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Autore: Alkimia    09/05/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo quindicesimo
Carte scoperte


~  Napoli, 03 maggio 1871 ~


Sobbalzò quando sentì la porta del suo ufficio aprirsi e poi richiudersi violentemente con un tonfo.
Da un angolo della sua mente, le voci dei fantasmi che si celavano nel suo animo cominciarono a deriderlo. «Sei diventato come tutti gli altri. Sei un debole...».
Erik si alzò in piedi con un moto di irritazione, quasi scagliò via la sedia.
«Signorina Rovesti!» esclamò. Appena si rese conto che era stata Graziana a entrare nel suo ufficio in quel modo tanto brusco, una parte della sua rabbia scemò.
Poteva non ritenere quella giovane donna degna di stima, ma la sua voce era pur sempre un miracolo ed Erik non aveva mai smesso di ammirarla per questo. Né di invidiarla per tante altre cose alle quali preferiva non pensare.
Quando il suo sguardo – uno sguardo leggermente ostile – si posò sul viso della ragazza, si accorse che stava piangendo.
Graziana aveva il viso contratto per lo sforzo di trattenere i singhiozzi, una scia di rossore le velava le guance solcate da una piccola lacrima.
Erik non sopportava il pianto delle donne. Nella sua mente risuonava il rumore vibrante di specchi che andavano in frantumi, illusioni che annegavano e appassivano sopraffatte dalle lacrime.
«Maestro, posso parlarvi?». L'orgoglio della giovane riusciva a tenere ferma la voce, almeno un po'.
La donna chinò il capo, si asciugò due lacrime con la punta delle dita.
Per un attimo Erik pensò che anche quelle fossero il trucco di una brava attrice, ma chi era lui per giudicare l'ipocrisia altrui? Non stava forse fingendo di essere un uomo comune fin dal primo momento in cui aveva messo piede nel San Carlo? Non stava forse rinnegando, giorno dopo giorno, ciò che era sempre stato?
Un uomo ha il diritto di scappare dai proprio fantasmi, ne ha il dovere, anzi. Era arrivato persino a fingere di esserne convinto.
«Sedete, signorina Rovesti» disse infine, indicando con un cenno della mano la sedia vuota davanti alla sua scrivania, troppo stanco per imprimere alla voce un tono che dicesse di più di quel formale invito.
Lei mosse appena il capo in un cenno di diniego e sollevò lo sguardo su di lui. C'era qualcosa nei suoi occhi che le lacrime rendevano simili a specchi d'acqua; Erik si sentì annegare scoprendosi del tutto incapace di fronteggiarla. Qualsiasi fosse il motivo di un atteggiamento tanto melodrammatico da parte della primadonna, lui era...
… sei un debole!
La vece sibilava nella sua mente, come una spira di fumo, densa e impalpabile, come la nebbia sulle sponde del lago sotterraneo.
«Ecco, io...» esordì titubante Graziana, strappandolo alle sue riflessioni. «Devo chiedervelo Maestro, perché state facendo questo?».
L'uomo sospirò impercettibilmente, chiuse gli occhi e quasi pregò che i fantasmi tornassero a fare eco nella sua mente, che gli spingessero nelle vene un po' della sua antica furia, di quel gelo che lo poneva al di là del resto del mondo.
Graziana aggrottò appena le sopracciglia con fare quasi bellicoso e dopo una breve pausa ricominciò a parlare.
«Perdonate se ho l'ardire di sperare che nel vostro cuore serbiate un poco di affetto per me, per tutti noi» dichiarò con impeto. «Ma è per l'affetto che io nutro per voi che mi permetto di venire a parlarvi».
Quei preamboli lo stavano turbando, ma non voleva darlo a vedere. Erik tornò a sedersi e appoggiò le mani sul piano della scrivania.
«Vorrei davvero fare qualcosa per alleviare la vostra pena» borbottò in un tono che smentiva quelle stesse parole, «tuttavia, non riesco a seguirvi».
Graziana si lasciò sfuggire un mezzo sorriso addolorato,
«E perché dovreste? Ci sono così tante cose che non sapete» disse. «Credetemi, signore, le mie parole non sono per giudicarvi. Ma io mi sento in dovere di mettervi in guardia, ho saputo...».
