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Autore: Blackvirgo    13/05/2012    4 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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14 ottobre

 
Fuoco vivo

L’allenatore entrò in infermeria senza bussare. Si mise in un angolo, a braccia conserte, lo sguardo cupo fisso su Hernandez e sul medico. Era preoccupato: non era sfuggito a nessuno che il portiere aveva fatto le ultime parate col sinistro anche quando non era di mano. E lui aveva paura di aver fatto una grossa cazzata a far scendere in campo Gino nonostante l’infortunio fresco di qualche giorno; non si sarebbe perdonato tanto facilmente se la sua leggerezza fosse costata cara a quel ragazzo.
Gino non riuscì a nascondere una smorfia di dolore quando il medico gli prese fra le mani il polso destro e l’avambraccio. Quella pulsazione dolorosa, che aveva cercato di ignorare in campo, prese a martellargli sempre più forte man mano che le bende venivano sciolte.
“Chiudi il pugno,” gli ordinò il medico, esaminandolo prima con le dita quindi con la sonda ecografica.
“Sto bene”, rispose Gino, eseguendo movimenti lenti e pastosi e digrignando i denti per lo sforzo, senza riuscire a completare il movimento.
“Ora riaprilo.”
“Sto bene,” ribadì Gino, raggiungendo una posizione semiflessa delle dita che gli dava maggior sollievo. “Ahia!” si lasciò sfuggire, quando il medico, poco delicatamente, lo costrinse a estenderle del tutto.
“Sto bene,” soffiò il portiere. Sembrava più un mantra che un’affermazione.
“Non può giocare il secondo tempo,” decretò il medico rivolto all’allenatore, una volta concluso l’esame. “Le dimensioni degli ematomi sono aumentate e la lesione ai flessori sembra essere passata da un primo a un secondo grado abbondante. E anche gli estensori stanno soffrendo.”
“Cosa vuol dire?” volle sapere Gino.
“Che rischi una lacerazione completa dei muscoli dell’avambraccio. Il che potrebbe compromettere molto più di una semplice partita.”
“Questa non è una semplice partita,” replicò Gino, stizzito. Non poteva finire così. Non doveva finire così. “Non mi può fasciare più stretto? Darmi un antidolorifico? Dopo potrò riposarmi, ma almeno mi lasci finire questo incontro!”
“Stupido ragazzo!” lo interruppe l’allenatore severo, mentre il medico scuoteva la testa in segno di diniego. “Vuoi capire che a scendere in campo conciato così fai del male sia a te stesso che alla squadra?”
“Non posso arrendermi così, mister,” insistette Gino. “Se vinciamo questa partita abbiamo una possibilità di passare agli ottavi, ma se perdiamo... se perdiamo è finita!”
L’allenatore continuò a fissarlo, in silenzio.
“Per favore.” Aveva lo sguardo che voleva rimanere fermo, Gino, che non voleva supplicare. E la voce che tremava.
Te lo sto facendo, sospirò l’allenatore. Sto evitando che ti rovini la carriera per uno stupido infortunio che non vuoi lasciar guarire. Non diede la consistenza del suono a quelle parole perché sapeva che sarebbero state comunque vane: aveva avuto anche lui diciannove anni, anzi quando gli era successa la stessa cosa era più vecchio, ma non più saggio. E i legamenti del suo ginocchio erano andati, partita dopo partita e intervento dopo intervento, mettendo una croce sulla sua carriera quando di anni ne aveva solo ventisei. Eppure, ai tempi, una partita aveva avuto molto più valore di una noiosa convalescenza: cosa avrebbe potuto fargli un dannato infortunio di così insormontabile? Ora lo sapeva.
“Rassegnati, Hernandez: non giocherai il secondo tempo.”
Gino non gli aveva mai sentito quel tono così perentorio ed ebbe la netta sensazione che controbattere sarebbe stato inutile, se non dannoso: avrebbe creato inutili tensioni quando serviva solo lucidità da parte di tutti. Chinò il capo, sconfitto: “Cosa devo fare, mister?”
“Continua a fare il buon capitano: dai la fascia al tuo vice e fiducia al tuo secondo.”
Il portiere annuì, serrando la mandibola. Strinse forte gli occhi, giusto per un attimo, per cacciare indietro le lacrime e per trovare un’espressione consona a quello che avrebbe dovuto fare. Crederci ancora. Nei suoi compagni, se non in se stesso.
