardi…- sentì ringhiare, prima di avvertire, un attimo dopo, il corpo caldo e ansante del cavallo sotto di sé. Lo sentì muoversi, prima lentamente, poi al galoppo.

Fu l’ultima cosa che sentì, prima di scivolare nel sonno.

 

***

 

Pioveva. Il cielo era grigio metallo, e grosse gocce di pioggia s’infrangevano picchiettando sul vetro della finestra. Rosalie, i capelli biondi sciolti sulle spalle e un fiocco di seta scuro a un lato della frangia e con indosso un semplice vestito nero con un colletto bianco, le osservava distesa sul letto della sorella. Sentì una lacrima solitaria rigarle una guancia, ma non si curò di asciugarla.

Si rintanava nella stanza di Catherine sempre più spesso, ormai. Era l’unico modo per sentirla un po’ più vicina.

Sentì dei passi fuori dalla porta, per poi vedervi entrare Lydia, anche lei con addosso un abito nero.

- Signorina Rosalie…è da un pezzo che vi cerco, cosa fate qui?- chiese Lydia, pur conoscendo già la risposta.

Rosalie fece spallucce, sollevandosi a sedere. Era passato un mese, ormai. Un mese, da quando sua sorella era morta.

Catherine era morta. Rosalie se lo ripeteva di continuo, ma ancora non riusciva a farsene una ragione. Aveva sperato di non dover più provare quella sensazione di tristezza e di svuotamento, la stessa che aveva sentito quando anche sua madre era scomparsa. Ricordava benissimo tutto, della morte di Lady Elizabeth, tutto, il funerale, i fiori, la gente che piangeva…ma per Catherine non c’era stato nulla di tutto questo.

Ancora adesso, a distanza di più di trenta giorni, Rosalie non era riuscita a capire che cosa fosse realmente successo a sua sorella. L’ultima volta che l’aveva vista era stato quando era uscita di casa in fretta e furia per cercare suo padre; poi, papà era tornato, da solo. Si era accasciato sul pavimento, pallido, febbricitante, farneticando frasi sconnesse e parole incomprensibili. L’avevano messo a letto, avevano chiamato il dottore, gli avevano chiesto più e più volte cosa fosse successo e dove fosse Catherine, ma lui non aveva mai risposto.

Infine, dopo una notte di febbre e delirio, il mercante aveva sussurrato: Catherine è morta…

Rosalie si era come sentita cadere, sprofondare in un abisso. Aveva supplicato tantissime volte a suo padre, tra le lacrime, di dirle cosa fosse successo, come fosse morta sua sorella, ma lui non aveva mai voluto risponderle.

Nessuno aveva più rivisto il corpo di Catherine; non c’era stato nessun funerale, ma loro mantenevano comunque il lutto. Il mercante, da quella notte, aveva incominciato a mangiare sempre meno, e raramente usciva dalla sua stanza.

Rosalie sentì che le lacrime le stavano di nuovo salendo agli occhi; Lydia se ne accorse, e corse ad abbracciarla.

- Su, su, signorina, non fate così…- sussurrò, accarezzandole i capelli, cercando a sua volta di trattenere le lacrime.- Non fate così…vostra sorella non vorrebbe vedervi piangere…

- A dire il vero non lo vorrei neanch’io!- esclamò una voce dura e perentoria.

Lydia e Rosalie sollevarono lo sguardo, incrociando quello freddo di Lady Julia, in piedi sulla soglia della porta, anche lei vestita a lutto.

Beh, era un lutto davvero poco doloroso, pensò Lydia, scoccando un’occhiata infastidita alla padrona di casa. Lady Julia indossava un abito di seta nera, con la gonna stretta e le maniche svasate, ma così scollato da sembrare un vestito da sera, più che una veste luttuosa. Lady Julia mostrava chiaramente di non rispettare il lutto, aveva le guance ricoperte di fondotinta, le labbra cariche di rossetto e gli occhi dipinti con l’ombretto, e portava dei gioielli, di cui il più vistoso era un medaglione dalla catenina d’oro con incastonato uno scintillante rubino rosso sangue.

Lydia guardò il medaglione trattenendo una smorfia; avrebbe dovuto immaginare che Lady Julia non vi avrebbe rinunciato, neppure per la morte della sua figliastra.