Era paura quella che sentiva raggelargli il sangue e stringergli lo stomaco? Forse i fantasmi avevano ragione. Era davvero diventato un debole.
Probabilmente lo era sempre stato, come chiunque sente la necessità di nascondersi. E ora Erik cominciava a capire che non era più solo per il suo volto, e questa consapevolezza lo rendeva ancora più solo, lo spingeva ancora più in fondo verso il baratro del suo personale inferno.
«Non è mia abitudine impicciarmi negli affari altrui, Maestro, ma in città alcuni ne parlano. Di voi e di quella ragazza».
Tutte le parole di Graziana ora gli sembravano una corda d'arco tesa lentamente per scoccare una freccia con la punta avvelenata dal disprezzo. E c'era davvero tanto disprezzo nel modo in cui aveva detto «...quella ragazza», nella curva ostile delle sue belle labbra.
Per un attimo Erik fu quasi tentato di mettersi a ridere, ma la sua interlocutrice gli apparve così cupa da cancellare ogni minimo segno di ilarità dai suoi pensieri.
«Infatti, signorina Rovesti. Con tutto il rispetto ma credo che non dobbiate impicciarvi dei miei affari.» disse, ritrovando la sua calma, la parte meno umana di se stesso, quella che non accettava alcuna mano tesa perché non era mai stato abituata ad averne. Quella che non conosceva la debolezza, o almeno poteva fingere che fosse così.  
«Ah certo, voi siete un solitario che non si fida di nessun altro al mondo se non di se stesso. Ma poi decidete di dedicare il vostro tempo a quella cagna...» fece la ragazza, la voce di nuovo rotta dall'angoscia, priva di rabbia e colma di preoccupazione.
L'uomo sentì come un fastidioso colpo al petto nel sentire insultare Lucia.
«Dopo tutta questa freddezza verso tutti noi, vi fidate di lei? Di lei?» continuò Graziana tormentandosi i capelli. «Della donna più spregevole che avreste mai potuto incontrare? Non dovete fidarvi delle sue parole, dei suoi sorrisi, delle sue moine...»
«Dovrei fidarmi di voi?».
Graziana restò in silenzio per qualche secondo,
«Non oso chiedervelo. Ciò che vi sto dicendo è per voi, per la vostra pace, io non ci guadagno nulla» concluse con un sospiro.
Menzogne. Era bravo a riconoscerle, ne aveva raccontate tante, a se stesso, a quella bambina che credeva negli angeli... al duca, al signor Marchesi...
Menzogne, bugie che lo offendevano, come se fossero ingiurie contro la sua intelligenza. Che mettevano le ali alla sua rabbia.
L'uomo si concesse qualche secondo e un lungo respiro.
Era consapevole della propria vanità, le sue maniere signorili erano un effetto di quel vizio, quasi come i modi civettuoli delle fanciulle a un ballo di gala. E fu quell'abitudine alle buone maniere perpetuata tanto al lungo, come la parte replicata all'infinito di un attore consumato, a frenarlo dal dire ciò che stava pensando e a costringerlo a cercare parole meno brutali ma che tuttavia bastassero a zittire la primadonna.
Sorrise con freddezza. Una curva che sembrava disegnata gli increspò le labbra e Graziana parve stupita, quasi turbata.
«Signorina Rovesti» le disse in tono leggermente mellifluo, «quello che intendevo dire è che ognuno ha le proprie mancanze. Chi stabilisce che le mie siano più gravi di quelle di qualcun altro, delle vostre, ad esempio? Chi stabilisce chi di noi sia più immacolato?».
Forse non era poi così debole se lo sguardo malizioso e accusatorio che stava rivolgendo alla giovane donna bastò a farla impallidire. E no, stavolta non erano stati i fantasmi a far affiorare quella furia, a trasformare i suoi occhi in pozze di piombo fuso. Era stato qualcosa di profondamente umano; non c'era il soffio gelido di uno spettro nelle sue vene, ma qualcosa di caldo come era normale che fosse il sangue di un uomo.
Graziana scosse il capo con stizza e si morse le labbra.
«Così facendo, Maestro, mi fate torto» mormorò grave. «Io ero venuta per mettervi in guardia da...»