“A testa alta, Hernandez.” La mano del mister lo costrinse a rialzare il viso, con una carezza ruvida e schietta. “Non hai niente di cui rimproverarti, per cui cammina a testa alta. I tuoi compagni hanno bisogno anche di questo.”
Gino annuì di nuovo, in silenzio.
***
 
Lo spogliatoio era quasi vuoto, gli ultimi ritardatari stavano recuperando le loro cose per poi avviarsi verso il pullman.
Gino stava finendo di riporre nel borsone la sua roba, la mente capace di formulare solo un pensiero – siamo fuori, siamo fuori, siamo fuori – e impedito nei movimenti più elementari dalle fasciature alle braccia. Lo sapeva che servivano a limitargli il dolore, lo sapeva che erano fatte apposta perché i polsi e le dita si muovessero il meno possibile, ma non sopportava di far fatica persino a prender su l’asciugamano bagnato per non parlare dei morsi che si era dato alle guance nei vari tentativi di allacciarsi le scarpe.
Fletté le dita lentamente senza arrivare a toccare il palmo della mano coi polpastrelli: faceva male e aveva l’impressione che quelle mani così malandate non fossero più in grado di reggere niente, neppure il peso della sconfitta. Le sentiva inutili. Anzi, tutto quello che aveva fatto quel giorno si era rivelato completamente inutile. Ogni gesto, ogni parola. Persino ogni speranza. Erano fuori e non aveva potuto impedirlo. Si chinò ancora di più sul borsone, il mento che poggiava sullo sterno, e strizzò forte gli occhi: si sentiva come se avesse tradito tutti quanti. La sua razionalità gli stava urlando che farsi più male di quanto già avesse fatto non avrebbe giovato a nessuno, ma a lui sembrava di aver abbandonato i suoi compagni. Di non essere stato con loro a lottare fino alla fine. E questo gli provocava un dolore nel petto che era molto più forte di quello alle braccia e un brusio nelle orecchie – siamo fuori, siamo fuori, siamo fuori – che sovrastava la voce della razionalità. Si passò una mano sul viso, per ricacciare indietro le lacrime che pungevano dietro le palpebre abbassate e per asciugarne una che non aveva voluto saperne di rimanere al suo posto. In questo le bende dimostravano una certa utilità. Sospirò, una volta di più e chiuse la zip del borsone. Ne prese i manici fra le dita, ma una fitta di dolore al braccio lo fece desistere dal tentativo di sollevarlo. Così non va, pensò, mordendosi il labbro inferiore, ancora più frustrato dal non riuscire a eseguire nemmeno quel gesto così automatico e quotidiano. Infilò il braccio destro dentro i manici con l’intenzione di farli scorrere fino alla spalla con l’aiuto dell’altra mano, ma dovette desistere anche dal completare quel movimento. “Maledizione!” imprecò a bassa voce, liberandosi nuovamente dei manici del borsone e cercando un’altra alternativa.
 
Salvatore era fermo in piedi pochi metri indietro rispetto a Gino. Non sapeva più da quanto tempo non riusciva a staccare gli occhi di dosso al suo capitano. Lo aveva visto strappare al mister il permesso di giocare quella partita per sfinimento, con l’unico risultato di aggravare le proprie condizioni e di essere sostituito comunque. Lo aveva visto provare  a fare l’ottimista, a mettere la fascia al braccio di Alessio con lo sguardo fiducioso, a dare una pacca di incoraggiamento ad Angelo e sorridere a tutti, chiedendo loro di dare il meglio in campo. Ma se Salvatore aveva imparato una cosa, era che Gino non sapeva mentire. Poteva reggere nella parte del bravo capitano, ma lo sguardo con cui aveva seguito gli altri mentre uscivano dallo spogliatoio per giocare il secondo tempo era stato così spento da far male.
E anche durante quel secondo tempo in cui entrambe le squadre avevano ceduto alla paura e si erano asserragliate in difesa, Salvatore aveva osservato Gino mordersi il labbro inferiore – lo faceva spesso, quando era agitato o anche solo pensieroso – e tirarsi le maniche della felpa fin sulle dita, incitare i suoi compagni, osservare – febbrile – ogni passaggio, persino sopprimere l’impeto di alzarsi in piedi e dare direttive anche da lì, da bordo campo. Poi i tre fischi dell’arbitro avevano terminato ogni cosa e lo sguardo del portiere si era di nuovo spento. E a Gentile questo particolare aveva fatto male, senza neanche sapersi spiegare il perché. La camminata con le spalle un po’ ricurve in avanti, lo sguardo per terra, le braccia inerti lungo i fianchi... non  mai visto quell’Hernandez e Salvatore si sentiva combattuto tra il prenderlo per spalle e scuoterlo per farlo tornare come prima o stupire persino se stesso e...
