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Autore: Ely79    15/05/2012    2 recensioni
È notte fonda sulla città di Namur. Nel silenzio gelido della casa dell’antiquario Van Der Elst, si agitano pensieri. Pensieri gloriosi, sensuali, risentiti, di morte.
Storia terza classificata al contest "Il sonno e... l'Inchino" indetto da Harriet_Myres su Original Concorsi.
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Les mains de la Gilda
Storia terza classificata al contest "Il sonno e... l'Inchino" indetto da Harriet_Myres su Original Concorsi.

Titolo:
Les mains de la GILDA
Tipologia: one-shot
Lunghezza: 4350 parole
Genere: fantascienza, introspettivo, mistero
Avvertimenti: lime
Rating: arancione
Credits: ci sono alcuni riferimenti alla cristalloterapia
Note dell'autore: questa storia è il seguito ideale della mia “Indaco Café”, ma può essere letta a prescindere da essa.
Introduzione alla storia: È notte fonda sulla città di Namur. Nel silenzio gelido della casa dell’antiquario Van Der Elst, si agitano pensieri. Pensieri gloriosi, sensuali, risentiti, di morte.

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Quando aprì gli occhi, gli aloni dorati dei lampioni a gas velavano ancora i vetri della finestra, oltre la sottile crosta gelata che li decorava. La notte indugiava sopra i tetti della città, scura e silenziosa. Namur poltriva ancora, accoccolata sonnolenta sulle sponde della Mosa e del Sambre che scorrevano pigri fra le sponde orlate di ghiaccio.
Una carrozza passò da qualche parte lungo la strada: le ruote stridevano sul selciato e un misterioso marchingegno borbottava affannato mentre la spingeva chissà dove. Una voce rauca lanciò quelle che potevano essere imprecazioni.
Si mosse lento sotto le coperte, sentendo l’aria fredda della stanza passargli sulle guance. Prese un profondo respiro, sistemandosi meglio e stiracchiando il collo. Il tepore che l’avvolgeva era talmente piacevole da rendere sopportabile il distacco dal regno di Morfeo. Tepore che si mescolava alla certezza di una presenza al suo fianco.
Ascoltò il suo respiro calmo, regolare, man mano che gli occhi si abituavano alla poca luce. Cominciò a riconoscere gli spigoli dei muri, la massa scura della tenda di velluto, il profilo arzigogolato degli arredi.
Quando finalmente riuscì a distinguere i contorni del mondo, sollevò un poco le coltri, scrutando al di sotto con malcelata malizia. Lavinia dormiva tranquilla, i ricci scuri le sfioravano le spalle, disegnando un’aureola arruffata sul cuscino. Nella penombra ambrata, la sua schiena nuda e deliziosamente inarcata sbiadiva nelle ombre che contornavano la rotondità delle natiche. Il contrasto della pelle liscia e dorata dell’italiana con le lenzuola stropicciate era sempre uno spettacolo piacevole, stuzzicante. Talvolta la sfiorava con un dito, lievemente, per poter assaporare in segreto quel misto inebriante di tepore e morbidezza. Sospettava che lei lo lasciasse fare, che fosse a conoscenza di quell’innocente vizio, ma se fosse stato così, si era ben guardata dal dirglielo.
Fra i loro corpi c’era uno spazio di due spanne abbondanti. Lavinia non si raggomitolava mai contro di lui, né cercava con insistenza il suo abbraccio: soddisfatta dall’orgasmo e dalle poche parole sussurrate ancora preda della libidine che scemava, si voltava sul fianco sinistro infilando un braccio sotto al cuscino e lì restava, senza muoversi, fino a mattina. Hendrik non se ne dispiaceva, abituato com’era ad una limitata quantità di contatto fisico. Anzi, apprezzava enormemente quel vuoto nella loro intimità, che permetteva ad entrambi di non sentirsi troppo coinvolti in quella relazione. Nessuno dei due desiderava averne una nel senso stretto del termine, sebbene molti li additassero come una felice coppia di piccioncini un po’ fuori età.
Condividevano qualche interesse, al di là del sesso, amicizie ed un rapporto lavorativo. Solo questo, nient’altro. Sapevano di poter contare l’uno sull’altra, riconoscendo il valore di ciascuno, e di non essere indispensabili all’altrui felicità.
