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Autore: Lilmon    09/05/2012    1 recensioni
-La conosci quella strana sensazione, quando guardi in alto, al cielo? Vertigini...-
Genere: Avventura, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo IV
Arbeit Macht Frei

«Chi non è di buona razza in questa terra, è loglio. » [CIT. Adolf Hitler – “Mein Kampf”]

Erano le sei del mattino, il sole batteva ancora debole sulle lastre di pietra che ricoprivano corso Oranienburger e un forte vento scatenava i rami e le foglie dei bassi ciliegi che accompagnavano il viale dall’inizio sin alla conclusione. Una piccola porticina lignea della nuova sinagoga di Berlino si richiuse scricchiolando, ne uscì un piccolo omino incappottato, sembrava avere molta fretta. Nella mano destra portava una piccola valigetta nera, mentre la sinistra era impegnata a tenere salda alla testa una kippah nera finemente decorata con ricami purpurei. L’uomo prese a camminare velocemente, le sue scarpe di cuoio marrone producevano un ticchettio ritmato ad ogni singolo passo. Ma presto quella melodia si fece più confusa, più disordinata; sembravano infatti esserci due suoni sovrapposti, più passi, più persone. L’ebreo si voltò per scorgere se dietro di sé ci fosse qualcuno, ma non vedendo nulla proseguì per la sua strada ed arrivato all’incrocio con corso Tucholsky svoltò a sinistra. L’immensa cupola smaltata dell’edificio di culto stava nascondendosi dietro i tetti degli altri palazzi, quando l’uomo fu nuovamente costretto a voltarsi, udito lo stesso suono di qualche minuto primo. Là, a poche decine di metri, davanti alla serranda grigiastra chiusa di una caffetteria, stava un uomo tutto vestito di nero ed incappucciato. Una spessa felpa e sopra di essa una giacca di pelle lo riparavano dal freddo, i pantaloni di tessuto e due grossi anfibi. L’ebreo stette qualche secondo a guardare quella persona, e subito sentì un tuffo al cuore, poi si convinse di non dover provare timore per uno sconosciuto, rese assioma della sua morale quel proverbio “l’apparenza inganna”, si volse sui suoi passi e proseguì sulla sua strada. Non si può nemmeno immaginare quale terrore potesse provare quel piccolo uomo non appena s’accorse che anche quello strano personaggio aveva ripreso a camminare, e sembrava seguire il suo stesso percorso. Così nei suoi pensieri da strano quale era, quell’uomo incappucciato divenne inquietante, poi da inquietante divenne pauroso, e così aumentò la velocità con cui procedeva per quella Berlino deserta. Si ripeteva “La macchina è là, a pochi passi, devo fare in fretta”. Continuava a voltarsi e rivoltarsi e l’uomo era sempre alle sue spalle: mani in tasca e cappuccio in testa. Aveva già svoltato a destra in via Johannis e poteva scorgere il parcheggio in cui aveva abbandonato la sua vettura, si ritenne salvo. Povero stolto; l’incappucciato si tolse il cappuccio ed accelerò il passo. L’uomo si voltò un’ultima volta per controllare il suo inseguitore, ma ormai era troppo tardi, l’aveva raggiunto. Un giovane, appena maggiorenne, occhi azzurri, naso fine e mascella pronunciata; i capelli, dove non erano stati rasati, formavano una strana figura, che dopo qualche attimo l’uomo capì essere una croce uncinata. –Dove scappi schifoso d’un ebreo?-. Con una spinta l’ebreo si ritrovò a terra, confuso; la sua preoccupazione in quel frangente era che la kippah rimanesse sul suo capo, così non si parò dalla caduta. Le centinaia di fogli contenuti nella valigetta erano ora riversi al suolo, trasportati via dal vento, in dolci turbinii. –Ti prego…- implorava il pover uomo; il ragazzo gli rispose –Oh scusa non t’avevo visto… Vuoi una mano?-, afferrò l’uomo per il cappotto e lo scaraventò contro un’auto grigiastra. Il mal capitato si ritrovò una seconda volta sul freddo asfalto che gli aveva sporcato tutti gli abiti e graffiato il volto. Dopo avergli detto –Sporco pezzente! Non sei nemmeno degno di vivere-, il naziskin iniziò a prenderlo a calci, fin quando del sangue non gli uscì dalla bocca. Poi gli ordinò di alzarsi, urlava –Alzati pezzente!-, -Ho detto alzati, o t’ammazzo!-. Ma proprio in quel momento, quasi un miracolo, passò di lì un’auto e la conducente, accortasi del fatto,iniziò a suonare il clacson ed a dirigersi verso il parcheggio. Il ragazzo si ricoprì il volto, non prima d’aver sputato sull’uomo, e poi iniziò a correre via, veloce come un lupo.