 
“Lascia stare.” Salvatore gli si era avvicinato da dietro, appoggiandogli una mano sulla spalla. Gino trasalì al tocco e si voltò verso di lui. Aveva gli occhi lucidi.
“Ce la faccio,” rispose Gino tornando a chiudere le dita attorno ai manici del borsone, l’ennesima smorfia di dolore sul viso.
Salvatore gli prese la mano con una delicatezza che contrastava con l’espressione severa del suo viso. “Smettila di sforzarti inutilmente,” lo riprese. Non  voleva vederlo penare ancora quel giorno. Aveva già dato anche troppo in quella partita.
Gino sospirò, lasciando pesare la sua mano in quella di Salvatore.
“Hai fatto una gran partita, capitano,” gli mormorò Salvatore, accarezzandogli il palmo della mano con il pollice. “Sia in campo che fuori.”
“Abbiamo perso,” rispose contrito il portiere. Il pomo d’Adamo si alzò e si abbassò velocemente, ma nessun singhiozzo uscì dalle sue labbra. Solo un sospiro.
“Non hai nulla di cui rimproverarti,” aggiunse Salvatore, in risposta alla sua cupezza. Forse Gino aveva bisogno di un abbraccio in quel momento, pensò il difensore, ma lui non era tipo da abbracci. Forse poteva bastargli una spalla, poteva bastargli sapere che, nonostante la sconfitta, aveva apprezzato il suo tentativo disperato per mantenerli in gara, che se solo non avessero annullato quel goal per un fuorigioco dubbio magari sarebbero lì a esultare – e abbracciarsi – per la vittoria e non alle prese con quel goffo tentativo di consolazione.
“Usi le mie parole contro di me?” ribatté Gino con un lampo di allegria negli occhi.
Salvatore si strinse nelle spalle, un sorriso accennato sulle labbra. Se le morse appena – proprio come faceva Gino – prima di lasciargli andare la mano, superarlo e caricarsi il suo borsone in spalla. “L’hai detto tu che quando uno fa del suo meglio poi non dovrebbe avere nulla da rimproverarsi, no?” Si diresse verso l’uscita in silenzio, senza attendere una risposta. Non ne era sicuro, ma lo sguardo di Gino gli era parso sollevato, come se un peso in meno gli gravasse sulle spalle. Un peso che, con il borsone, doveva c’entrare poco o niente...
 
“Ehi, Gentile, ti sei incantato?” lo canzonò Christian sventolandogli le dita aperte davanti agli occhi.
Salvatore, ancora immobile nel punto in cui si trovava, si riscosse dalle sue fantasie, tornando bruscamente alla realtà. Vide Alessio avvicinarsi a Gino e dirgli “Aspetta, ci penso io,” afferrando il borsone del portiere e caricandoselo in spalla. Il centrocampista prese quindi il proprio con l’altra mano e fece cenno al capitano di avviarsi verso la porta.
Christian superò Salvatore, andando a dare una pacca a Gino in mezzo alla schiena e facendolo trasalire. Gli passò un braccio attorno alle spalle, costringendolo a incamminarsi con lui, e, alzando l’altro braccio al cielo, urlò: “Non siamo perdenti: siamo geni incompresi!”
Idiota, pensò Salvatore, invidiando la capacità di Christian di chiudere dentro il campo quel che succedeva in partita e ripartire, fuori, allegro e festaiolo come se nulla fosse successo. Se era deluso, sapeva nasconderlo bene.
Gino, invece, sorrise: non uno di quelli che gli illuminavano tutto il viso, ma, almeno per un attimo, aveva perso quell’espressione alla mi è appena morto il gatto che aveva dalla fine dell’incontro. Sia Gino che Christian erano stati poi costretti a fermarsi da un Alessio incastrato nella porta con i due borsoni. “Ci penso io!” urlò di nuovo Christian lasciando Gino, prendendo una breve rincorsa e scagliandosi addosso ad Alessio a mo’ di ariete. La situazione si sbloccò: i due si sbilanciarono e investirono qualcuno fuori dalla porta. E, considerato  il rosario di maremme che scaturì dall’incastro di arti e corpi, dovevano aver investito in pieno Fabio.
“Non prendertela con lui.”
