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Autore: Midori_chan    06/05/2012    1 recensioni
CESARE BORGIA/ MICHELOTTO CORELLA
Si svegliò con il calore sulla schiena, ma ricordava perfettamente che l’ultimo suo sguardo era andato ad un cielo terso di nuvole bianche di neve. [...]
Il respiro era calmo e regolare, i passi erano lontani, il momento si stava avvicinando e lui era pronto. [...]
Cesare Borgia era il suo demone, nessuno lo odiava quanto lui e nessuno lo amava quanto lui, viveva per grazia di un equilibrio impostogli proprio da Cesare. [...]
Uno degli uomini gli afferrò i lunghi capelli mori e iniziò a trascinarlo fuori dalla stanza; il Corella non riusciva più a dibattersi quanto la dignità avrebbe richiesto, il veleno aveva fatto il suo corso e non si sentiva più le membra, i muscoli erano tavolette d’argilla e la carne cotone impregnato d’olio.
Genere: Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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Buona sera -perché si, è molto tardi-.
Inizio col dire che questa storia mi è stata commissionata tramite la pagina facebook "Fanfiction su commissione", non cito la persona, ovviamente. 
Passando alla storia: questa è la mia prima originale storica; i personaggi sono Cesare Borgia e Michelotto Corella; ho preso ispirazione da varie fonti, sia storiche come delle cronache, sia dal videogioco e dal manga -insomma, ho accaparrato tutto quello che ho trovato su di loro- e spero quindi di aver fatto un buon lavoro con questa prima parte. La storia difatti avrà due capitoli. Non pretende nulla, non insegna nulla e nn deve lasciare per forza qualcosa, è semplicemente un racconto, magari gradevole, in un contesto storico interessante, ma che ho deciso di trascure. Temo e luogo non sono precisi per non dover forzare alcuni passaggi.
E niente, buona lettura, quanto parlo, alla prossima, Mid_ 

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Si svegliò con il calore sulla schiena, ma ricordava perfettamente che l’ultimo suo sguardo era andato ad un cielo terso di nuvole bianche di neve. Era pieno inverno e perfino nel letto di casa, con un camino che ardeva legna, quella temperatura sarebbe stata strana.
Sentiva formicolii lungo il corpo, colpa delle ferite che lentamente ricordava di aver ricevuto, con calma si impose di controllare il suo corpo per conoscere i danni subiti e i movimenti consentiti.
Prima di tutto capì di essere poggiato su di un fianco, il destro per la precisione, che era quello non ferito da una freccia avvelenata, quella dannata freccia che gli aveva tolto gran parte della forza; subito dopo capì di riuscire a muovere mani e piedi. Con un piccolo sforzo spostò il palmo asciutto della mano sotto il busto per provare ad alzarsi e stava per imporre la forza necessaria quando il calore sulla schiena si espanse sul suo torace.
Abbassò la testa con pazienza, assecondando i pochi movimenti tirati del collo contuso e vide una mano grande sul suo addome che leggera accarezzava i suoi capezzoli. Non sentiva quel tocco, ma poteva immaginarlo per esperienza; riconobbe quella pelle e a confermagli l’identità dell’uomo fu il prezioso anello d’oro massiccio con il simbolo dei Borgia.
Riuscì a prendere sempre più consapevolezza di se e comprese che il torpore sulla schiena proveniva proprio dal corpo del suo Signore.
-Non muoverti!-, ordinò il nobile e la suo voce gli arrivò ovattata, come se fosse lontano dall’altro capo del corridoio.
Obbediente, come solo un servo poteva essere, si distese nuovamente assaporando l’unica sensazione che riusciva a percepire: il calore.
Si addormentò, gli sembrava di essere cullato dal suo Signore, ma sicuramente si sbagliava.
 
