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Autore: phoenix_esmeralda    08/05/2012    6 recensioni
"L’odio è freddo come brina che ti avviluppa, lascia insensibile tutto ciò che tocca. È affilato come ghiaccio e come il ghiaccio è tagliente. Ma l’odio gli permetteva di ricordare che un’ingiustizia era in atto, che lui era destinato ad altro, che un uomo non può trasformarsi in animale, in oggetto, neppure volendolo. Neppure non avendo scelta. L’odio, ferendolo con il suo gelo acuminato, gli diceva che la sua condizione era innaturale e che lui stava solo fingendo di non avere una testa, di non avere una dignità."
PRIMA CLASSIFICATA al contest "Un pizzico di drammaticità, introspezione, nonsense e sovrannaturale" di Sherry Dmp ; Seconda classificata al contest "Libera la fantasia che c'è in te" di ButnowImfeelinggod. Premio Speciale Miglior Personaggio Femminile
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Affamati come lupi viviamo in crudeltà
e tutto sembra perso in questa oscurità.
All'angolo e indifeso ti cerco accanto a me...

... da soli gli occhi non vedono.
Ti penso e cambia il mondo,
le voci intorno a me.
Cambia il mondo, vedo oltre quel che c'è.
Vivo e affondo e l'inverno è su di me,
ma so che cambia il mondo

se al mondo sto con te”

 

(“Ti penso e cambia il mondo” A. Celentano)

 

- 1 -

Marchi di dolore


Il giovane percepisce con chiarezza la goccia di sangue che scivola con percorso irregolare lungo la sua schiena. Ha gli occhi chiusi e questo lo aiuta a concentrarsi sui particolari, a sfumare per qualche secondo tutto il resto. Delinea con gli occhi della mente la piccola macchia rossa che si increspa e si allunga sulla sua scapola, trasformandosi in un serpentello scarlatto che guizza zigzagando su un terreno di pelle rosa. Con la mente, il giovane la segue con attenzione lungo il suo tragitto, senza distrarsi, come faceva da piccolo, percorrendo con il dito i fiumi che gli mostrava il padre sulle mappe.
Errore.
Il dolore si riapre come uno squarcio, lo attraversa di scatto, come un fulmine che lo trapassi dalla testa ai piedi.
Suo padre...
Deglutisce per inghiottire, con la saliva, il nodo di angoscia che gli ostruisce la gola, ma così facendo peggiora la situazione. Non ha più saliva, i liquidi nel suo corpo sono ridotti al minimo, le energie prossime al nulla.
Giace appeso per i polsi in quella stanza maledetta che lo ha trasformato da uomo a bestia, in attesa del destino più atroce che possa schiacciare un principe di Verathan.
Cerca di controllare il respiro, di rallentarlo, torna a concentrarsi sulla goccia di sangue che ormai ha raggiunto le natiche e si è avvallata silenziosa sul suo corpo nudo. Questo lo fa pensare di nuovo a ciò che sta per accadere e per l’ennesima volta gli si mozza il respiro.
No, non c’è modo di fermare il dolore, la vergogna, la disperazione. Gli ultimi mesi sono marchi profondi sulla sua anima, lampeggiano nella sua mente ininterrottamente, con grida laceranti. Lo costringono a prestar loro attenzione, sempre, quasi non esistessero altri pensieri che quelli. E la sua angoscia diventa immagini che un’altra volta scorrono senza controllo dietro alle sue palpebre chiuse.

L’assassinio di suo padre. Silenzioso, inaspettato.
Trovare il suo corpo accoltellato, riverso nel sangue, nel suo giardino privato. Il re di Verathan, dignitoso, solido e incrollabile, ridotto a un’immobilità umiliante, riverso in una posizione innaturale, che lo rende quasi irriconoscibile.
Per il principe, che ha già perso la madre in giovane età, quel padre rappresentava il mondo. Colui che determinava i confini e istruiva a oltrepassarli. L’uomo che gli aveva insegnato l’amore, la dignità, l’onestà, la saggezza.
Aveva pensato immediatamente a Saridan, il crudele, primitivo regno nemico, in guerra da decenni con Verathan. Saridan, governato da re che, generazione dopo generazione, perpetuano la schiavitù più bestiale e rinnovano la guerra con Verathan, attaccando a tradimento, promuovendo stragi barbare, cercando di estendere con i mezzi più biechi il loro dominio crudele su nuove terre.