La moglie del mercante non si separava mai da quel gioiello; lo indossava dovunque, in qualunque occasione, poco importava che non fosse adatto all’occasione o non stesse bene con l’abito che indossava, lei non voleva sentire ragioni. Non se lo toglieva nemmeno quando faceva il bagno, e non aveva voluto rinunciarvi nemmeno il giorno del suo matrimonio, benché quel rubino rosso stonasse incredibilmente con l’abito da sposa che era stato della povera Lady Elizabeth.

Lady Julia lo indossava sempre, e se lo toglieva solo nel momento in cui andava a letto, riponendolo in un portagioie dorato che chiudeva rigorosamente a chiave.

- Rosalie - fece Lady Julia.- Rosalie, quante volte ti ho detto che in casa mia non voglio mocci? Asciugati quelle lacrime, e alla svelta!

- Sì, signora madre - rispose la ragazzina, abbassando lo sguardo e trattenendo a stento la rabbia.

Catherine non aveva mai potuto soffrire la matrigna; e ora, anche Rosalie stava cominciando a conoscerne tutta la perfidia e la cattiveria.

Lady Julia si allontanò dalla stanza, procedendo svelta lungo i corridoio, cercando di reprimere la stizza.

Era felice che quella vipera della sua figliastra si fosse tolta dai piedi, in qualunque modo fosse successo, ma le seccava essere costretta a portare il lutto per quella mocciosa. Quando si fermò di fronte alla stanza del marito, la sua ira accrebbe ancora di più. Quell’omuncolo se ne stava chiuso lì dentro a frignare da un mese. Non aveva nemmeno concluso l’affare per cui era partito, quell’idiota, e ora erano nella stessa situazione di prima, poveri in canna, e per di più ora lei era costretta a dover sopportare due figliastri che detestava e un marito piagnucoloso.

Solo in quel momento si rendeva conto di quale grossolano errore avesse commesso, nello sposare il mercante. Quando era morta la sua prima moglie, lei aveva saputo avvicinarsi a lui con cautela ma con decisione, cercando di fargli capire che lei gli era vicino, e che non era vero che non avrebbe mai più potuto amare nessun altra, come millantava quell’imbecille. Si era mostrata immediatamente gentile e affettuosa con i suoi figli e, benché Catherine si fosse dimostrata fin da subito un osso duro, era riuscita nel suo intento, e aveva convinto il mercante a farla diventare sua moglie.

Lady Julia non era stupida, sapeva che lui l’aveva sposata solo perché facesse da madre a quei tre mocciosi, ma non le importava. Quello che le interessava erano i soldi. Aveva saputo che il mercante era un uomo molto ricco, e si era detta che doveva essere suo.

Lo aveva sopportato e aveva tollerato le sue patetiche carezze finché aveva avuto la sua fortuna, ma ora che si era impoverito, Lady Julia aveva cominciato a perdere la pazienza. Aveva sperato che quella serpe della sua figliastra le tornasse utile e facesse un buon matrimonio, in modo da risollevarli dalla miseria, ma non era stato così. Ora che Catherine era morta le sue speranze erano state infrante e, dal momento che suo marito era diventato non solo povero, ma anche piagnucoloso, Lady Julia non vedeva più il motivo per cui avrebbe dovuto ancora sopportarlo. Il mercante era ormai divenuto solo un fardello per lei, un peso inutile…un peso inutile di cui doveva sbarazzarsi.

Lady Julia ghignò, soddisfatta di se stessa, riprendendo a camminare velocemente, ora decisa sul da farsi, fino a giungere ad una piccola stanza in fondo al corridoio. Entrò; era una delle cose che era riuscita ad ottenere dal mercante. Quella stanza era a sua completa disposizione, nessuno ci poteva entrare e lei la teneva sigillata. C’era un tavolo al centro, su sui era posato, aperto, un grosso libro dalle pagine ingiallite, e intorno degli scaffali, su cui erano impilate decine di boccette con all’interno liquidi dei colori più svariati. All’apparenza, avrebbero potuto sembrare profumi e lozioni, ma Lady Julia sapeva che non era così. Si avvicinò al grande librone, cominciando a sfogliarlo velocemente, alla ricerca di quel che cercava.