Salvatore si riscosse dai suoi pensieri, scoprendo di aver Marco di fianco. “Scusa?”
“Stavi guardando Gino con espressione assassina.”
“Stavo...” facendo un viaggio mentale degno di Beautiful in chiave gay. Deglutì. “Ero solo assorto.” Indurì ancora più lo sguardo, sperando di dissimulare che, in realtà, si stava vergognando come un cane. E no, non lo sapeva se per aver avuto quella specie di allucinazione, se perché Christian gliela aveva interrotta o se perché era quello che avrebbe dovuto fare lui, invece che lasciarlo fare ad altri.
“Aaaah!” fece Marco saputo, caricandosi in spalla il borsone. “Se quando sei assorto hai quell’espressione, quando ti incazzi cosa fai? Raggi inceneritori dagli occhi modello Ciclope degli X-Men?”
***
 
Gino non riusciva a stare fermo quando aveva qualcosa che non andava. Non che ci riuscisse quando le cose andavano bene, ma in quel caso, almeno, non veniva preso da quella sensazione di claustrofobia che gli faceva sembrare ogni stanza un luogo asfittico e soffocante.
Dopo cena non se l’era sentita di chiudersi in camera: era uscito per fare due passi e i piedi lo avevano condotto al campo da calcio che, in quei giorni, avevano usato per gli allenamenti. Appena aperto il cancello, Gino inspirò profondamente: l’erba sotto i piedi, il buio della sera appena rischiarato dai lampioni della strada e l’aria fresca riuscivano di dargli una sensazione più vicina al concetto di casa di quanto fosse in grado di fare una stanza d’albergo.
Si diresse verso la porta più vicina e si sedette per terra, appoggiando la schiena al palo e abbracciandosi le ginocchia. Ci aveva provato anche questa volta a mantenere una faccia passabilmente ottimista con i compagni nello spogliatoio. Ce l’aveva messa tutta per far sentire la sua fiducia e il suo appoggio dalla panchina. Ci aveva provato a trovare un appiglio a cui attaccarsi per non perdere ogni speranza. Ma l’espressione che aveva visto sulla faccia del mister gli aveva segato le gambe. Si era dovuto rassegnare alle sue parole: è inutile farsi illusioni. Stavolta erano davvero fuori. Il Giappone era in testa con 6 punti, seguiva l’Uruguay a 3, quindi c’erano loro, 1 punto a pari merito con il Messico. Sarebbe dovuto succedere una miracolo per rientrare in gara: ossia che il Messico battesse l’Uruguay e che loro battessero il Giappone con una differenza reti vantaggiosa. Ma, per quanto fosse ottimista, sapeva bene che quella era pura utopia.
Tirò fuori il cellulare nella tasca dei pantaloni, soppesandolo nella mano. Lasciò vagare lo sguardo sul campo buio e poi più in là, fino alle luci della strada. Un brivido gli corse lungo il collo e la schiena: si chiuse la zip della felpa fino al mento e si tirò le maniche della felpa sopra le dita. L’aria di quella sera era decisamente più fresca e più umida del solito. Farei meglio a rientrare, pensò, ma invece di alzarsi in piedi, appoggiò la fronte alle ginocchia e si lasciò andare a un lungo sospiro. L’anno prima, praticamente con la stessa squadra, erano arrivati secondi alla finale degli europei mentre ora non erano riusciti neanche a superare la fase a gironi. Sapeva di aver dato il massimo in tutti i sensi, ma non riusciva a farci niente se la consapevolezza – o era paura? – di aver deluso persone che credevano in lui bruciava come fuoco vivo. Ancora più della sconfitta.
Digitò lentamente il messaggio, maledicendo le dita indolenzite: “Il mister ha detto che non ci farà giocare contro di voi. Mi dispiace: so quanto ci tenevi. Ci tenevo anch’io.”
Non era riuscito a dare a Shingo la sua sfida e a Salvatore la possibilità di giocare ancora in quel campionato.
Per quanto Shingo avrebbe potuto rimanerci male, sapeva che l’amico gli sarebbe corso incontro alla prossima occasione, ben più preoccupato del suo infortunio che della loro sfida. È solo rimandata, gli avrebbe detto, sorridente e sbarazzino come al solito.