Ma scoprire la verità era stato il secondo marchio di dolore.

Zio Aratan aveva tradito per avidità. Voleva il trono, il potere, la libertà assoluta d’azione e per questo non aveva esitato un istante a massacrare il fratello, a entrare in combutta con i mercanti di schiavi di Saridan e a vendere il nipote, unico erede rimasto, per un tozzo di pane.
Smerciato come un oggetto superfluo al popolo barbaro che massacrava da anni i suoi uomini. Venduto dall’uomo che aveva la stessa voce, gli stessi colori, gli stessi occhi di suo padre.
Il sorriso di Aratan, mentre i suoi uomini lo marchiavano sulla spalla con il simbolo che Saridan riservava agli schiavi, era stato il primo approccio del giovane alla vera crudeltà.
Poi, la crudeltà era diventata il suo mondo.

Lo portarono a Saridan, nella Casa delle Valutazioni. Ogni schiavo messo all’asta possedeva un libretto personale con i punteggi relativi alle diverse aree di valutazione. Maggiori erano i punteggi - e maggiori le aree con punteggi elevati - , maggiore era il valore dello schiavo.
Lui non concepiva di essere valutato come merce. Lo legarono a un gancio sopra alla sua testa, una donna lo spogliò completamente. L’umiliazione gli tolse il respiro e gli annebbiò la vista.
-“Cosa fate?” – ansimò, ma lei non gli badò. Non lo guardavano mai in faccia, non gli si rivolgevano direttamente. I primi rudimenti della schiavitù stavano scavando nella sua carne i contorni di una verità raccapricciante. Il disprezzo per le barbare usanze di Saridan era un’eredità acquisita. Oggi diventava un veleno corrosivo nelle sue vene.
La donna iniziò a tastargli il volto, controllò le ossa del suo viso, i denti, le orecchie, i capelli. Gli palpò con cura il collo e le spalle, saggiò i pettorali e i muscoli delle braccia. Ogni tanto si fermava e annotava qualcosa nel libretto, scriveva un punteggio seguito da una breve descrizione. Le sue mani scivolarono sugli addominali del giovane, valutarono la sua schiena e infine scesero sulle natiche. A quel punto lui si inarcò, inorridito. - “Non mi toccate! Smettetela immediatamente!”
Lei non gli badò, proseguendo con la valutazione delle gambe, scendendo fino alle caviglie per poi risalire, con orrore del giovane, alle sue parti più intime.
-“Non ci provate, siete disgustosa!” Lei si allontanò per un istante, senza una parola. Afferrò un frustino sottile e si mise alle sue spalle. Il principe imparò il dolore sottile e lancinante della sferza. Lo imparò contando fino a venti, a denti stretti, per non aggiungere a tutta quell’umiliazione quella di sentirsi urlare davanti a quella donna.
Poi lei gli tornò di fronte e valutò, toccando a suo piacimento, i suoi organi genitali. In quel momento il giovane comprese che quando una persona, nonostante i tuoi appelli, non ti guarda negli occhi, ha smesso definitivamente di considerarti un essere umano.

La morte del padre, il tradimento dello zio, il simbolo di schiavitù, l’umiliazione, la frusta. Marchi di dolore invisibili e profondi che attraversano la pelle, la carne e il sangue e raggiungono le ossa. Le stritolano, le deformano, e tu non sei più lo stesso.
Eppure quello non era che l’inizio.