Il respiro era calmo e regolare, i passi erano lontani, il momento si stava avvicinando e lui era pronto. Discese l’albero con agilità e con un tonfo soffocato dalle foglie e dal fango atterrò furtivo al limitare della magione. C’era il vantaggio della campagna buia, ma lo svantaggio di guardie ben armate e pronte a far caciara senza badare di infastidire i vicini.
Al centro del grande cortile in pietra due sentinelle giocavano ad un tavolino basso, un otre in una mano e delle monete nell’altra; le spade erano state lasciate appoggiate contro il pozzo poco distante, ma abbastanza vicine per Michelotto.
L’ordine era semplice, uccidere il residente di quella casa, il come e il perché non gli servivano, non gli importavano, se era un ordine del suo Signore andava fatto e basta; non gli era lecito porre domande, tanto la sua anima sarebbe rimasta macchiata sia che quello ucciso fosse un’innocente o un peccatore.
Uno in più uno in meno, si disse con arrendevolezza il Corella, che differenza fa, oramai era condannato tra i diavoli e il suo l’aveva già trovato in vita.
Cesare Borgia era il suo demone, nessuno lo odiava quanto lui e nessuno lo amava quanto lui, viveva per grazia di un equilibrio impostogli proprio da Cesare. Al suo Signore non piaceva nessuno, se ne avesse avuto il potere avrebbe ucciso tutti gli uomini sulla faccia della terra, perfino il padre Rodrigo di cui soffriva particolarmente la presenza. L’unico che sarebbe sopravvissuto a questo massacro era proprio Michelotto, che fedele quanto e forse più di un cane da caccia avrebbe seguito il padrone ovunque: cielo e terra, paradiso e inferno, fin dove si poteva spingere la bramosia di quell’uomo.
Si erano conosciuti giovani all’università e il Corella da subito aveva mostrato un’immensa ammirazione nei confronti di Cesare che pensò bene di sfruttare le sue qualità.
Michelotto Corella era un assassino, un uomo con il sangue freddo, abile e scattante, un cane da caccia. Spesso il Borgia lo premiava con una carezza sulla testa, come si fa con un animale.
All’università di Pisa avevano condiviso libri e giacigli, per quanto il freddo Signore non mostrasse emozioni nei suoi confronti l’assassino sapeva che avrebbe fatto di tutto per avere sempre il suo cagnolino fedele vicino ai piedi.
Per questo quando la freccia arrivò pungente sul fianco il suo primo pensiero non fu quello di scappare, ma bensì quello di portare a termine la missione, al suo ritorno, vivo o morto, ci avrebbe pensato il suo padrone.
Aveva corso in direzione del pozzo per prendere le due lame e sottrarle alle mani delle sentinelle, ma non calcolò il nuovo intralcio del freccia e del veleno postovi sopra; questo lo rallentò e i due uomini riuscirono a prendere le loro spade. Un’altra freccia piovve vicino il suo viso e con un smorfia di dolore si scansò prima di essere colpito, in quell’istante, mentre l’arciere caricava e i due spadaccini spronavano verso di lui riuscì a far scattare l’arnese costruito da uno dei fabbri dei Borgia; con uno strattone dalla manica bianca bordata di rosso* uscì una lama celata**, alzò il braccio al sibilo della dardo e deviò la traiettoria portandola contro uno degli uomini, l’altro spaesato attaccò con meno forza di quanto fosse capace e venne ucciso con facilità.
L’arciere sul tetto poteva aspettare e schivando altri due colpi si nascose sotto il porticato di marmo, da lì fu semplice raggiungere la porta, non c’erano guardie e non erano state nemmeno allarmate dai rumori, troppo soffusi per la grande proprietà.
Una volta dentro estrasse la lama avvelenata lasciandola a terra, si tamponò la ferita come meglio poté e con le poche energie rimaste percorse le scale in tutta calma. La magione vista dall’interno faceva intendere la vera povertà del proprietario, se anche prima era stato ricco, ora non lo era di certo; i muri erano scrostati e rovinati dai cani da caccia che non erano più utilizzati per fare sfoggio di denaro, la mobilia era vecchia e incominciava a mostrare i segni dell’età, dal soffitto ricadevano lunghi capelli grigi leggeri.
Michelotto si spiegava così la mancanza di soldati, non erano tanti quanti Cesare gli aveva detto, ma molti di meno, il che rendeva nuovamente praticabile la missione anche con la ferita avvelenata sul fianco che già doleva.
L’assassino sospinse la porta verde sverniciata per entrare nella stanza privata del signore della casa; l’uomo sedeva con la poltrona rivolta versa l’uscio, il viso in un ghignò inquietante, la mani strette intorno all’elsa di un piccolo pugnale puntato sul torace, una lettera tra la lama e il tessuto rosso scuro degli abiti.
-Se fai un altro passo mi uccido e con il mio sangue macchierò per sempre questo documento che sei venuto a prendere-, minacciò l’uomo parlando con uno strano accento francese.
-Datemi il foglio e sarete vivo-, mercanteggiò Michelotto padrone di se, la consapevolezza, però, che forse c’era qualcuno ad attenderlo.
Il Corella vedeva lungo, difatti non passò molto prima che una decina di passi risuonarono nel silenzio della campagna sopra le scale e poi alle sue spalle. Cesare aveva ragione quindi, di uomini ne disponeva, era stato imbrogliato dall’ambiente e non aveva creduto fedelmente alle parole del suo Signore.
-Torturatelo-, decise l’uomo in poltrona.
Fu contento di essere punito.
 