Voltò la testa e lo sguardo assonnato intercettò l’angolo di una busta che si ergeva pallido sullo scrittoio. Quella vista cancellò rapidamente la beatitudine dei primi attimi del risveglio.
Quando la sera precedente aveva sentito bussare alla porta del negozio, aveva pensato ad un cliente ritardatario. Il buio era già sceso sulle strade e i lampionai stavano terminando il consueto giro di accensioni. Aveva avuto giusto il tempo di mettere sotto chiave una collezione di minuscole statuette d’avorio, prima d’essere investito da questioni più pressanti.
Il ragazzino che accompagnava Lavinia – o meglio, che lei aveva accompagnato – gli aveva consegnato una busta con l’inconfondibile sigillo della GILDA1: una catena spezzata da una piuma. Si era chiuso nello studio, decodificando il messaggio attraverso un cifrario. Era stato un lavoro nel lavoro: parole di banale formalità assumevano toni foschi e imperiosi attraverso il filtro del codice, ricomponendosi in una domanda precisa.
Hendrik si alzò, deciso ad approfittare della quiete che aleggiava nella stanza per riflettere un’ultima volta sul da farsi.
Scivolò fuori del letto, sentendo la pelle coprirsi di brividi. Prese la veste da camera dall’appendiabiti, silenziosa sentinella accanto alle ordinate pile di vestiti e crinoline lasciate lì dalla sera precedente.
Fitte sottili come aghi percorsero il braccio destro, lì dove terminava nella piastra metallica, poco sopra la metà dell’omero. Lo massaggiò, le dita che finivano spesso ad accarezzare il vuoto in una vana ricerca. Pur essendo trascorsi più di vent’anni dall’incidente, soffriva ancora della fastidiosa sensazione che i medici chiamavano “sindrome dell’arto fantasma”.
Sulla poltroncina davanti al caminetto trovò la protesi, insieme alle cinghie di sostegno ed al motore biodinamico che l’azionava. L’arto era molto elegante, dimensionato secondo le proporzioni del portatore; era rivestito di placche brunite e finemente decorate, con bordi arrotondati, studiati per assicurare movimenti fluidi ed evitare strappi negli abiti.  
Gettò distrattamente uno sguardo alle custodie gemelle accanto allo scrittoio. Contenevano un’altra coppia di braccia meccaniche, di un genere ben diverso.
Aprì la busta che Rat gli aveva consegnato.
Era preoccupante pensare che missive tanto pericolose gravassero su spalle così fragili. Al tempo stesso però era confortante: Eugène, o meglio, Rat, lavorava già da alcuni anni per la GILDA e ciò poteva solo significare che fosse un tipo in gamba.
Smosse le braci morenti nel caminetto, deponendovi un paio di ciocchi per ridare vigore alla fiamma. In pochi attimi, sottili lingue scarlatte presero ad accarezzare il legno ed un vago tepore raggiunse le sue gambe. La luce aumentò lentamente, contenuta dai pannelli di legno e maiolica che ornavano la bocca del focolare.
Si spogliò di nuovo, armeggiando con le strisce di cuoio che sostenevano il braccio. Indossare l’imbragatura non era un’operazione semplice da eseguire con una sola mano a disposizione, tuttavia gli anni di pratica gli consentivano una discreta autonomia. Fissate le cinghie principali, passò alla parte più sgradevole.
Ruotò la ghiera alla sommità dell’apparecchio, facendo emergere una serie di perni e appendici dentate. Li accostò alla piastra, facendoli combaciare con i fori su quest’ultima e spinse. Non appena gli innesti scattarono nella carne e nel metallo, bloccò in posizione l’articolazione ruotandola di novanta gradi. Seguirono fastidiosi secondi durante i quali i nervi si tesero fino ad allacciarsi ai circuiti in rame e timidi impulsi elettrici cominciarono a fluire nei conduttori. Al primo spasmo delle dita, Hendrik accese il motore ausiliario che iniziò a ronzare.
Mentre aspettava che i meccanismi entrassero pienamente in funzione, rilesse il biglietto per l’ennesima volta. Era vergato con una calligrafia elegante ed ampollosa, svolazzante, inclinata verso destra. Nonostante l’aspetto lezioso, l’arcano significato lo privava di ogni raffinatezza.
La proposta era chiara: recarsi a Londra, rintracciare la vittima e ucciderla. Nient’altro, tranne un breve accenno alla persona in questione.