Lo portarono nel salone delle valutazioni, gli diedero calzoni sdruciti al ginocchio, numerati, per distinguerlo dagli altri schiavi. Intorno a lui le valutazioni si susseguivano, gli schiavi correvano lungo un percorso, saltavano ostacoli, combattevano con la spada o corpo a corpo. E gli esaminatori annotavano ogni cosa nei loro libretti, davano punteggi di velocità e resistenza, di agilità e forza, di prontezza di riflessi e strategia.
Il giovane ebbe un capogiro. Non mangiava da due giorni, e a quella vista provava nausea. “Merce” - continuava a pensare e la parola gli rimbombava in testa come un rumore sordo. Erano merce, come i carri che acquistava per il padre all’inizio di ogni nuova stagione e lui prima di decidersi alla spesa, ne saggiava la forza, la resistenza, la manovrabilità. Erano merce come i cavalli della loro stalla, stimati in base alla salute, alla velocità, alla docilità. Merce muta e impotente.
- “Avanti, corri!” Un uomo lo afferrò e lo spinse in pista. Lui si immobilizzò. ‘No’, si disse, ‘Non sarò merce muta’.
- “Corri, sbrigati!” – ripeté l’uomo e aggiunse alle sue parole una sferzata sulla parte nuda delle sue gambe. Lui si sforzò di restare immobile.
“Non intendo correre” – disse piano - “E non farò nulla di quello che mi chiederete, se non riceverò un po’ di rispetto!”
Nonostante quelle parole, l’uomo non lo guardò. Fece un cenno alla donna che l’aveva condotto nel salone e lei si avvicinò.
- “Non mi hai detto che andava rieducato. Pensaci tu”
Lei sorrise, lo stesso sorriso che gli aveva rivolto umiliandolo nella stanza accanto e lui comprese che lei aveva sperato in quel momento.
Mani forti lo afferrarono, lo trascinarono nuovamente nella camera vicina e questa volta lo legarono disteso sulla schiena a una tavola di legno. Mani sopra alla testa, gambe aperte. La donna rivolse loro alcune indicazioni e poi la lasciarono sola con lui.
Gli tolse i pantaloni e ancora una volta lui rimase nudo e impotente di fronte a lei.
“Non hai capito la tua situazione” – sibilò la donna, rivolgendogli la parola per la prima volta – “Tu credi ancora di essere un uomo, ma non sei che una bestia. Dal momento in cui sei stato marchiato come schiavo, sei diventato un oggetto nelle nostre mani.” – salì in ginocchio sulla tavola, le gambe attorno ai suoi fianchi. Chinò il viso sopra il suo – “ Non hai diritto ad alcun rispetto né ad alcuna spiegazione. Non hai il diritto di fare domande né di ricevere risposte. Non ti è consentito parlare, avere opinioni, pensieri né sentimenti. Sei solo un corpo vuoto a nostra disposizione, principe di Verathan. E oggi lo imparerai.”
Nelle mani stringeva una boccetta, gli cosparse un unguento sulla parti intime e lui iniziò a sentir montare l’eccitazione. Le mani di lei sul suo corpo completarono l’opera, salì su di lui per concludere l’atto. L’umiliazione lo marchiò nell’animo a fuoco vivo, fino a strappargli un singhiozzo.
La donna si sollevò e solo allora lui si accorse delle ragazze che erano entrate nella stanza. Giovani schiave, ciascuna con il proprio simbolo di asservimento sulla spalla destra, addestrate a obbedire senza mettere mai in discussione. Questo significava nascere schiavi.
-“ È vostro” – disse loro la donna – “Fate bene il vostro lavoro”
Lo lasciò con loro e loro non fecero che ripetere ciò che lei aveva iniziato. L’unguento, le loro mani sul suo corpo, la violenza... una, due, cinque, dieci volte. Cinque schiave che si alternavano una dietro l’altra, senza riposo, senza rivolgergli una parola, un solo sguardo, come se di lui notassero solo il corpo e quel corpo fosse lì esclusivamente a loro utilizzo. Non c’era spazio per la compassione, per la pietà... per nessuna forma di umanità. L’unguento funzionava ogni singola volta, come una maledizione perpetuata all’infinito, trasformandolo in sola carne, staccando la mente dal suo corpo, come se non gli appartenesse più. Gli strapparono l’anima un pezzo alla volta e quando gli liberarono braccia e gambe e lo lasciarono solo, l’oscurità era così forte che lui non si riconobbe più. Erano le due di notte, lo avevano tormentato per quattordici ore a fila.

L’anima di un uomo può sopportare qualunque dolore. Le ferite affondano nello spirito, ma lo spirito è immateriale e riacquista ogni volta la sua forma. Con alcune ferite può impiegare più tempo di altre, ma torna sempre alla sua forma originale.
Questo lui aveva sempre pensato, prima dei marchi di dolore.
Ma i marchi di dolore si imprimono nello spirito stesso, non lasciano ferite da colmare, ma trasformano lo spazio in dolore pari a loro. I centimetri di spirito, diventano centimetri di dolore, lasciando sempre meno superficie all’anima.
Quando l’anima si accorge di non avere più una casa, l’abbandona.
Quel giorno lui diventò un marchio di dolore senz’anima. Lo trasformarono in bestia.