Aveva corso per circa mezzo chilometro, poi, assicuratosi che nessuno lo stesse seguendo, aveva rallentato, avviandosi con calma verso casa. Era una piccola casetta fatiscente tra via Koch e via Wilhelm; l’intonaco bianco stava cedendo scrostato ed eroso da pioggia ed altre intemperie, la muffa ricopriva a grosse chiazze gran parte delle pareti;  il tetto, mal sistemato, lasciava entrare spesso l'acqua. Il piccolo giardino davanti all’abitazione vantava erba incolta, alberi non potati e un vialetto di ciottoli, di cui un  numero irrisorio giaceva ancora nella sua posizione originaria. Quando entrò in casa, tutti i suoi nervi fremevano ancora dall’eccitazione per ciò che aveva compiuto poco più di un’ora prima; si sentiva potente, inarrestabile, in cima al mondo; si sentiva vivo. Urlò –Vecchia?-, nessuna risposta, quindi salì di corsa su per le scale di legno consumato ed entrò in camera sua. Era una stanza spaziosa, la cui pareti erano tutte interamente tappezzate di poster recanti personaggi, immagini, simboli e motti nazisti. Svettava in cima al letto una gigantografia del busto di Adolf Hitler, piena di firme e dolci frasi che gli amici avevano su scritto con un pennarello nero. Sulla scrivania in castagno una TV e null’altro, poi una sedia ricolma di vestiti (forse sporchi) buttati su di essa alla rinfusa. In un angolo v’era un armadio, davanti ad esso stavano una panca per esercizi muscolari ed una grande quantità di pesi. Il ragazzo si tolse la maglietta, la gettò sul letto, si sedette su questa panca, accese una vecchia radio che stava lì vicino per terra ed iniziò a fare esercizi. “Un! Due!” si ripeteva in mente, cullato, se così si può dire, da vecchie tradizionali canzoni tedesche, “Eisgekühlter Bommerlunder” per citarne una delle più famose. Dopo circa mezz’ora squillò il campanello e il ragazzo, asciugatosi e rivestitosi, scese le scale per vedere chi vi fosse all’ingresso. Riconosciutolo, fece entrare l’amico Ulfart. –Ciao bello!- Disse a gran voce Ulfart non appena lo vide. –Ciao Ulfart!- Rispose il ragazzo, stringendo la mano dell’amico. –Allora Theodor… Com’è andata stamattina?- Domandò l’amico, -Non qua!- rispose Theodor, -La vecchia non c’è, ti faccio salire, vieni!-. La porta si richiuse così  alle loro spalle. Giunti in camera, Ulfart si sedette sul letto, che si piegò sotto la sua enorme mole: 92 Kg per 178 cm. –Ne ho beccato uno! Piccolo, viscido, col sangue negli occhi, come tutti loro. E’ stato fantastico, amico! Mi sono sentito da Dio- iniziò a raccontare il ragazzo; -Ti ha visto qualcuno?- ribatté l’amico; -Non penso… Forse una ragazza…- rispose Theodor. –Cazzo amico! Speriamo non faccia casino quella troia!- disse Ulfart prorompendo in un’inquietante risata. –Ulfart te fai scassare, amico!-, detto questo i due si diedero il classico saluto da adolescenti, sebbene entrambi fossero formalmente adulti. Continuarono a ridere e scherzare per alcune ore, a mezzodì mangiarono qualcosa: un panino fatto con formaggio fresco spalmabile e del prosciutto; poi verso le tre e mezza partirono per il campo.

