Rea
accompagnò l’amica a chiedere una nuova uniforme, ma senza risultati: le dissero
che sarebbe dovuta andare dal preside, Mephisto Pheles, e che lui avrebbe potuto
provvedere.
“Al preside? A quel clown vestito male,
intendi?”
“Non è un clown vestito male. È un uomo con gusti
particolari, ecco”
“Quelli non sono gusti particolari, quella è cecità unita a
idiozia e ad un po’ di sano masochismo, ecco cos’è” commentò Rea. Laura
sbuffò.
“Smettila! Se gli piace vestirsi in quel modo perché devi
giudicarlo?” chiese.
Nei
corridoi non c’era nessuno, anche perché l’orario di inizio lezione era passato
da un pezzo. Rea si bloccò in mezzo alla strada e fermò Laura, costringendola a
guardarla negli occhi.
“Lui ti piace!” esclamò.
L’amica
arrossì violentemente e abbassò lo sguardo.
“No di certo! Ma ti pare? E poi è il preside, chissà
quanti anni avrà!”
“Fase uno: negazione!”
“Ma smettila! Invece di vaneggiare corri, che siamo in
ritardo anche oggi ed è solo il secondo giorno!” le disse cambiando
discorso.
“Tu non mi piaci, biondina!”
“Non chiamarmi così! Lo sai che non lo sopporto
proprio” si lamentò Laura mentre Rea rideva.
“Non vi sembra inappropriato andare in giro per la scuola
quando dovreste essere in classe, giovani studentesse? Non si addice a fanciulle
come voi gridare così per i corridoi” disse una voce alle loro spalle.
Le
ragazze si voltarono lentamente.
“Ehm…” balbettò Rea. Il preside le stava guardando
sorridendo.
C’era
qualcosa di sinistro nel suo sorriso, come se ci fosse un mistero dietro a
quella faccia.
“Signor Pheles, ci scusi, noi…”
“No, no, no, niente scusa. Andate in classe, su!”
ordinò spingendole verso l’aula.
“Aspetti, io le devo chiedere una cosa!” protestò
Laura.
“Vieni nel mio ufficio più tardi, cara, adesso c’è la
lezione. Nel pomeriggio sarò nel mio studio a sbrigare delle noiose faccende
burocratiche, non farti scrupoli a venire. A dopo!” le salutò scomparendo
dietro l’angolo.
Rea
fissò il punto in cui era un attimo prima.
“Ma quello è tutto matto!” esclamò qualche secondo
dopo.
Non
riusciva a piacerle, era come se un campanellino d’allarme le suonasse in testa.
Quell’uomo portava solo problemi, se lo sentiva.
Passò
il pomeriggio a studiare, di nuovo sola perché Laura era in presidenza. Si
chiese se non stesse diventando un’abitudine, la sua. Dopo aver finito i compiti
guardò l’orologio. Era ancora presto, forse riusciva ad andare sulla torre. Uscì
dalla stanza e guardò in giro: dell’amica nessuna traccia. Si mise a cercare la
porta in fondo al corridoio e andò a sbattere per sbaglio contro un alunno,
cadendo in terra.
“Scusa, non ti avevo visto” disse. Alzò gli occhi e si
ritrovò davanti un ragazzo alto e slanciato, con i capelli neri e gli occhi
azzurri. Le tese una mano.
“Vieni, alzati” la aiutò. Lei afferrò il suo braccio e
si tirò su.
“Tutto a posto?” le chiese. La ragazza
annuì.
“Sì, grazie. Adesso scusami, devo andare” si congedò.
Riprese a camminare, ma non ricordava assolutamente dove fosse la porta per la
torre. Sconsolata, si appoggiò ad una finestra.
“Ma che sto facendo? Sarei dovuta rimanere in camera, con
l’orientamento che mi ritrovo rischio di perdermi ancora, e invece sto girando
intorno da un’ora a cercare una porta trovata per sbaglio ieri sera al buio.
Sono un’idiota” si riprese.
Decise
di tornare in stanza, tanto lì non ci faceva niente.
Sospirando
si voltò, e finalmente lo vide: il corridoio che aveva percorso la sera prima.
Esultò.
Corse
verso la porta e la spalancò, precipitandosi verso la cima.
Stavolta
voleva vedere per bene cosa c’era lassù, senza fuggire. Ci impiegò meno della
volta precedente, sapeva la strada e non aveva paura di ciò che poteva essere
lì. Arrivò all’anello e aprì la botola.
“Respira e vai, l’altezza non deve spaventarti” si
disse. Uscì e sentì il vento sulla pelle. Con la luce del tramonto quella vista
era più bella del giorno precedente: i raggi del sole brillavano sull’acqua e
mandavano riflessi arancioni ovunque.