Il mattino dopo gli diedero da mangiare, perché senza energie le sue prestazioni sarebbero risultate falsate.
Poi lo fecero correre e corse. Saltò quando glielo ordinarono, tirò di spada, combatté corpo a corpo. Studiarono la sua capacità strategica, gli fecero compilare questionari di cultura generale, approfondirono la sua conoscenza delle lingue, analizzarono le sue buone maniere.
Dai loro discorsi comprese di aver raggiunto punteggi sorprendenti in ogni ambito valutato. Erano soddisfatti, perché lui valeva tanto oro quanto pesava.

Da lì lo spostarono in un edificio vicino, dove tenevano gli schiavi valutati in attesa di essere messi all’asta. Li tenevano nudi, ammassati in grossi stanzoni sporchi. Il cibo era scarso, soffrivano il freddo tutto il giorno. Li facevano muovere due volte al giorno, così come facevano con i cavalli, perché al momento dell’asta non sembrassero rachitici.
Ma il suo momento di essere messo in vendita non arrivava mai. Vedeva arrivare in continuazione nuovi schiavi e poi li vedeva caricare sui carri, diretti all’asta. E poi un nuovo carico arrivava. Ma lui non veniva mai chiamato.
Intorno a lui c’erano solo sguardi vuoti, fissi. Gli schiavi non parlavano mai fra di loro, convinti essi stessi di non possedere alcuna iniziativa.
E lui non era da meno. Sapeva che qualunque atto riconosciuto come iniziativa personale l’avrebbe rispedito sulla tavola di legno, alla mercé delle sue torturatrici. Così restava zitto ad aspettare ciò che sarebbe accaduto. Teneva lo sguardo basso e la bocca chiusa e per non sentire la vergogna della sua situazione, aveva smesso di pensare al passato. Nei momenti in cui riusciva a convincersi che la sua vita non era mai stata altro che quella, poteva quasi tirare un sospiro di sollievo. Non esisteva altro modo per sopravvivere.

Il tempo per le bestie non ha significato e lui smise di misurarlo. Ma le stagioni cambiavano e il clima si fece umido, afoso, soffocante, si mantenne caldo e infine rinfrescò nuovamente, cedendo il posto a giornate più brevi e ventose. Sapeva che dovevano essere trascorsi quasi sei mesi, eppure nulla nella sua condizione penosa sembrava mutare.
L’unica emozione che gli era rimasta era l’odio.
L’odio è freddo come brina che ti avviluppa, lascia insensibile tutto ciò che tocca. È affilato come ghiaccio e come il ghiaccio è tagliente. Ma l’odio gli permetteva di ricordare che un’ingiustizia era in atto, che lui era destinato ad altro, che un uomo non può trasformarsi in animale, in oggetto, neppure volendolo. Neppure non avendo scelta. L’odio, ferendolo con il suo gelo acuminato, gli diceva che la sua condizione era innaturale e che lui stava solo fingendo di non avere una testa, di non avere una dignità.
Lui li odiava. Odiava qualunque cosa appartenesse a Saridan, qualunque essere vivente provenisse da quella terra blasfema. L’odio galleggiava sotto la sua pelle, silenzioso e invisibile, per non creargli danno, ma c’era, c’era sempre. Si dilatava nel suo corpo vuoto e lambiva delicatamente i marchi di dolore, mantenendoli vivi e infiammati.
I suoi carcerieri vedevano un corpo vuoto, docile, mansueto. Ma lui era odio e dolore.