Il moro ragazzo si risvegliò un po’ ansante dal sogno che poi era una parte degli eventi di non sapeva bene quante sere precedenti. Il fatto di essere stato imprigionato in una cella senza finestre e di non aver ricevuto cibo nel tempo della sua prigionia lo avevano scosso e frastornato.
-E’ ora del pranzo-, disse una voce gentile, sicuramente quella di un qualche servo addetto alle sue cure. La luce illuminava poco la stanza, delle scure tende pendevano davanti la finestra, un po’ per riparare dal freddo e un po’ per gli occhi dolenti del ragazzo che era stato imprigionato nel buio di una cantina.
Aveva avuto fame per tanto tempo, ma ora, con il cibo davanti, gli veniva solo il voltastomaco.
-Non lo voglio-
-Deve mangiare, il Signore le ordina di mangiare-, cercò di convincerlo e sembrava seriamente preoccupato se Michelotto non avesse mangiato.
Un po’ riluttante, ma con tutta l’intenzione di fare quello che il suo padrone gli aveva ordinato, si fece imboccare. Le punta delle dita erano ancora poco sensibili, il veleno, così gli avevano spiegato, addormentava gli arti, primi tra tutti quelli delle mani e dei piedi.
Poggiato con attenzione alla spalliera del letto toccava il lato di questo dove la sera prima si trovava il Borgia, non c’era più il suo ardore, la forma del suo corpo si era disfatta, forse chinandosi ne avrebbe sentito l’odore.
-Il Signore aveva delle urgenze da sbrigare, ma immagino tornerà per constatare il vostro miglioramento-, parlò il ragazzino che a mala pena raggiungeva i quindici anni.
Si accorse di essersi addormentato solo quando svegliandosi la luce da naturale era stata sostituita con quelle di alcune candele e  torce. Michelotto si sedette con cautela e ora con la mente più lucida cercò di cogliere i dettagli della stanza.
Non era molto grande, abbastanza piccola perché si illuminasse con due candele o una torcia, vista così la stanza sembrava una cella.
 
Uno degli uomini gli afferrò i lunghi capelli mori e iniziò a trascinarlo fuori dalla stanza; il Corella non riusciva più a dibattersi quanto la dignità avrebbe richiesto, il veleno aveva fatto il suo corso e non si sentiva più le membra, i muscoli erano tavolette d’argilla e la carne cotone impregnato d’olio. Era una sensazione orribile, ma fu per il suo meglio quando schiantato contro il muro non sentì neppure l’urto.
Qualche osso si incrinò, ma Michelotto non sentì proprio nulla, dalle percosse alle bruciature; fu un inferno felice quello che passò la prima sera.
Venne svegliato con uno schiaffo in pieno viso, l’indolenzimento della guancia gli fece capire che l’effetto comodo della tossina era finito, ora gli aspettava il peggio.
Due uomini lo sostennero mentre un terzo gli legava i polsi alti sopra la testa, toccava a mala pena a terra con le punte dei piedi; un uomo dalla barba incolta rossiccia gli si avvicinò con il coltello levato, afferrò la tunica bianca e la lacerò fino alla vita scoprendogli il torace.
-Questi sono i segni del tuo Signore…-, sogghignò il barbuto premendo la punta contro i rossori sul suo petto fino a farne zampillare fuori alcune gocce di sangue.
Il Corella si limitava ad osservarlo, sapeva che non era ancora iniziato nulla, quelle erano solo misere provocazioni.
-Lamentati con la stessa voce che tiri fuori in certe altre occasioni-, lo stuzzicò ancora passandogli l’affilatura sulla guancia arrossata.
L’assassino dapprima ridacchiò con voce bassa e poi, ripresosi dagli scossoni del suo petto, gli sputò in pieno viso.
 