«Il Prussiano» meditò. «Studioso di ingegneria, biotaumaturgia e meccanica dei flussi eonici. C’è di che renderlo un martire o un tiranno» considerò.
Aveva pensato di terminare il suo servizio entro i successivi due o tre anni, in base a quali richieste fossero giunte, ma quel biglietto cambiava tutto. Avrebbe potuto congedarsi con largo anticipo rispetto al contratto. Certo, in gioco c’erano molti più rischi del solito – un numero esorbitante di guardie armate, l’ampia visibilità del personaggio, i luoghi che frequentava, le conoscenze ed i poteri di cui si presumeva fosse in possesso -, tuttavia, riuscendo nell’impresa, la GILDA avrebbe potuto ritenersi più che soddisfatta e non avrebbe avuto a che ridire del suo ritiro.
«Congedo. Un cospicuo vitalizio. Immunità diplomatica garantita per gli anni a venire. Eventuali collaborazioni per formare le nuove leve» gongolò, immaginandosi dietro una cattedra. «E poi c’è il negozio. Potrei assumere qualcuno per occuparsene mentre io vagabondo per il mondo trattando nuovi acquisti, senza dover ricorrere a subdoli intermediari che pretendono percentuali vergognose per dell’inutile chincaglieria».
In fondo, l’attività di copertura come antiquario gli era sempre piaciuta almeno quanto la possibilità di viaggiare come assassino prezzolato. Perché non renderla la sua sola fonte di reddito? Un lavoro completamente onesto, alla luce del sole. Avrebbe avuto comunque a che fare con la morte – quella dei precedenti proprietari degli oggetti, o degli oggetti stessi quando si trattava di fossili e mummie -, ma in vesti meno sanguinose.
Dall’altra parte però, una voce dentro di lui tentava di mettere a tacere l’entusiasmo. Poteva pure essere annoverato tra i dieci migliori assassini d’Europa, ma quell’incarico scottava più di una colata in fonderia. Accettarlo poteva significare correre enormi rischi, non da ultimo quello di lasciarci le penne. Il personaggio in questione era un uomo astuto, un politico di spicco della scena internazionale e perennemente al centro di quella culturale in veste di mecenate. Una figura scomoda per le élite di nobili e governanti, ma amatissima dal popolo e dagli squattrinati che prendeva sotto la sua ala. Avrebbe potuto trovarsi invischiato in una ragnatela troppo grande e complessa, per scorgere in tempo una via di fuga. O peggio ancora, essere la causa di un conflitto in piena regola. Un conto era togliere la vita ad una sola persona, un altro era averne migliaia sulla coscienza, di cui neppure si conoscevano i nomi.
Davanti a cosa doveva chinare il capo, a chi inchinarsi? Alla possibilità di dare una svolta alla propria vita, certo, ma in che direzione? Verso pochi anni da dividere tra la morte di un banchiere e di una moglie infedele, portando l’onta di un diniego ad una delle più encomiabili organizzazioni al servizio di sovrani e politicanti? Oppure doveva assentire alla richiesta avanzata, offrendosi ad un unico, grande, inarrivabile delitto, che avrebbe potuto scrivere il suo nome in annali destinati al sapere di pochi?

***

Le alte librerie dello studiolo raggiungevano il soffitto, zeppe di volumi stampati, manoscritti e mappe riservate ai clienti più esigenti e fidati. Davanti al caminetto c’era un divanetto, da cui penzolavano le gambe del corriere.
«Eugène» chiamò.
Il ragazzino mugolò, rigirandosi e senza dare alcun segno di volersi svegliare. I capelli biondi somigliavano a ciuffi di paglia che sporgevano da sotto il braccio, che teneva ripiegato sulla testa.
«Rat?» insisté, alzando un poco la voce.
Il giovanissimo messo continuò a dormire beato in una posa improbabile e, all’apparenza, particolarmente scomoda. Pareva quasi disarticolato, come quei flaccidi pupazzi di pezza che tanto amavano le bambine.
«Rat!» urlò scuotendolo.
Il corriere scattò a sedere con tanta foga da rischiare di cadere sul pavimento.
Gli occorse qualche secondo per riaversi dallo spavento e capire cosa stesse succedendo.
«Sì, sì, monsieur. Vi sento, vi sento, non sono mica sordo…» biascicò stropicciandosi un occhio.
Chinò il capo sbadigliando e grattandosi la nuca, allacciandosi una stringa.