Ma Gentile era fatto di un’altra pasta. Si era sentito il suo sguardo addosso quel giorno, ed era stato uno sguardo severo e per nulla indulgente. Gli aveva chiesto di avere fiducia in lui e nella squadra e, irrazionalmente, si sentiva come se quella fiducia l’avesse tradita. Se tante volte aveva pensato che Salvatore sapesse essere insopportabile e insensibile, ora sentiva di meritarsi ogni crudeltà gli avesse rivolto, che fosse fatta di parole o di silenzi pesanti come macigni poco importava. Con Salvatore non sarebbe bastata una pacca sulla spalla come con gli altri compagni, né un messaggio come con Shingo.
Perché con Salvatore le cose dovevano essere sempre così dannatamente complicate?
***
 
Salvatore era salito in camera, ma quella sera la solitudine – da sempre sua più fida compagna – si stava rivelando più simile a un peso che a un conforto. Si sdraiò sul letto ancora vestito e si infilò le cuffie dell’i-pod nelle orecchie. Mandò avanti una canzone dopo l’altra fino a fermarsi su un pezzo metal in cui basso e batteria la facevano da padrone, trovandola particolarmente adatta al suo umore nonché un ottimo accompagnamento per l’intensa attività cerebrale del momento: fissare diligentemente il soffitto bianco.
Erano fuori davvero, questa volta. Ora non l’attendeva nessuna sfida contro il Giappone, nessun riscatto contro Aoi. Aveva sperato che i suoi compagni potessero vincere contro il Messico e aveva fatto esattamente quello che Gino gli aveva chiesto: avere fiducia. Come aveva sospettato, non era servito a niente. Eppure non si era pentito di essersi fidato del suo capitano. Capitano. Non aveva mai chiamato Hernandez così, prima di quel giorno. Gino. Chissà dov’era finito... Odiava ammetterlo, ma sentiva un fastidioso senso di vuoto quando non l’aveva attorno. Stava diventando possessivo nei suoi confronti e non erano neppure amici. Non so neppure se lo voglio come amico, sospirò incazzato. Si portò a sedere con un colpo di reni, spegnendo l’i-pod e buttandolo sul comodino: aveva già abbastanza confusione in testa senza aggiungerne altra nelle orecchie. Si alzò in piedi, stavolta cauto: il ginocchio continuava a dargli fastidio, soprattutto nei movimenti bruschi e non era il caso di strapazzarlo proprio ora che stava migliorando. Tuttavia anche  quel ginocchio era motivo di rabbia e frustrazione: se avesse potuto sfogarsi in allenamento forse non sarebbe arrivato a quello stato di nervosismo continuo e sfibrante.
Si diresse verso il balcone, e lasciò vagare lo sguardo su quella metropoli che non sembrava avere fine. Sorrise amaro: quella città aveva visto solo le sue debolezze, le sue sconfitte. E non gli aveva dato neppure la possibilità di una rivincita. Per il World Youth non c’erano più possibilità mentre... Forse dovrei crearmela, si disse, il pensiero che tornava a Gino che usciva dall’albergo con le mani in tasca, Gino che negli spogliatoi si faceva aiutare da Alessio, Gino che sorrideva alle idiozie di Christian. E lui – idiota – che stava a osservare senza combinare niente. Senza neanche sperare perché, a essere sincero, non sapeva quello che voleva.
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
Si passò una mano fra i capelli, distogliendo lo sguardo da Tokyo e osservando il braccio appoggiato alla balaustra. Aveva lasciato la felpa sul letto e ora aveva la pelle d’oca. Ma non era il freddo a farlo tremare, a lui non aveva mai dato fastidio il freddo.
Era assurdo il rapporto che, ritiro dopo ritiro e partita dopo partita, aveva costruito con Gino: aveva iniziato con il rendersi odioso – e forse anche ridicolo – e aveva finito con il farsi abbracciare e consolare come un ragazzino. Ma – cazzo! – quanto gli era piaciuto quell’abbraccio: non c’era stata passione, non c’era stato nulla di vagamente erotico, eppure Salvatore, per la prima volta nella sua vita, si era sentito appagato dalla mera dolcezza del gesto. Avrebbe potuto dormirci fra quelle braccia, se ad un certo punto non si fossero messi a ridere come due cretini perché, oltre al sedere gelato, i loro muscoli avevano cominciato a gridare vendetta a suon di crampi per le posizioni contorte a cui li avevano costretti. Solo quando si erano sciolti, Salvatore aveva ricordato quante volte avrebbe voluto avere tra le mani il suo corpo e il desiderio di un contatto molto meno casto lo aveva sferzato da capo a piedi. Avrebbe voluto infilargli le mani sotto la maglia e sentire la sua pelle. Avrebbe voluto baciarlo e togliersi una volta per tutte il dubbio che quelle labbra dannatamente morbide e fresche fossero davvero un ricordo e non solo un sogno. Invece gli aveva detto buonanotte e si era infilato sotto le coperte. E, contro ogni pronostico, ci aveva messo un attimo ad addormentarsi, sentendosi ancora cullato dal suo abbraccio, dalla sua mano fra i capelli, dal suo respiro che gli solleticava una guancia.