«Mettermi in guardia da Lucia? Sì, usiamo il suo nome, giacché ne ha uno»
«Esattamente, mettervi in guardia da Lucia. Ma voi ora sembra mi stiate accusando di Iddio sa cosa!»
«Dicono che Dio sia onnisciente, ma quello che conta è che lo sapete voi, come lo so anche io» concluse Erik. «E dal momento che voi avete avuto la premura di venire a esprimere un parere, lasciate che ne esprima uno anche io: il signor Marchesi non merita questo. E quando dico il signor Marchesi, mi riferisco al figlio, non al padre».
Graziana strinse le palpebre, fissandolo con un misto di imbarazzo e di collera, inspirando lentamente. Nel silenzio teso che si era venuto a creare, Erik quasi poteva sentire l'aria fremere nei polmoni della donna.
La soprano si voltò e si diresse alla porta, livida in volto.
Si fermò sull'uscio, con la mano appoggiata sulla maniglia,
«Mi avete ferito, Maestro» mormorò cupamente, voltando appena la testa di lato, guardando di sottecchi l'uomo alle sue spalle. «Non è mai bello né conveniente rifiutare l'offerta di un'amica».

*******

~ Parigi, 14 maggio 1892 ~

 


«Da quando ti conosco, mi hai portato solo guai!» esclamò Louis, afferrando distrattamente una coppa di qualcosa di molto costoso e alcolico che un cameriere gli stava servendo da un vassoio di argento. Dovette costringersi a un enorme sforzo di autocontrollo per non mandare giù il contenuto del bicchiere tutto d'un fiato.
Gustave, che era accanto a lui, si voltò flemmatico e lo fissò incredulo,
«Quali guai?» mormorò serafico, con innocenza, come se davvero non avesse capito.
Il sole faceva brillare l'erba del prato perfettamente falciato. Il vento faceva frusciare rumorosamente la stoffa del gazebo di tela bianca.
Il giardino di casa De Chagny era pieno di gente. Louis avrebbe giurato di non aver mai visto tanti frac, tube, merletti, stole di raso... tutti insieme nello stesso posto, nemmeno a teatro.
Festa di compleanno in giardino – idea del visconte Raoul, niente poteva essere più lontano dall'indole del festeggiato. E per quel che lo riguardava, Louis avrebbe preferito darsela a gambe.
«Gustave, chi è tutta questa gente? Dici sempre che non hai amici».
Il ragazzo biondo si lisciò con noncuranza il tessuto della giacca e lanciò un'occhiata vacua all'esercito di dame ingioiellate e signori impettiti disseminati nel giardino della tenuta.
«Infatti. Questi sono amici di mio padre» replicò con una scrollata di spalle. «Quali guai?» insistette.
«Era solo una battuta. Mentirei se dicessi che non sei un tipo bizzarro, ma sei un buon amico». Louis allargò uno dei suoi migliori sorrisi.
«Grazie. Anche tu» mormorò Gustave, con la soavità che gli era propria, senza alcun sorriso, come a sottolineare la genuina sincerità di quella affermazione. «Comunque, tu come stai?».
Il ragazzo italiano si guardò attorno con un certo imbarazzo,
«Mi sentirei molto meglio se non dovessi suonare davanti a tutta questa gente, comunque...»
«No, intendevo come ti senti visto quello che... per la storia di tuo padre, insomma».
Louis deglutì. Come si sentiva? Come se gli fosse stato piantato un paletto nel cuore e il legno fosse stato incendiato e continuasse ad ardere all'infinito. Come se una parte della sua vita fosse andata in frantumi, una statua di porcellana ridotta in pezzi che è impossibile riavvicinare.
«È il tuo compleanno, siamo ad una festa, dovremmo divertirci e non parlare dei miei dispiaceri» concluse abbassando lo sguardo.
«Tu ti stai divertendo?»
«Beh, devo ancora ambientarmi, ma tra qualche minuto, magari...»
«Sì, mi annoio anche io!»
«Non ho detto che mi sto annoiando»
«Ma non hai detto nemmeno che ti stai divertendo».
Louis sospirò, poi si concesse una risata e batté una pacca sulla spalla dell'amico, troppo forte per l'esile Gustave che si ritrovò a barcollare in avanti.