In circa un’oretta e mezza furono fuori Berlino, vicino al paese di Oranienburg. Presero dunque una stradina di campagna che li portò presso un gruppo isolato di capanni, circondati da un bosco di discrete dimensioni. Ulfart, che guidava, e Theodor saltarono giù dal fuoristrada blu, ognuno col proprio pesantissimo borsone verde militare, aprirono il cancello verde che richiudeva il complesso di edifici e vi entrarono. Un uomo di mezz’età che era seduto su una sedia a pochi passi da loro li salutò vivacemente, e come ogni mercoledì e venerdì gli diede il benvenuto. –Ciao Gustav!- risposero i due all’unisono. Era il guardiano del campo, vigile ed attento che nessuno di sospetto s’avvicinasse mai. I ragazzi quindi entrarono in una specie di casermone di legno, era lo spogliatoio. Ad aspettarli all’interno vi erano i loro due amici. –Sta volta avete fatto tardi, brutti bastardi!-, disse uno dei due alzandosi ed andando a dare loro il benvenuto; tutti ridacchiarono. Theodor disse –Ciao Olaf! E ciao pure a te Helmut!-; Helmut che era rimasto seduto ad allacciarsi uno scarpone rispose con un cenno della testa. Quando poi tutti e quattro furono pronti, uscirono tronfi dal capanno, ognuno con a spalle il proprio fucile. –Il Kapo c’è oggi?- chiese Ulfart agli altri, Helmut rispose di no; -Ha detto però che possiamo usare sia le sagome che i cani, basta che poi puliamo- aggiunse Olaf; -Ottimo!- concluse Theodor. I ragazzi si stavano preparando, ognuno lustrava e puliva la propria arma, la caricava coi proiettili e si disponeva ad una postazione di tiro delle cinque disponibili. –Abbiamo diciannove sagome e quattro cani, uno a testa insomma- disse Helmut, -Sono incazzati almeno?- chiese Ulfart, -Certo! Non mangiano un cazzo da ore e prima ho chiesto a Gustav che li stuzzicasse un po’…- rispose Olaf, che era il capogruppo dei quattro. Theodor ridacchiò e chiese al suo amico –Bastone o laccio?-, -Ha usato il bastone…- rispose Olaf, -Quelle bestie allora saranno completamente su di giri… Figo!- concluse Ulfart. Dopo che ognuno si mise le cuffie, il capogruppo gridò –Ora fracassiamoli tutti quegli stronzi!-; al suo grido tutti iniziarono a sparare alle sagome che avevano davanti agli occhi. C’erano figure d’ebrei, avvolti nei loro classici vestiti neri, con le loro famose barbe squadrate ed i loro caratteristici cappelli multiformi; c’erano donne e bambini, c’erano omosessuali in atti osceni, c’erano neri, c’erano zingari, ma anche vari handicappati, da down a paraplegici. Di tutte queste figure non se ne salvò nemmeno una; con un colpo facevano partire un braccio, un piede; un altro dritto in testa, o nel ventre; un terzo dritto al cuore, od ad un arto. Schegge di legno volavano ogni dove ad ogni colpo sparato dai quattro ragazzi. Quello che rimase di queste sagome alla fine dell’esercitazione erano pezzi di legno deformi quei pochi che ancora rimanevano stabili, gli altri, ridotti in frammenti fumanti, giacevano sparsi in terra come le tessere di un puzzle ancora da iniziare. Toltisi le cuffie, i ragazzi risero e festeggiarono l’eccellente sortita del loro allenamento bevendo delle lattine di birra contenute in un piccolo frigo in un angolo della sala di tiro. Dopo pochi minuti entrò dalla porta Gustav che disse –Allora ragazzi avete finito con le sagome? Com’è andata?