La porta cigolò sui cardini un po’ arrugginiti e dall’apertura entrò l’imponete figura di Cesare.
Michelotto si riprese dal dormiveglia in cui era lentamente scivolato per la noia e la spossatezza e ora guardava il suo Signore con timore. Non solo era rimasto ferito e prigioniero, ma non aveva neppure ucciso l’uomo indicatogli; malgrado ciò il giovane padrone lo guardava intensamente, ma non con disprezzo come quando lo aveva guardato nelle rare occasioni in cui aveva fallito.
-Hai ripreso le forze?-, domandò senza tanti preamboli sedendosi sul bordo del letto stretto.
-Abbastanza, Signore-, il solito tono vacuo.
-Bene, alzati-, gli ordinò tornando in posizione eretta.
Il Corella si mosse piano, ma con determinazione: spostò una gamba per volta fuori dalle coltre calda di coperte, si spinse con le mani più avanti fino a far toccare i piedi sul pavimento freddo e con un colpo di reni si mise in piedi barcollando.
Fu afferrato dal suo Signore che con pochi movimenti gli infilò una veste sulla testa per coprirgli il corpo nudo.
-Andiamo-, disse tenendo per un braccio l’assassino non stabile sulle proprie gambe.
-Se mi è lecito chiedere…-, provò a formulare la richiesta, ma il nobile lo fermò soddisfacendo la sua curiosità.
-Andiamo a trovare François-.
Percorsero il piccolo corridoio poco illuminato per meno di un minuto e raggiunsero una cella più sporca e maleodorante della sua che invece sembrava una piccola stanza di un modesto ostello.
L’uomo di nome François altri non era che il vecchio sulla poltrona che aveva minacciato di uccidersi con il pugnale.
-Come fa ad essere qui?-, Michelotto lasciò la compostezza per mostrarsi veramente sorpreso della presenza di quella persona.
-Me lo hai consegnato tu stesso, non ricordi?-, confermò il Borgia.
No, non ricordo, si disse.
 
Più che il dolore al corpo sentiva la fame, il suo stomaco brontolava per richiamare il suo padrone della mancanza di sostanze nutritive. Michelotto se ne stava ripiegato su se stesso, difatti quando non veniva torturato lo slegavano, quindi rannicchiato sul suo stomaco per non far sentire i rumori capì di dover scappare prima di morire di stenti.
Fissò l’acqua nella ciotola bassa, era quella di un cane, ma poco gli importava; iniziò a sentirsi imprigionato in quelle forme circolari che andavano a crearsi sulla superficie trasparente.
Fu richiamato alla realtà dall’arrivo del barbuto; quell’uomo aveva preso a torturarlo in un modo diverso da quanto il Corella conosceva: lo violentava.
Il corpo del giovane assassino serviva solo il suo padrone, esclusivamente Cesare Borgia, come indicava la targhetta appesa al suo collo, era una proprietà del nobile.
Eppure l’uomo lo violava più volte in quello che il giovane riusciva a calcolare come un giorno.
-Stai perdendo peso, forse dovremmo darti qualcosa da mangiare, ma il nostro signore non vuole-, gli parlò mentre si accarezzava il membro per farlo indurire. Aveva legato le mani all’assassino, le gambe erano bloccate dal peso dell’altro.
-Perché quello che stai facendo te lo ha ordinato il tuo signore?-, domandò con la voce impastata dal poco utilizzo il giovane, il viso sempre inespressivo.
-No-, rise il più grande afferrandogli la vita stretta e premendosi con forza al suo interno.
Il barbuto lo aveva creduto troppo debole per ribellarsi, ma il Corella rimaneva pur sempre un assassino e come tale ragionava; il suo corpo cercava di tradirlo, ma lui lo piegava ai propri desideri. Si lasciò fottere dal robusto uomo non potendo allontanarlo, ma appena questo finì i suoi comodi con un gemito, la testa alzata nel piacere dell’atto, Michelotto gli afferrò la trachea tirandola con tutta la forza che era riuscito a mettere insieme. L’uomo rimasto senza fiato e sorpreso non riuscì a fermare l’altro mano del Corella che, una volta spezzata la scodella per l’acqua, aveva premuto la punta smussata nel suo occhio arrivando al cervello uccidendolo.
Il più grande si riversò su di lui, il peso del corpo e il sangue uscente a fiotti lo fecero svenire.
Quando si riprese il corpo pesante si trovava ancora sopra di lui e dentro di lui, allontanarlo fu un’impresa da titani, poi con calma cercò di riprendere fiato; se non era venuto nessuno fino a quel momento poteva sperare in qualche altro minuto.
Tolse la grande casacca al barbuto e se la infilò stringendosi la vita con la corda della veste, prese anche un pugnale nascosto nello stivale. Uscito dalla cella trovò il corridoio vuoto, corse a filo del muro fino al tavolo della guardia e mangiò le molliche che questi avevano lasciato della cena, bevve avidamente dalla caraffa di vino annacquato fino a sentirsi dissetato e rinvigorito, poi la gettò a terra.
C’era qualcosa di strano, era impossibile che non ci fosse nessuno a fare da guardia oltre il vecchio barbuto.
Il giovane Corella doveva sfruttare tutte le risorse del suo corpo che l’adrenalina gli stava offrendo e con ansia raggiunse il piano terra, da lì la strada per la stanza privata era semplice da raggiungere.
Nessuna guardia in vista.
Entrò come un demone nella stanza illuminata dal solo camino: il volto scavato dalla fame, gli occhi arrossati, i capelli arruffati.
L’uomo che si era svegliato di soprassalto dal suo letto a baldacchino malandato si arrese subito alla visione orribile e Michelotto riuscì a trascinarlo fuori per il bavero, lo avrebbe usato come scudo contro i suoi soldati, ma una volta uscito nel cortile il suo Signore lo attendeva con ai piedi un fiume di sangue.
 