Si era addormentato con le scarpe ai piedi, casomai avesse avuto bisogno di muoversi anche nel cuore della notte. Si domandò brevemente chi dovesse ringraziare per la fortuna di aver potuto godere di una via di mezzo tra un pisolino ed una mezza dormita: non capitava spesso da Van Der Elst. Anzi, quasi mai. Di solito lo faceva trottare per le strade della città negli orari più improbabili, neanche fosse un dannato animale da soma senza stalla o un automa privo di schede perforate. In più di un’occasione aveva rischiato di addormentarsi per strada, semplicemente appoggiandosi ad un muro.
«Vai al Quartier Generale» disse porgendogli la lettera di risposta e allontanandosi di qualche passo. «Dì loro che facciano presto. Voglio tutti i dettagli entro sera» e così dicendo gli porse una bottiglia.
Rat annuì stancamente, stropicciandosi di nuovo gli occhi. Sbadigliò rumorosamente mentre leggeva l’etichetta sopra il liquido ondeggiante. Gli scappò una specie di sorriso e cominciò a frugare nella tasca della giacca. Ne tirò fuori una fiaschetta di metallo, una rozza imitazione di quelle d’argento che facevano bella mostra di sé nelle vetrinette di Hendrik. La stappò e bevve una lunga sorsata. Note pungenti di alcol di bassa qualità si sparsero nell’aria.
«Che diamine stai facendo, marmocchio?» sbraitò l’uomo, strappandogliela di mano.
«Ehi! È mia!» protestò cercando di riprenderla.
«A chi l’hai presa?»
«Non l’ho rubata!» ringhiò, improvvisamente ben sveglio e offeso.
L’antiquario si morse la lingua. Sapeva che Rat riceveva giornalmente accuse del genere, spesso a ragione, ma si rese conto che in quel caso avrebbe potuto risparmiarselo. L’insinuazione, per quanto dettata da sincera preoccupazione, aveva sortito un effetto indesiderato.
«Ne sono certo» si scusò con tono più pacato, scegliendo di non indagare sul contenuto. «Da dove arriva?» chiese allungandogliela.
Lui storse il naso, scrutandolo di sottecchi.
«L’ho comprata» borbottò seccato mentre la riponeva al sicuro nella giacca. «Al mercatino di Père Brochard, su, alla Cittadella».
«Buon acquisto?»
«Quel frate è un ladro! Tutto quello che ci metto sa di ferro. Per cinquanta centesimi poteva darmi la sua. Piena» soggiunse irritato.
Hendrik sorrise a quell’affermazione. Il religioso era noto in tutti i bassifondi come una figura assai poco pia e devota ad un tipo di spirito facilmente reperibile in qualunque taverna o distilleria. Si favoleggiava della sua abilità nello spillare offerte a chiunque, ma l’unica volta in cui l’aveva incontrato, era talmente ubriaco da poter recitare solo un rosario di rutti e bestemmie.
«Su, sbrigati. E vedi di non perdere tempo con Sebastien» lo ammonì.
Rat sghignazzò, infilando il dono nella cintura dei pantaloni.
«Allora gli darò subito la bottiglia, così non comincerà a scocciare con le sue solite domande».
Il portinaio della GILDA era noto per il suo caratteraccio e la tendenza a sottolinearlo con le armi che gli erano state impiantate al posto delle gambe.
Accompagnò Rat fuori dallo studio, raccomandandogli la massima attenzione e celerità, sentendosi rispondere con l’abituale cantilena a pappagallo. Ormai il corriere l’aveva imparata a memoria.
Aveva già appoggiato il palmo sul mancorrente, deciso a tornare di sopra in cerca di un secondo oblio, quando si sentì chiamare.
«Monsieur?»
Il ragazzino stava un gradino più in basso, calcandosi il berretto sui capelli biondi.
«La prossima volta che vi date da fare con mademoiselle, dovreste montarla con meno foga. O dovreste pregarla di fare meno baccano. Ho fatto fatica a prender sonno con tutte quelle urla» commentò, sgattaiolando rapido giù per la scala, diretto all’uscita per evitare uno dei memorabili schiaffi del suo cliente.
Hendrik rimase indeciso se inseguirlo o rimanere dov’era, allibito dai modi sempre meno da bambino di Rat. Lo conosceva da quando aveva sette anni e vederlo gironzolare con una fiaschetta di pessimo jenever2, parlando apertamente di ciò che facevano gli adulti nascosti dietro le porte delle camere da letto, era quasi avvilente. Lo faceva sentire più vecchio di quanto non fosse.