Quando seppe il destino che gli era stato riservato, l’involucro in cui si era avviluppato andò in frantumi.
Sentì la parola quasi per caso, non ci prestò veramente attenzione all’inizio, abituato com’era a non dare più importanza a ciò che lo circondava.
Scorter.
Un termine usato solo a Saridan, ma lui ne conosceva il significato. Ogni nobile di Saridan, superata l’età dell’infanzia, aveva diritto a uno scorter. Era la posizione più ambita per qualunque schiavo, ma semplicemente irraggiungibile ai più, poiché servivano punteggi altissimi in ogni ambito di valutazione per potervi accedere.
Se eri scorter diventavi qualcosa a metà fra un valletto e una guardia del corpo per il signore che ti era stato assegnato. E se eri scorter di una dama, molto probabilmente eri tenuto ad andarci anche a letto, soprattutto se era giovane e nubile e il padre aveva bisogno di qualcuno che la tenesse impegnata mentre decideva a quale suo pari darla in moglie.
Lui non aveva pensato di poter diventare scorter, chi metterebbe un principe di Verathan al servizio di un nobile di Saridan? Era follia!
A meno che non si volesse sottoporre il principe di Verathan a un’umiliazione insopportabile.
A questa riflessione giunse lui, quando finalmente capì che era stato acquistato dal re di Saridan in persona, per diventare lo scorter della sua unica erede, la principessa Milanda.
Scorter della principessa ereditaria di Saridan!
Non ci sarebbe stata nessuna asta per lui, poiché il suo libretto di punteggi lo poneva a un tale livello da poter aspirare alle cariche più alte. Presto, un incaricato del re sarebbe venuto a visionarlo di persona, per accertarsi che i punteggi non fossero stati falsati. E poi lo avrebbe condotto a palazzo, nudo, impotente e schiavo, al servizio della crudele principessa di Saridan, che avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni prendendosi su di lui ogni minima rivincita nei confronti di Verathan.
Se c’era qualcosa che lui non poteva sopportare era quello. Così esplose.

“Non diventerò lo scorter degli sporchi sovrani di questo regno!! Non mi venderete a loro o li ucciderò! Mi sentite? Non potete costringermi, non ve lo permetterò!”
Urlava con tutta la voce che aveva e anche se fingevano di non sentirlo perché lui era nulla, lui sapeva che le loro orecchie non potevano ignorare quei suoni. Lo sentivano, lo capivano e li avrebbe costretti ad ascoltarlo.
In effetti capirono bene. Capirono che se non fossero intervenuti, lui avrebbe mandato a monte l’affare più lucroso della loro vita. Non potevano permettere che aggredisse l’inviato del re, che tentasse di ucciderlo o che lo ricoprisse di insulti.
Così decisero, in tutta semplicità, di far sì che non avesse più la forza di ribellarsi.
Lo legarono di nuovo alla tavola di legno e lo lasciarono in balia delle schiave per un tempo che non riuscì a quantificare. Quando loro lo ebbero calmato, lo appesero per i polsi e lo frustarono finché non ebbe più voce per urlare.
Poi smisero di dargli da mangiare. Gli concedevano solo acqua, il minimo indispensabile a non farlo morire, ma non sufficiente a lasciargli abbastanza saliva in bocca per parlare.
I giorni passavano e le sue energie venivano meno. Si assopiva di continuo, destato solo dal bisogno atroce di acqua e dai tormenti della fame, per poi ricadere in un torpore delirante. Le ferite sulla schiena non guarivano, perché ogni giorno si premuravano di dargli una dose fissa di sferzate.
Poi sentì annunciare che finalmente quel pomeriggio sarebbe arrivato l’inviato del re. E non sarebbe stato solo, perché la principessa Milanda in persona sarebbe venuta a valutare il suo acquisto prima di portarlo con sé.
Allora lo appesero per i polsi al centro di una stanza vuota, nudo, in bella vista, dove la principessa avrebbe potuto esaminarlo dalla testa ai piedi con comodo. Rideva, l’uomo che lo legava.
“ Prova a ribellarti ora, bestia!”
Lui alzò la testa e gli morse la mano che ancora stava fissando i nodi. Provò una soddisfazione enorme e non gli importò della razione supplementare di sferzate che gli costò. Né che non gli dessero acqua per tutto il giorno, mentre lì appeso, completamente privo di forze, si accingeva a vivere il momento più umiliante della sua intera vita.



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Ciao a tutti... So di non aver scritto una storia particolarmente allegra, ma mi è scaturita dal cuore esattamente in questo modo...
"Marchi" è un racconto impulsivo, "buttato giù" di getto, senza quasi riflettere e credo che lo stile utilizzato ricalchi perfettamente il
modo in cui è stato generato.
A questo punto, se piacerà o meno, sta a voi dirlo...



  
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