Sferrò un pugno contro la balaustra mentre un ringhio smorzato gli uscì dalle labbra.
Come cazzo hai fatto a entrarmi così sotto la pelle?
***
 
Gino entrò in camera senza accendere la luce. Era una cosa che faceva sempre, e Salvatore avrebbe voluto chiedergli perché, ma preferì restare in silenzio e lasciargli credere che stesse già dormendo. Sarebbero state complicate le parole, quella sera: erano entrambi nervosi e sarebbe stato facile fraintendersi e, forse, anche litigare. E Gentile non aveva più nessuna voglia di litigare con lui. Meglio osservarlo, in silenzio, trattenendo anche il fiato perché un respiro più grosso degli altri non lo tradisse. C’erano abitudini che in altre persone lo avrebbero persino innervosito, ma viste su Gino lo facevano sorridere: tipo il fatto che si togliesse le scarpe allacciate e poi dovesse slacciarle per infilarsele di nuovo oppure – come in quel momento – che si togliesse la felpa e la maglietta in un unico movimento, per poi passare i successivi cinque minuti a districare i due capi e a rimetterli per il verso giusto. Per la prima volta, da quando erano in Giappone, Salvatore ringraziò quelle maledette tende che non schermavano abbastanza la luce, facendo sì che il sole lo svegliasse puntualmente all’alba ogni mattina. Ora invece, i lampioni fuori dall’hotel e i fari delle auto di passaggio gli permettevano di osservarlo senza essere visto, come poche volte si era concesso prima. Aveva le spalle larghe, Gino, una schiena che sembrava fatta per metterci sopra le mani e l’attaccatura a v dei capelli sul collo che pareva chiedere di essere baciata e mordicchiata. Salvatore deglutì a vuoto, lo sguardo che scendeva assieme ai pantaloni di Gino, la bocca improvvisamente secca. Sentì avvampare il viso e l’inguine e chiuse gli occhi per non vedere lui e per riprendere quel controllo di cui era sempre andato fiero, ma che Gino stava mettendo a dura prova.
Quando li riaprì, Gino si stava infilando la maglietta del pigiama. Era voltato di tre quarti verso il proprio letto e aveva ancora la stessa espressione contrita di quel pomeriggio: la passeggiata non doveva averlo rasserenato gran che. Salvatore fece per dirgli qualcosa – hai fatto una gran partita, capitano, sia in campo che fuori. Non hai nulla da rimproverarti –  quando il display del cellulare sul comodino si illuminò. Gino lo coprì con una mano – era grande, con le dita lunghe e ossute – per schermarlo. Non voleva disturbarlo, evidentemente. Salvatore si chiese chi potesse essere. Forse un amico oppure... Serrò gli occhi, arrabbiato e deluso come se un pugno invisibile l’avesse colpito allo stomaco, e voltò il capo dall’altra parte.
 
Come stai,fratellino?”
Il numero era quello di Luca, ma era Serena a chiamarlo fratellino, nonostante fosse più piccola di lui. Dall’altro lato dovevano esserci entrambi. Gino sorrise: si erano sentiti poco in quei giorni e gli erano mancate le loro chiacchierate quotidiane. Si sedette sul letto, incrociando le gambe e appoggiando la schiena contro il muro.
A pezzi, grazie. Le possibilità di passare il turno sono praticamente nulle e l’infortunio mi farà saltare delle giornate di campionato oltre che la partita contro il Giappone.”
Con loro non aveva bisogno di mantenere i toni e la faccia allegra: poteva permettersi di essere triste, deluso e demoralizzato.
Persino amareggiato. Lanciò un’occhiata fugace a Salvatore disteso sul letto: si sentiva oppresso dalla sua presenza, giudicato senza meritare alcuna indulgenza. Non era normale sentirsi così per un compagno di squadra. Per fortuna dorme, pensò. Domani – a mente sicuramente più fredda – sarà più facile affrontarlo. Forse
Sei stato sfortunato, ma avrai modo di rifarti, vedrai!”