«È l’ultimo» ribadì a sé stesso, mentre i passi del ragazzino si perdevano fra i muri. «Deve essere l’ultimo lavoro davvero. Non possono obbligarmi a continuare».
Tornò di sopra, massaggiando distrattamente la spalla destra.

***

Giunto sul pianerottolo, si fermò per sistemare la cinghia che correva sotto l’ascella. L’aveva stretta troppo e cominciò ad allentarla con le dita intirizzite. L’aria nel resto della dimora era fredda e immobile.
Sperava di trovare Lavinia ancora addormentata, per potersi perdere nuovamente nella contemplazione delle morbide linee del suo corpo. Desiderava assentarsi dal mondo per vagare con lo sguardo fra i ricci bruni che si allargavano sul cuscino, impertinenti e selvaggi. Sapeva quanto la donna impazzisse per tenerli in ordine con forcine e fermagli: la moda esigeva che le donne perbene portassero lunghi boccoli ordinati, non nuvole di piccole spirali dotate di vita propria.
Prima ancora di raggiungere la porta però, la sentì muoversi fra le lenzuola, canticchiando sottovoce.
Entrò comunque in punta di piedi, rivolgendole un sorriso di scuse. Lei rispose con un cenno del capo, invitandolo a raggiungerla.
Si era voltata sul fianco destro e stava sollevata sul gomito, in attesa. Le coperte si chiudevano attorno a lei in un abbraccio seducente ma Hendrik scoprì d’essere ormai del tutto sveglio ed immune al tiepido richiamo.
«Decisione difficile?» domandò Lavinia, senza tanti preamboli.
Hendrik sedette sul bordo del letto, mordendosi l’interno della guancia.
La guardò, le braccia incrociate sotto al petto prosperoso. Lei rispose osservandolo senza troppa curiosità, come se già conoscesse la risposta. Era un altro vantaggio del loro rapporto: niente discorsi inutili. Bastava uno sguardo, un segno, per capirsi.
Non aveva letto il biglietto, tuttavia poteva tranquillamente indovinarne il contenuto: anche lei lavorava per la GILDA; le sue capacità di metallurga e gemmologa la rendevano indispensabile per chi, come Hendrik, impiegava armi protesiche.
«Dormito bene?» sviò, appoggiando a terra il motore ausiliario.
Lei si stiracchiò voluttuosa, scoprendo le spalle.
«Fino ad un certo punto sì. Ma quando ti sei alzato, monsieur, ti sei scordato le buone maniere e mi hai lasciata con la schiena al gelo. Molto poco cortese da parte del padrone di casa, andare a godersi il calduccio del caminetto, lasciando che un’ospite rimanga sola e rischi di ammalarsi nel suo letto. Non trovi?» obbiettò, tutt’altro che risentita.
«Mi dispiace» rispose, aggiustando il morsetto di un cavo di alimentazione del braccio.
Tacquero per diversi minuti, assorti nella contemplazione del silenzioso torpore che aleggiava sui tetti e nelle strade. Quante persone potevano essere sveglie, oltre a loro, nell’oscurità? Qualche gendarme, i ladri, i fornai. Forse gli operai di qualche officina o delle rotative della cartiera. Il resto di Namur dormiva.
«È una richiesta molto impegnativa?»
L’uomo si limitò ad annuire.
«Mi pare di capire però, che tu abbia preso una decisione» proseguì.
Lui annuì di nuovo.
«La più difficile che abbia mai dovuto prendere in vita mia» ammise. «Avrei preferito declinare, ma l’occasione è troppo ghiotta per perderla. Gloria, denaro, fama, onori. Tornaconti personali che non sto ad elencarti. Probabilmente qualche ferita. Il congedo».
Aggiunse quell’ultimo dettaglio scrutandola con la coda dell’occhio. Vide le sue labbra disegnare una “o” silenziosa, lo sguardo perso in direzione del caminetto che stava tornando a spegnersi. Si era aspettato un commento sulla possibilità che lasciasse l’ufficio prima di compiere quarantacinque anni come aveva preventivato, ma Lavinia tacque. Probabilmente stava soppesando quali sarebbero stati gli esiti del commiato per lei ed il suo lavoro.