Non era difficile, si disse con tranquillità, l’aveva già fatto altre volte.

Il mercante era il suo quinto marito. Il primo l’aveva sposato a sedici anni, un giovane nobile bello e ricco. Così ricco da far venire l’acquolina in bocca; se lui fosse morto, aveva sentito dire una volta da un parente, lei avrebbe ereditato tutto il suo patrimonio.

Lady Julia ghignò; era stato fin troppo facile. Era bastato far imbizzarrire il suo cavallo, che l’aveva disarcionato, e il giovane era morto sul colpo. Ricchissima, aveva potuto convolare a seconde nozze con un importante uomo politico.

La donna lo aveva sedotto e ripulito di ogni suo bene; l’uomo si era dato al vizio insieme a lei, si era ricoperto di debiti, aveva perso credibilità nel mondo della politica e, infine, si era ritrovato senza più nemmeno un soldo, avendo speso fino all’ultimo centesimo per soddisfare i capricci della moglie. A quel punto, ricordò Lady Julia, c’erano stati un po’ di problemi. Lui l’aveva accusata di essere una serpe, solo una sanguisuga che l’aveva rovinato…l’aveva aggredita, e lei, stufa, aveva afferrato la rivoltella e lo aveva colpito in piena fronte. Il delitto passò come la vendetta di un creditore.

Lady Julia, quindi, si era dovuta trovare un altro marito, e la scelta era ricaduta su un anziano medico. Sembrava il meglio che potesse avere: quello del suo terzo marito era un guadagno sicuro e costante, che la faceva vivere da signora. Ma quel dottore di campagna era forse un po’ troppo perspicace; sapeva dei suoi precedenti matrimoni e di com’erano andati a finire e, col tempo, Lady Julia aveva cominciato ad avere dei dubbi che lui sospettasse qualcosa. Beh, poco male: a lei interessavano solo i suoi soldi, non lui. Una notte, quando il marito si era alzato per aprire la finestra di un albergo dove soggiornavano durante una vacanza, lei gli era arrivata in silenzio alle spalle, e lo aveva spinto giù, facendolo cadere dal quinto piano.

Lady Julia sospirò; quello che era andato meglio, forse, era stato il suo quarto matrimonio. Aveva sposato un anziano e ricco vedovo, che non c’era nemmeno stato bisogno di uccidere, dato che era morto naturalmente dopo un anno di matrimonio…Anche se, ricordò improvvisamente, erano seguiti dei seri problemi alla sua morte.

Quella era stata l’unica volta in cui si era vista costretta ad usare la sua magia…

Si riscosse, trovando finalmente ciò che cercava. Lesse la formula sulle pagine ingiallite, quindi afferrò una boccetta contenente un liquido violaceo.

Scese di corsa in cucina, entrando di soppiatto quando vide che non c’era nessuno. Afferrò dal cesto della frutta una succosa mela rossa. La osservò per un attimo, prima di aprire la boccetta e lasciarvi cadere sopra una goccia di quel liquido.

Sorridendo malignamente, tornò al piano di sopra.

Avrebbe preferito che il mercante morisse immediatamente, come tutti gli altri, ma lì non era sola, ucciderlo così avrebbe potuto far insospettire i suoi figli. Era meglio simulare una malattia, un oscuro male che l’avrebbe lentamente portato alla morte.

Non le era mai piaciuto utilizzare la sua magia per uccidere, la trovava una volgare esibizione di potere; ma, come si dice, il fine giustifica i mezzi.

E poi, ghignò, lei era pur sempre una strega…

Arrivò di fronte alla camera del mercante; bussò, per poi entrare senza attendere risposta. Trovò il marito seduto sul letto, pallido, notevolmente dimagrito, con gli occhi cerchiati dal pianto.

- Buongiorno, caro - fece, con voce suadente.

- Buongiorno - mormorò il mercante, senza guardarla, chiuso nel suo dolore.

Cielo, com’è patetico!, pensò Lady Julia, senza smettere di sorridere, accomodandosi sul letto accanto a lui.

- Allora, come ti senti?

- Come vuoi che mi senta? Mia figlia è morta!- singhiozzò l’uomo, gettandosi le mani nei capelli.