Sì, sfortuna, si disse Gino. C’entrava anche quella, certo, ma il problema era che avevano funzionato male come squadra, sia in campo che fuori. E, infortuni o meno, i risultati parlavano da soli. Ma Luca e Serena avevano ragione: avrebbe metabolizzato quel World Youth, sarebbe riuscito a imparare persino qualcosa da quell’esperienza fallimentare una volta che la delusione avesse smesso di deformare gli eventi, quindi si sarebbe rifatto. 
Sei riuscito a fare un po’ il turista almeno?”
Pochissimo... tra partite e allenamenti di tempo non ne è rimasto molto. Ma le foto che ho fatto vi piaceranno un sacco!”
Hai incontrato Shingo? E gli altri tuoi amici stranieri?”
Solo la sera della cerimonia di inaugurazione, ma non siamo riusciti a parlare più di tanto dato che, grazie al mio compagno di stanza, la festa ha rischiato di finire in rissa.”
I dettagli al ritorno, pensò Gino. Il fratello e la sorella non avrebbero apprezzato la scenata che Salvatore aveva fatto a Shingo né tantomeno il teatrino che aveva imbastito in camera. Serena gli avrebbe anche dato del coglione per non averlo lasciato marcire sul pavimento oppure per non averne approfittato biecamente. Luca invece avrebbe approvato il comportamento di Gino, ma avrebbe segnato il nome del difensore vita natural durante sul suo personale libro nero. E, irrazionalmente, Gino non voleva che prendessero in antipatia Salvatore ancora prima di conoscerlo.
Ma è sempre il solito tizio dei ritiri, quello che non ti sta tanto simpatico?”
Sempre lui... anche se conoscerlo meglio mi ha riservato parecchie sorprese.”
Per quanto non potesse di dire di conoscerlo davvero, Gino aveva visto una faccia in quei giorni di Salvatore che non aveva mai conosciuto prima. Più di una volta aveva avuto l’impressione di trovarsi di fronte a un muro insormontabile fatto di arroganza e di silenzi, ma durante il World Youth aveva visto delle crepe in quel muro e la curiosità lo aveva spinto a guardare attraverso di esse, chiedendosi cosa ci fosse oltre. E quello che aveva visto gli era piaciuto. Anche troppo, pensò con una fitta di rammarico.
Quindi essere compagni di stanza è diventato improvvisamente interessante?”
Serena doveva aver rubato il cellulare a Luca e preso il sopravvento sulla conversazione.
Sere! Non è il momento di pensare a certe cose, sai? E poi non è il mio tipo.”
Potrebbe essere il mio?”
Gino si lasciò scappare una risata silenziosa, alzando gli occhi dal display e accarezzando con lo sguardo la figura di Salvatore. No, pensò con una fitta che assomigliava tanto alla gelosia, non sarebbe stato neanche il tipo di sua sorella: si sarebbero sbranati a vicenda nel giro di un paio d’ore al massimo e ripulire tutto sarebbe stata una faticaccia. Ma tanto valeva stare al gioco. E poi Serena avrebbe avuto sicuramente più possibilità di conquistarlo.
“Alto circa quanto me, biondo, occhi chiari, saccente e arrogante. Simpatico all’occorrenza. Da maneggiare con cautela.”
Magari non lo sposerei, ma una botta e via potrebbe anche starci!”
Gino soffocò un’altra risata immaginando Luca riprendere Serena per la sua impudenza e Serena dare del puritano al fratellone.
La teoria dell’una botta e via con lui non aveva mai funzionato. Si affezionava in fretta alle persone e non aveva sempre fatto parecchia fatica a scindere il sesso dai sentimenti. E si era sempre chiesto come facesse Serena  a uscire con un ragazzo e scaricarlo facendosi gli stessi problemi che si faceva nel buttare un paio di slip nel cesto della biancheria sporca. Luca, d’altronde, era l’esatto contrario della sorellina: fidanzato dall’età di quattordici anni con la stessa ragazza e mai un ripensamento o un cedimento.
Sere, di solito sono i ragazzi quelli da una botta e via. Perché tu lo sei mentre io e Luca no?”
Perché Luca è all’antica, tu sei un romantico e io sono l’Evoluzione.”
 
Salvatore tornò a voltare il capo verso Gino, lentamente, sperando di passare inosservato. Le sue risate silenziose lo avevano incuriosito e ora che poteva vedere il suo viso illuminato dal display del cellulare, notò che era più disteso, più sereno. Chissà chi diavolo era al telefono per avere quell’effetto su di lui, si chiese, artigliando il cuscino.