-, alla sua domanda rispose Olaf, che disse –Io sette, Ulf tre, come Mut, e quel piccolo bastardo di Theo ne ha prese sei!-, dopo aver riso, continuò –Per poco non mi pigliavi, sarà per la prossima stronzetto!-, Theodor rispose –Certo contaci stronzo!-, Olaf concluse –Povero piccolo Theo, in un anno e mezzo non è riuscito nemmeno una sola volta ad eguagliarmi-. Tutti risero. Poi Gustav batté una volta le mani e disse –Allora, che dite, libero i cani?-. Olaf sogghignò e disse –Va’! E prima di liberarli Gustav-, l’uomo era già sulla porta ma si voltò verso il suo oratore, -Assicurati che siano incazzati neri-. –Certo!- fu la sua risposta. Quando la porta si chiuse i ragazzi si prepararono, poi, uno stridio di trombetta da stadio li avvisò che i cani stavano per essere liberati. Così quei quattro sventurati animali entrarono confusi in quel recinto e iniziarono a correre avanti ed indietro, spauriti e frastornati. Il primo a cadere fu quello macchiato di verde, che spettava a Ulfart, che si alzò subito e si mise a gridare –Cazzo ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!-; in risposta Theodor gli gridò –Sta zitto coglione! Non vedi che ci distrai?-; l’amico gli rispose –Scusa stronzo-. Il secondo a cadere in mille guaiti fu quello di Olaf, che subito dopo disse ad Ulfart –Be’ t’è andata di culo Ulf… Non accadrà mai più, goditela!-, Ulfart rise e poi gli disse –Scemo non vedi che la tua bestia è ancora viva?-. Il cane effettivamente si stava ancora leggermente muovendo, emetteva gracili guaiti ed il suo pelo, come tutta la terra attorno a lui, era zuppo di sangue. –Nessun problema! Lo secco subito!-, un secondo colpo ed il cane crepò definitivamente. Il cane giallo s’avvicinò al cane morto, e per un attimo rallentò. Bastò quell’istante che Helmut lo colpì e disse gridando –Colpito ed affondato…-; gli amici gli fecero i complimenti. Rimaneva unicamente il cane segnato con la vernice rossa, s’era inerpicato su per il colle ricoperto da alberi, e dunque era risultato piuttosto difficile da rintracciare a Theodor. Si ripeteva in mente –Avanti piccolo, avvicinati… Avanti…-. Volle il destino che un corvo s’appoggiasse su uno dei  cadaveri dei cani, il cane rosso incuriosito s’avvicinò. Uscito così dalla boscaglia ed ora resosi ben visibile, quella povera bestia fu un bersaglio facile per Theodor, che con un colpo lo prese in piena testa e l’abbatté. –Cazzo ce ne hai messo di tempo Theo!-, a questa battuta di Olaf tutti i ragazzi risero, compreso Theodor. Dopo che in seguito Gustav fu giunto a complimentarsi, i quattro ripulirono il campo e, una volta portato a termine anche questo loro ultimo compito, andarono a cambiarsi. Nello spogliatoio si accordarono infine su cosa avrebbero fatto quella stessa sera. –Allora è deciso! A mezzanotte davanti al Watergate, tiriamo un po’, magari ci scappa pure una scopata con qualche puttanella e poi ognuno a casa sua!- riassumeva Olaf prima che ognuno prendesse la via di casa. Ulfart infine accompagnò Theodor a casa e poi anche costoro si salutarono. –A dopo!-.