«Figliolo!». Il visconte De Chagny comparve all'improvviso accanto a loro, con un sorriso smagliante e gioviale sotto i baffi biondi. «Che ci fai rintanato in un angolo alla tua festa?».
«Cerco di dimenticare che è la mia festa, padre»
«Oh, non dire sciocchezze! Vieni a salutare i nostri amici»
«Preferisco fare compagnia a Louis, lui non conosce nessuno e non vorrei che si sentisse in imbarazzo».
Raoul De Chagny lanciò un'occhiata amichevole verso il ragazzo italiano,
«Sentirsi in imbarazzo? Un giovanotto così in gamba? Suvvia, figliolo, sono certo che Louis sopravviverà una mezz'ora senza di te» concluse.
«Sì, immagino di sì» dichiarò il giovane con un mezzo sorriso.
Gustave gli lanciò uno sguardo truce,
«Che sacrificio amichevole» borbottò.
L'amico si strinse nelle spalle, come a dire che non aveva potuto fare altrimenti, poi restò a fissare il ragazzo biondo che si allontanava insieme a suo padre e spariva tra la folla. Presto finì accerchiato da un crocchio di anziane signore – probabilmente vecchie parenti – come se fosse stato fagocitato dalle loro ampie gonne di seta.
Louis appoggiò il bicchiere vuoto su uno dei tavolini e si dileguò verso il punto meno affollato del giardino, dove un piccolo spiazzo di mattoncini rosa separava due file di aiuole di begonie.
Fu con un certo imbarazzo che il giovane scorse Madame De Chagny accoccolata in un angolo di un dondolo di vimini addossato al muro di un casotto da giardiniere.
La donna lo notò e sollevò lo sguardo su di lui. Le nubi di pensieri e ricordi addensate in fondo ai suoi occhi sparirono alla luce di un sorriso gentile.
«Vi state nascondendo, Louis?» disse la viscontessa.
«Come voi, a quanto pare»
«Sono una pessima padrona di casa»
«Non so, io al vostro posto avrei sprangato i cancelli all'arrivo di tutte queste persone».
Christine rise e scosse il capo,
«Forse dovrei andare dai miei ospiti e fare compagnia a mio marito. E salvare Gustave» commentò sarcastica.
«Gustave è capace di salvarsi da solo, fidatevi».
«Non è quello che una madre è disposta a pensare, di solito».
A Louis si spezzò il respiro. Cercando di non apparire troppo brusco, si voltò nascondendo il viso per non mostrare alla donna l'espressione di pena che gli era comparsa in volto. Non tutte le madri, avrebbe voluto risponderle. Sua madre lo aveva lasciato solo...
Questo pensiero bruciava, aumentava il dolore che stava provando come una manciata di sale gettata sulla carne viva di ferite aperte.
«Vi sentite bene, Louis?» domandò Christine, alzandosi e avvicinandosi a lui.
«Sì, certamente. Non vi lascerò senza musicista, è il mio regalo per Gustave, e per voi» rispose il ragazzo, ritrovando un'espressione neutrale e tranquilla.
«Per me?»
«Siete stata molto gentile e...».
Christine alzò le mani per zittirlo,
«Non ricominciate. Vi ho già detto che quel poco che abbiamo fatto per voi, lo abbiamo fatto con immenso piacere» asserì. «Sono certa che quando lascerete Parigi, Gustave sentirà molto la vostra mancanza».
Lasciare Parigi. In effetti, ancora non ci aveva pensato, ma di sicuro prima o poi avrebbe dovuto tornare a casa. Appena avrebbe finito di leggere quel diario.
Da quando si era trasferito nella residenza dei De Chagny, non aveva più avuto il coraggio di toccare quelle pagine, era come se ogni ricordo doloroso contenuto tra quelle righe fosse un insulto a quella casa, una mancanza verso quella famiglia così serena e piena di amore.
La prima sera in cui aveva aperto quel vecchio quaderno, aveva creduto che gli sarebbero bastati pochi giorni per terminarne la lettura, ma aveva scoperto che quell'inchiostro pesava come piombo fuso, che non era in grado di leggere più di un paio di pagine alla volta. Le parole di suo padre, a differenza di quanto Louis aveva creduto, non scorrevano sotto i suoi occhi come acqua limpida, ma erano dense, scivolavano lentamente come fango.