“Cavolo” esclamò. Avrebbe voluto avere la bravura di
Laura nel disegnare, così avrebbe potuto fermare quel momento.
Si mise
a sedere lontana dal bordo in modo da non vedere direttamente sotto di sé e
chiuse gli occhi. Il vento le accarezzava la faccia, facendola rabbrividire
impercettibilmente. Quel posto era magnifico, non c’era altro da
dire.
Ammirò
il tramonto fin quando le stelle non comparvero in cielo. “Forse dovrei tornare a casa adesso” si disse.
Scese
le scale lentamente e sorrise.
“Buonasera! Com’è andata? Ti daranno la nuova
uniforme?” disse Rea a Laura quando la vide entrare in camera. Si era
stesa sul letto un minuto prima che lei arrivasse. La fissò incuriosita: aveva
un’aria spettrale.
“Sì, non ci sono stati problemi” disse l’altra.
Sembrava
che stesse per cadere da un secondo all’altro, aveva la faccia bianca e gli
occhi vacui.
“Ehi, stai bene?” le domandò
preoccupata.
“Sì, credo di sì… io mi sento solo un po’… stanca”
le rispose.
Fu
l’ultima cosa che riuscì a dire prima che la ragazza la vedesse cadere a terra,
svenuta.
“Laura! Laura!” gridò Rea, in preda al panico. Che
cosa doveva fare? Come doveva comportarsi? La scosse, cercando di farla
svegliare, ma era tutto inutile: non reagiva. Spalancò la porta in cerca di
aiuto, ma non c’era nessuno in giro.
“Vi prego, qualcuno venga a darmi una mano! La mia amica è a
terra svenuta!” gridò. Apparve qualcuno da dietro un angolo e lei si
precipitò verso di lui, col fiatone.
“Ti prego, per favore devi aiutarmi! La mia amica è svenuta
quando è tornata in stanza, non so che fare” lo implorò. Si rese conto
solo qualche minuto dopo che si trattava del ragazzo contro cui aveva sbattuto
nel pomeriggio.
“Tu?” chiese stupita, dimenticandosi per un momento il
motivo per cui era così disperata.
“Che succede? Ci sono problemi?” chiese lui, vedendola
preoccupata.
Lei,
ricordandosi il motivo della sua agitazione, gli spiegò velocemente cos’era
successo e il ragazzo la tranquillizzò.
“In che stanza dormite?”
“Siamo nella 121, nel corridoio dietro l’angolo”
rispose lei.
“Allora vado a chiamare l’infermiera. Tu vedi se riesci a
mettere la tua amica sul letto, io torno subito” le promise. Rea lo
guardò con gli occhi pieni di gratitudine.
“Grazie, grazie, grazie!” disse. Tornò in camera e
cercò di alzare Laura da terra. Doveva aver preso una bella botta in testa,
aveva un bernoccolo gigante sulla fronte.
Non
essendo molto forte le ci volle un po’ per sdraiarla sulle coperte, ma infine ci
riuscì. In quel momento qualcuno bussò.
“Arrivo!” gridò. Spalancò la porta e si trovò davanti
un’infermiera con il viso simpatico e due uomini dietro di
sé.
“E’ qui la ragazza svenuta?”
chiese.
“Sì, è lì, sul letto. Non so che cosa sia successo, è tornata
in camera e ha perso i sensi. È grave?” domandò in preda al panico.
“Fa’ che non sia nulla, fa’ che non sia
nulla…”.
La
dottoressa toccò il polso di Laura, poi le sentì la fronte e le ascoltò il
battito. Sorrise e si voltò verso Rea.
“Sta bene, forse è stata solo un po’ di stanchezza. Che ne dici se la
portiamo in infermeria?” le propose. Sollevata, la ragazza
annuì.
“La terrò in osservazione fino a domattina, tu puoi
rimanere qui se vuoi. Tanto là non ci faresti niente” disse. Rea era un
po’ titubante nel lasciare sola Laura.
L’infermiera
vide che esitava e le mise una mano sulla spalla per farla
ragionare.
“Ascoltami, stanotte non ci faresti niente là, perderesti
solo ore di sonno preziose, invece se rimani qui e ti riposi domattina sarai più
utile alla tua amica. D’accordo?”
“Va bene, non vedo molte alternative” concesse la
ragazza.
Si
guardò intorno, notando solo in quel momento la mancanza di
qualcosa.
“Dov’è il ragazzo che è venuto a cercarvi?” domandò.
La donna ci pensò su un attimo.
“Stai parlando di Rin Okumura? Suo fratello è venuto a
cercarlo e sono andati via insieme” le rispose per poi uscire dalla
stanza chiudendosi dietro la porta.
“Peccato, avrei voluto ringraziarlo” pensò
Rea.