 
-Il documento?-
-E’ nelle mie mani-, lo rassicurò il suo Signore.
Il vecchio era incatenato a terra tremante, le membra segnate da bruciature grandi e aperte.
Il Corella guardò il padrone che gli fece un gesto con la mano verso l’uomo imprigionato.
Michelotto ricompose la sua maschera inespressiva e con grandi passi raggiunse il piccolo corpo raggomitolato.
-Quanto tempo?-, domandò e l’altro sussultò al tono della sua voce che si era fatta gelida.
-Una settimana-, gli rispose Cesare appoggiato alla porta in attesa degli eventi.
-Una settimana…-, l’assassino si passò più volte quella parola tra i denti, come una litania da chiesa e anche mentre con rabbia picchiava in viso il vecchio continuava a ripetere “una settimana”.
Si era scatenato, una furia distruttiva che ad ogni colpo affondava sempre di più nella pelle dell’uomo; si rimproverò di non avere un pugnale con se per segnarlo con più efficacia.
Il vecchio perdeva molto sangue da ogni dove, ogni centimetro di pelle era ricoperto dal rosso scarlatto e i tratti del suo viso era stati del tutto cambiati a furia di botte.
Il Corella lo stava uccidendo, mancava solo un pugno ben assestato sotto il collo, ma il suo Signore gli toccò una spalla e tutta la sua furia omicida si placò.
-Mi serve per delle informazioni, ma grazie per averlo spaventato a dovere-, si complimentò Cesare accarezzandogli la testa mora.
Michelotto respirava a fatica, lo sforzo di quei gesti lo avevano stremato e si accorse solo una volta fermo del male che provava agli arti.
-Hai bisogno di un bagno e di rifocillarti. Quando avrai fatto questo raggiungi le mie stanze-, così si congedò.
Appena uscì il Corella venne chiamato dallo stesso servo che lo aveva imboccato e una volto seguito il ragazzo entrarono in una stanza spoglia con solo una vasca e un tavolo con sopra dei vestiti puliti.
 
*Richiamo la veste degli Fidawi – i Devoti-, una setta mussulmana che proteggeva il tempio di Gerusalemme nel 1000 circa dai profanatori di reliquie della prima crociata di Urbano II.
 
**Qui richiamo, ovviamente, la lama celata di Assassin’s Creed, il videogioco della Ubisoft ambientato alla fine del 1400.

 
   
 
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