Mangiato qualcosa molto velocemente e poi fattasi una doccia, fu pronto per le undici e mezza, prese la moto e si recò in centro. Berlino, la sera, era una meraviglia in quel periodo: mille luci colorate risplendevano in ogni via, grandi alberi di Natale erano posti in ogni piazza della città, ognuno diversamente decorato, ma tutti parimenti splendidi. Quando Theodor arrivò davanti alla discoteca era dieci minuti in ritardo ed i suoi amici gli urlarono di sbrigarsi. Non appena entrarono nel locale si diressero subito verso il tavolo del loro amico (e spacciatore fidato) Christoph. Egli sedeva su un divanetto rosso in velluto, era vestito di un completo bianco che sul petto lasciava intravedere qualche pelo molto virile, sul volto teneva gli occhiali da sole ed i suoi capelli, completamente impregnati di gel e tirati all’indietro, erano lunghi e neri. Alla sua sinistra stava una ragazza bionda, bellissima e semi nuda; alla sua destra invece era seduta una ragazza mora, anch’essa molto affascinante e quasi completamente svestita. Alof lo salutò e gli disse – Christoph che hai di buono stasera? E che costi poco possibilmente…-; lo spacciatore rispose –Economico e buono, dici… L’incubo di ogni gentiluomo- (egli intendeva con quella categoria qualsiasi persona svolgesse il suo onesto “lavoro”) –Comunque ragazzi, solo per voi, stasera le paste ve le vendo a dieci-. I ragazzi si esaltarono subito e risposero all’uomo –Daccene due pacchetti!-; -Va bene-. Quando i ragazzi ebbero in mano la merce per cui avevano speso tanto, ne presero subito alcune pillole. Le luci divennero tutte fasci magici di seta, in cui il mondo s’avvolgeva e si scioglieva. Le persone divennero un ammasso unico, abnorme di carne calda ed indistinta. La musica sembrava sfondare il cranio, liberare il cervello e farlo volare via, sempre più alto nel cielo, perduto. Lo spirito, libero da ogni gabbia corporea, poteva innalzarsi e divenire puro etere insieme al resto dell’universo. Ma un contatto interruppe tutte queste sensazioni provate da Theodor. Ulfart gli gridò nell’orecchio sinistro  –Theo… Theo! Andiamo a fumarne una!-. Quando i due furono fuori, s’accesero ognuno una sigaretta e commentarono tutte le ragazze che, come loro, stavano là fumando. –Guarda quella quant’è figa!!- diceva l’amico; -Pensa che bocce fantastiche che deve avere! Due meloni!- rispondeva Theodor euforico. Entrambi si piegarono letteralmente dal ridere. Poi Theodor riprese serio –Adesso vado là e ci provo. Quella troia me la deve dare-; l’amico, istigandolo, rispose in tono di scherno –Vai “Latin Lover”!-.

-Ciao bella come va?-. –Chi sei?-gli rispose la ragazza. Era alta, aveva dei tacchi di dieci centimetri, vestiva una corta minigonna nera ed una canotta tutta scollata che lasciava intravedere le forme tonde dei suoi seni. Il viso non erabellissimo, ma a Theodor non importava quasi nulla se non un’unica cosa. –Sono il tuo principe azzurro, tesoro- rispose. –Vattene coglione!- ribatté la ragazza che, voltatasi per andarsene, si trovò bloccata da una mano che esercitava una forza brutale sul suo avambraccio. –Ehi che fai?- Gli chiese la ragazza. Theodor mollò la presa, non disse nulla e se ne ritornò dentro il locale, intanto Ulfart rideva inarrestabile per il fallimento dell’amico. “Cazzo quella troia o me la da, o crepa… Cazzo, non può farlo a me!” rimeditava Theodor, mentre il suo fegato rodeva tra le fiamme dell’inferno. A fine serata dunque Theodor, dopo che aveva puntato per tutto il tempo quella stessa ragazza, la pedinò anche fuori dal locale. Giunto in vista di un vicolo, si decise ad agire. Urlò –Ehi tu senti…-; la ragazza si voltò e non appena lo vide, disse –No senti ancora tu… Che cazzo vuoi da me? Vattene!-. A queste parole Theodor divenne una belva. Le diede uno schiaffo, la prese da dietro, mentre la sua mano sinistra stringeva saldamente e tirava i suoi capelli corvini, e la portò nel vicolo oscuro.

Chiunque fosse passato per via Wrangel quella sera, avrebbe sentito un piccolo rumore molto sommesso. E se costui, fermatosi per ascoltar meglio, avesse teso l’orecchio, avrebbe sentito lievi mugolii. Incuriositosi, avrebbe poi potuto inoltrarsi in quell’antro oscuro, assistendo così ad uno spettacolo raccapricciante. Ma nessuno passò da via Wrangel quella notte della vigilia di Natale, nessuno sentì quei lievi rumori, quei piccoli mugolii, prodotti da una bocca serrata a forza. Nessuno.

  
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