 
Gino, sei sicuro che il World Youth sia l’unico problema,vero?”
Luca aveva ripreso possesso del proprio cellulare, concluse Gino. No, il World Youth non era l’unico problema, anche se era l’unico a cui si era concesso di pensare fino a quel momento. Sorrise, una volta di più colpito da come suo fratello fosse in grado di mettere il dito nella piaga anche via sms. Con delicatezza, certo, tentando anche un briciolo di anestesia, ma con precisione chirurgica.
“Tranquilli, non ho intenzione di fare cazzate. Non è proprio il momento.”
“Non è mai il momento di fare cazzate, solo che si fanno.”
Sempre saggio, Luca. La luce dello schermo del cellulare si affievolì e poi si spense, lasciando Gino a fissare ancora una volta Salvatore. Per un attimo ebbe l’impressione di vedere i suoi occhi aperti, intenti a osservarlo, ma fu solo un attimo. Il tempo di un battito di ciglia e di nuovo Gentile era lì, profondamente addormentato.
Sarebbe stata una cazzata, lo sapeva benissimo. Salvatore non era davvero il suo tipo: aveva sempre preferito ragazzi dal fascino mediterraneo e, soprattutto, si era sempre tenuto alla larga dai compagni di qualsiasi squadra. Capitano o meno non si sarebbe mai perdonato di combinare dei casini in squadra per situazioni personali. E poi sarebbe stata una distrazione e, in qualche modo, si sarebbe fatto beccare. Era trasparente alle emozioni, lui, quello che pensava gli si dipingeva in faccia senza filtri. E poi da uno come Salvatore, se si fosse innamorato, si sarebbe fatto massacrare: dai suoi silenzi, dai suoi sguardi imperscrutabili, dal suo cinismo. Anzi, si corresse, mi sto già facendo massacrare. Ed era ancora alla fase del mi piace.
“Ok: sei cotto. Fortuna che non è il tuo tipo! Almeno è gay?”
Bella domanda!, si disse Gino. La risposta non l’aveva ancora trovata. C’era stata la sera della cerimonia del World Youth a seminare qualche dubbio a riguardo, ma l’impressione che il comportamento di Salvatore fosse stato volto a umiliarlo non era mai stata smentita. Piuttosto, c’erano stati momenti in cui la sua omosessualità in qualche modo pareva infastidire il difensore. Come se normalmente non ci pensasse poi la consapevolezza scendeva dal cielo o da chissà dove e lo raggelava. Era successo anche poche sere prima: solo un attimo – un respiro trattenuto un po’ più a lungo – prima di rilassarsi tra le sue braccia, in silenzio, respirandogli sul collo e facendogli il solletico con i capelli. E Gino era stato bene a tenerlo così ed era sicuro che anche Salvo fosse stato bene, a coccolarsi a vicenda, a godere dell’essere lì, insieme e... cazzo! Quell’attimo c’era stato.
Gino sospirò: anche l’intuito di Serena funzionava perfettamente. Era decisamente meno chirurgico di quello di Luca, ma il bersaglio lo centrava comunque. Spaccandolo in mille pezzi, a volte.
***

Note dell’autrice:
- mi scuso tantissimo per il ritardo con cui ho aggiornato però è un po’ più lungo dei precedenti, giusto per farmi perdonare. Questo capitolo non si voleva lasciar scrivere, ecco. Poi io avevo voglia di scrivere fluff e invece qui dovevo infilarci un po’ di angst. E la real life in questo periodo è parecchio esigente, il lavoro nuovo è amore , ma i turni sono massacranti. Sì insomma, un casino. Però è arrivato e spero che vi piaccia! XD
- di nuovo i nomi dei compagni di squadra vengono dalla formazione che ci dà il Taka sull'Italian Youth. In particolare vengono nominati Christian Panucci, Marco Delvecchio e, di nuovo, Alessio Tacchinardi. L'allenatore invece viene dritto dritto da Wikipedia, ossia l'allenatore dell'Italian Youth del 2009 (anno in cui è ambientata questa storia nel mio personalissimo immaginario), Francesco Rocca, realmente costretto a un ritiro precoce dai campi da calcio per somma di infortuni. Come detto precedentemente, considerateli dei puri casi di omonimia;
- il prossimo capitolo è in parte già rivisto però non prometto nulla sulla puntualità, anche se spero di non metterci tanto come stavolta.
- vi ho già detto che vi voglio bene? No? Vi voglio tanto bene!
   
 
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