Non era riuscito a perdonarsi di aver abbandonato così Catherine. Era certo che quel mostro l’avesse uccisa non appena lui se n’era andato e, se anche non fosse stato così, a quest’ora, nel buio e nel freddo di quella cella, la sua bambina era di sicuro morta di stenti.

Lady Julia gli diede due o tre lievi pacche su una spalla, noncurante.

- Ti ho portato qualcosa da mangiare - disse poi, porgendogli la mela.

Il mercante voltò la testa di lato.

- Grazie, ma non ho fame.

- Ma devi mangiare qualcosa - insistette Lady Julia, fingendosi preoccupata.- Sei così sciupato…Catherine non vorrebbe vederti così…

- Catherine…- mormorò il mercante, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani.

- Catherine, riposi in pace, povera fanciulla…Ma la vita continua, tesoro mio. Tu devi mangiare qualcosa - tornò all’attacco Lady Julia, porgendogli di nuovo la mela.

Il mercante la guardò, titubante.

- Andiamo…solo un morso. Fallo per me…- sorrise la donna, civettuola.

Il mercante sorrise brevemente, prendendo il frutto fra le mani.

- E va bene…- acconsentì.

- Bravo. Mangia e poi riposati un po’, devi essere così stanco…

Il mercante guardò la mela. Aveva l’aria di essere molto buona…

Si chinò su di essa, e le diede un piccolo morso.

Lady Julia sorrise, trionfante.

- Perfetto…Buona, non è vero?- chiese.

Il mercante sorrise.

- Deliziosa. E hai proprio ragione: penso che mi riposerò un po’, ora. Sai, improvvisamente mi gira la testa…- disse l’uomo, stendendosi a letto.

Lady Julia gli tastò la fronte con una mano.

- Oh…ma tu hai la febbre!- esclamò, fingendosi preoccupata.

- Ne sei sicura?- domandò il mercante, che effettivamente cominciava davvero a non sentirsi troppo bene.

- Certo che sì! Manderò immediatamente a chiamare il dottore. Tu ora, però, riposati e cerca di guarire - gli rimboccò le coperte con fare affettuoso.

Il mercante sorrise, mentre lei si dirigeva velocemente verso la porta.

- Sei un tesoro - disse l’uomo, con voce roca.- Ti amo.

- Ti amo anch’io, tesoro - rispose Lady Julia, prima di uscire dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Una volta fuori, Lady Julia rimase per diversi minuti immobile in mezzo al corridoio deserto.

Era solo questione di tempo, si disse, e lei avrebbe potuto essere libera, libera di trovare un altro marito e di arricchirsi.

Presto quell’idiota sarebbe morto, pensò, mentre un sorriso malefico le si dipingeva lentamente sulle labbra.

 

Angolo Autrice: Allora, che dite? Meglio i Teletubbies? Okay, va bene, lo ammetto, meglio i Teletubbies XD. Cavolo, mi vieteranno ai minori di 18 anni…questo orrore di capitolo lo possono leggere solo delle persone adulte, altroché!

Spero di non avervi annoiato e di non aver deluso le vostre aspettative, se sì, chiedo umilmente perdono…Dunque, non vi chiedo chi sia il salvatore di Catherine perché sarebbe una domanda idiota (lo sanno anche i Teletubbies! Okay, la pianto… J). Cosa succederà alla nostra Cathy nel prossimo capitolo? E il padrone metterà da parte la sua cattiveria, dando modo a Catherine di affezionarsi a lui?

Per quanto riguarda la mela, è un palese riferimento alla favola di Biancaneve, anche se la mela avvelenata data al mercante è un po’ dissacrante, lo so…Comunque, non potevo farlo morire subito perché il padre di Cathy mi serve vivo, e se l’avessi ucciso sarebbe stato troppo x la poverina…

Cosa succederà al mercante? Troveranno il modo per salvarlo o rimarrà vittima dei malefici di Lady Julia o, peggio ancora, qualcuno sarà costretto a sbaciucchiarselo per svegliarlo dal sonno eterno?

A questi interrogativi atroci troverete risposta solo leggendo i prossimi capitoli, che spero vi piaceranno.

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare ilariuccia per aver aggiunto questa ff alle seguite, missballerinafb per averla aggiunta alle preferite e per la sua recensione, e JLullaby ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti e grazie x aver letto!

Baci,

Dora93

  
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