«A cosa pensate, Louis?» domandò all'improvviso Christine. «Perdonate se ve lo domando, ma certe volte vi vedo diventare così cupo che ho paura che il sole vi voli via dallo sguardo».
Il ragazzo si sentì arrossire e sentì il cuore riempirsi di qualcosa di simile a quello stesso fango di cui sembravano fatte le parole di Erik.
Il fango tracimò, coprì tutto di nero per un istante.
«Oh, Christine...». Louis stava quasi per singhiozzare. «Avete mai avuto un affetto grande per qualcuno che poi vi ha tradito, non per qualcosa che ha fatto a voi ma per qualcosa che faceva parte della sua natura? Oh... scusate, è una domanda così sciocca».
Il giovane vide la donna schiudere la bocca in un'espressione sorpresa, di colpo fitte nubi tornarono a ombrarle lo sguardo.
«Mi è accaduto, sì, ragazzo mio» disse. La sua voce suonò come se fossa lontanissima, persa in una nebbia che gettava le ombre del passato su quella bella giornata di sole.
«E che ne è stato del vostro affetto per quella persona?».
Christine sorrise, il sorriso più dolce e malinconico che Louis avesse mai visto comparire sul volto di qualcuno.
«È sopravvissuto ad ogni cosa, anche al dolore. Sopravvive ancora».
Quelle parole suonarono inesorabili, come una condanna. In quel momento Louis seppe solo che l'amore per suo padre sarebbe sopravvissuto a ogni cosa, anche all'orrore, anche alla rabbia. Perché aveva amato quell'uomo e, cosa ancora più importante, Erik aveva amato lui.
«Madre, Louis!». La voce di Gustave suonò come il soffio del vento che fa diradare le nubi dopo il temporale, ma non c'era ancora abbastanza sole nella mente del ragazzo italiano.
«Oh, Louis!» Gustave lo afferrò per la manica della camicia strattonandolo verso il giardino. «Ti prego, comincia a suonare...»
«Gustave!» esclamò madame De Chagny in tono di rimprovero. «Che modi sono mai questi?»
«Io ho bisogno che Louis si metta a suonare, così tutta questa gente smetterà di prestare attenzione a me e comincerà a tormentare lui»
«Molto amichevole da parte tua» replicò il ragazzo moro. «Pensi di resistere il tempo che mi occorre per prendere il violino?»
«Non ne sono sicuro».
Christine e Louis si scambiarono uno sguardo divertito, poi la donna si mise sottobraccio a suo figlio e insieme a lui si diresse dove erano raccolti tutti gli altri invitati.
Il giovane musicista andò a prendere il suo Stradivari e raggiunse in fretta una pedana di legno sistemata sotto a uno dei gazebo. In pochi minuti gli sguardi di tutti i presenti furono su di lui e il visconte De Chagny lo raggiunse per fare le dovute presentazioni.
«Miei cari amici» esordì il nobiluomo con un ampio sorriso, «non mi dilungherò in preamboli, ma il giovanotto qui presente pare sia un eccellente musicista. Tuttavia, il nostro Louis è tanto bravo quanto ritroso per cui non voglio rischiare di metterlo in imbarazzo, vi suggerisco semplicemente di prestargli orecchio».
Louis sorrise al visconte e ai presenti che avevano cominciato ad applaudire. Immaginò che doveva essere grato al padrone di casa per quelle parole tanto lusinghiere dettate unicamente dalle buone maniere e dalla fiducia, visto che fino ad allora né lui né sua moglie lo avevano ancora sentito suonare.
Il ragazzo lanciò uno sguardo davanti a sé, al mucchio di facce indistinte che si erano raccolte accanto alla pedana. Non era vero, non era affatto ritroso, aveva passato le settimane precedenti a suonare per puro piacere personale in un bar nel centro di Parigi, ma conoscendo la strana avversione del visconte all'arte e alla musica aveva preferito evitare di fare qualcosa che gli fosse sgradito, per questo in quei giorni aveva ignorato le velate richieste di Christine e le battute infelici di Gustave.