«Rat ti fa presente che durante i nostri incontri a letto dovresti trovare un modo per zittirti. O dovrei trovarlo io. Ha detto che le tue urla lo hanno tenuto sveglio».
Lavinia sgranò gli occhi, passando esterrefatta una mano fra i riccioli.
«Le mie… urla?» domandò perplessa, mettendosi a sedere. «Piccolo briccone ficcanaso. Ora non si limita più a sbirciare dalle vetrine del mio negozio: origlia dietro le porte. E tu? Che gli hai detto?»
Evitò di dirgli quanto trovasse buffa e surreale la situazione. Hendrik le aveva fatto notare più volte quanto i suoi sfoghi vocali fossero degni d’una cantante d’opera, ma non l’aveva mai tacciata di scatenare l’insonnia. Né tantomeno si immaginava fonte di tale curiosità per un ragazzino che già mostrava d’avere un debole nei suoi confronti.
«Niente» rispose, lo sguardo catturato dal languido oscillare dei suoi seni.
La donna non vi fece caso. Era abituata agli sguardi interessati che molti uomini rivolgevano alle sue forme, anche quando era vestita di tutto punto.
«Come sarebbe a dire “niente”? Nessuna paternale al nostro ascoltatore? Nessuna ramanzina sull’educazione in casa altrui? Sul fatto che un ragazzino dabbene non dovrebbe impicciarsi delle questioni private degli adulti? Non è da te».
«Era già corso via. Ha uno scatto notevole» osservò, avvedendosene solo in quel momento.
Prima non l’aveva notato per via della sorpresa, ma ripensandoci a mente fredda diventava disarmante la rapidità con cui Eugène era scomparso nelle scale.
A quelle parole, lei si lasciò cadere sulla schiena. Rise di gusto immaginando la scena di uno dei migliori assassini della GILDA lasciato con un palmo di naso.
«Perdi colpi, mio caro assassino. Ti sei fatto giocare da un tredicenne. Non starai diventando troppo vecchio?» scherzò.
La mano meccanica saettò nell’aria, serrandole la gola e facendola sprofondare nei cuscini. L’espressione dell’antiquario era diventata una maschera gelida. Nonostante i capelli ricadessero sul suo volto, nascondendolo, i suoi lineamenti spigolosi sembravano taglienti come lame. Era facile immaginare quanto potesse somigliare all’immagine negli occhi delle sue vittime.
«I pesci piccoli non m’interessano. Tuttavia potrei non essere così indulgente con una donna che in trentadue anni di vita ha affilato un po’ troppo la lingua» minacciò, curvandosi su di lei.
L’orafa non temeva le intimidazioni del sicario, né cadeva nel banale trucco di ricordarle la sua età. Stavano dalla stessa parte, non avrebbe avuto alcun beneficio dall’ucciderla. Men che meno considerando che non c’erano altri metallurghi con le sue capacità sulla piazza.
«Sei ancora spiritoso per i tuoi quarantatre anni» replicò sarcastica.
Lui decise di cambiare discorso, allentando la presa.
«Ho bisogno che tu faccia qualche modifica alla mia attrezzatura».
«Sono molto stanca, Hendrik. I gioielli che ho creato per Natale mi hanno sfiancata. Non hai idea di che richieste assurde mi siano state fatte quest’anno» si lagnò, senza troppa convinzione.
«Potrei darti un anticipo. Diciamo… un acconto per il disturbo?» azzardò.
«Non ti pagano mai prima del tuo rientro» rammentò laconica, incrociando le braccia.
«Parlavo di un tipo di pagamento alternativo» ammiccò, lasciando che le dita metalliche scivolassero lungo il corpo dell’interlocutrice, che rabbrividì.
Pur trattandosi di un insieme di pezzi in fredde leghe metalliche, la delicatezza con cui l’uomo la usava era prossima a quella di una mano in carne ed ossa.
«Dubito tu possa fare qualcosa il cui valore raggiunga quello delle mie indiscusse capacità taumaturgiche» lo stuzzicò, poggiando la punta dell’indice lì dove avrebbe dovuto essere il dorso della mano sinistra. «Comunque, sentiamo: cosa ti occorre?»
Ora era la sua espressione ad essere mutata: stava completamente abbandonata fra le braccia dell’antiquario, sognante e nel contempo sofferente, gli occhi chiusi come se dormisse.