Ma ora era diverso.
Louis sorrise tra sé e sé mentre appoggiava il violino alla spalla. Guardò un attimo ancora le persone attorno a lui, distinse madame De Chagny ancora stretta al braccio di suo figlio che lo guardava con aria incoraggiante e persino un po' incuriosita e impaziente.
Oh, no... lui era tutt'altro che ritroso, era l'esatto opposto di un artista ritroso. Lui amava lasciarsi ascoltare, perché erano coloro che ascoltavano a dare una ragion d'essere a ogni musica. Suo padre gli aveva trasmesso l'orgoglio per lo stupore, la consapevolezza che il fine dell'arte è quello di stupire, di colpire... «L'arte, Louis, è un'arma. La più benedetta delle armi poiché colpisce senza fare male», così diceva Erik.
Il ragazzo chiuse gli occhi.
«L'arte, Louis, è un'arma. La più benedetta delle armi...».
Strinse le palpebre e, immerso nel silenzio che attendeva le sue note, si chiese per l'ennesima volta e con ancora più disperazione come fosse possibile che le mani di suo padre, che sapevano fare cose così belle e straordinarie con un'arma che non ferisce, fossero sporche di sangue.
Il fatto che non vi fosse una risposta a questa domanda apriva un baratro nella mente del giovane, un enorme pozzo buio in cui ogni cosa sarebbe potuta precipitare se non ci fosse stato quell'affetto, enorme, innegabile, senza rimedio. Quel sentimento che come quello di madame De Chagny sopravviveva ad ogni cosa.
Louis sentì le lacrime pungergli gli occhi. Il ricordo di suo padre sommerse ogni pensiero, la sua musica gli pulsò nelle vene allo stesso ritmo del battito del suo cuore. Suonare era come riportarlo un po' più vicino a lui, e questo era un legame che niente al mondo avrebbe potuto recidere.
Appoggiò l'archetto sulle corde. Emise la prima nota, poi la musica ruppe gli argini del silenzio, inarrestabile.
Era una vecchia canzone che suo padre suonava per lui quando era bambino, Louis ricordava vagamente di avergli sentito dire che era di origine svedese. Aveva un ritmo allegro e incalzante eppure non era priva di una certa dolcezza, gli era sempre piaciuta e anche se l'aveva scelta senza pensarci, guidato solo dalla prepotenza di un ricordo, ora cominciava a pensare di aver avuto un'ottima idea, di certo nessuno dei presenti conosceva quel pezzo.
Le note si rincorsero, perfette e sinuose, per lunghi minuti. Alla fine della ballata, Louis sollevò l'archetto dalle corde e alzò la testa con uno scatto, riaprì gli occhi per sorridere agli applausi ma subito cercò con lo sguardo il viso di Gustave e poi quello di Christine. Sperava di vedere un po' di contentezza nei loro visi, sperò di essere riuscito a strappare loro almeno un sorriso di cuore in quella giornata fatta di formali cortesie tra gentiluomini.
Ma quando il suo sguardo ritrovò madame De Chagny in mezzo alla piccola folla, Louis si trovò davanti l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Christine era pallida come un lenzuolo, una statua di sale dagli occhi sgranati, fissi con sconcerto su di lui.
Louis non capì, ma qualcosa nel volto della donna lo raggelò. Sentì un brivido di angosciato stupore scuoterlo fino alle viscere e strinse i pugni attorno al manico del violino.
I presenti erano ancora troppo impegnati ad applaudire per rendersi conto della strana reazione della viscontessa, ma in una manciata di secondi quella piccola ovazione si spense nell'esclamazione allarmata di Gustave.
«Madre! Cosa avete?» gridò il ragazzo.
Tutti si voltarono di colpo verso il giovane, Louis notò con la coda dell'occhio Raoul che si faceva largo tra i presenti, scansando precipitosamente le persone per raggiungere sua moglie.
Christine De Chagny era svenuta, ora giaceva con il volto esangue tra le braccia di suo figlio.  

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Come vi dicevo, in queste settimane non sono a casa, ma dopo qualche peripezia sono riuscita a trovare il modo di postare il capitolo e non rimandare oltre.
Per la prossima settimana dovrebbe essere tutto a posto ;)
   
 
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