Il metallo emise una vibrazione, una sorta di risposta ad un muto richiamo. L’assassino sentì pizzicare i contorni del disco d’ottone e percepì movimenti involontari all’interno del dispositivo.
«Devi cambiare il disegno delle placche, il loro incastro. Ho bisogno della massima stabilità durante il colpo. Devono chiudersi alla perfezione, senza sbandamenti, anche nel caso dovessi prendere la mira molto rapidamente o mentre sono in corsa».
«Sì» sospirò, risalendo lungo il rivestimento, i cui decori tremolavano debolmente al suo tocco.
Le labbra dell’orafa si muovevano impercettibilmente, mormorando parole vaghe e sconosciute.
«Ho bisogno di qualche inserto che aumenti la mia capacità di concentrazione. Devo pensare con chiarezza, senza distrazioni. Non posso sbagliare».
«Avventurina3» mormorò.
Il braccio meccanico ebbe una contrazione asincrona, scuotendosi come una creatura vivente, mentre una scarica di energia dilagava frizzando nella spalla dell’antiquario.
«E deve prevenire qualunque dolore fisico» aggiunse, mordendosi il labbro per il fastidio.
A quelle parole, Lavinia riaprì gli occhi.
«Agata. E tormalina nera4 per guarire le cicatrici» concluse sorniona prima di scendere dal letto. «Avevi bisogno di un po’ di manutenzione. Alcuni estensori erano piuttosto fiacchi e lo snodo sferico del gomito era rovinato. Per non parlare delle lamine di rivestimento: hanno una linea demodé. I decori stile damasco andavano bene qualche anno fa, ora si opta per grafie giapponesi, come le squame di pesce o i rami di ciliegio. Ti donerebbero. Saresti l’assassino più alla moda in circolazione. Ho fatto un paio di esperimenti con il rame e l’ottone, e li ho trovati piuttosto soddisfacenti» dichiarò, infilando la camiciola di lino.
«Non crederò mai che tu possa sentirti debole dopo uno dei tuoi incantesimi» mugugnò Hendrik, scrollando il capo.
«Trasferimento plastico di flusso» precisò indispettita, cominciando ad infilare lentamente una calza color caffè.
Lavinia non ammetteva si generalizzasse riguardo le sue peculiarità. Se ad un atto tecnico corrispondeva una definizione, pretendeva venisse utilizzata e che lo fosse nella maniera più appropriata. Le cose dette tanto per dire la facevano infuriare.
«Hai comunque troppa energia in quella tua linguaccia italica per essere stanca» la redarguì lui, giocherellando con l’altra calza che pendeva, simile ad una bandiera, dal bordo del comodino.
Era l’unico capo di vestiario fuori posto e lo era per ottimi – e seducenti – motivi.
«Sabauda, prego» lo corresse. «Che ore sono?»
«Le sei, credo. Mi fai compagnia per colazione?» propose, facendo scorrere la seta tra le dita.
Lavinia non rispose subito, intenta a posizionare il corsetto attorno ai fianchi. Prese dalla borsetta un minuscolo marchingegno a molla che applicò alla base della schiena. Ticchettando, il congegno prese ad allacciarle il bustino.
«No. Ho appuntamento con un’amica all’Indaco Café per le otto e sai quanto mi ci vuole per sistemarmi come si deve. Senza contare che dovrei anche arrivare fin là. Piuttosto, ti va di venire con me? Avrei bisogno di una mano con quelle, se vuoi che cominci a sistemartele già oggi» e additò le due custodie.
Hendrik sospirò, appoggiandosi alla spalliera del letto.
«Sai che quel locale non fa per me. E più ancora, detesto i discorsi fra voi donne. Di prima mattina, poi… Preferisco andare alla Galerie de l’Opéra, forse Fabrice potrà darmi qualche delucidazione sul lavoro. O meglio ancora, potrei restarmene a letto a riposare. Ho trascorso davvero una pessima nottata» sbadigliò.
L’orafa stava in piedi, terminando d’indossare il complesso armamentario di lingerie: camiciola, busto, culotte, ed il loro intricato carico di lacci, nastri e merletti.
«E tu, da galantuomo quale ti fai passare, vorresti che io portassi quei catafalchi fino a casa, tutta sola, solo per startene qui a poltrire?» chiese, rimirando allo specchio l’effetto delle sue bellezze strizzate dall’austera biancheria.
Lui fece spallucce, come a dire che non avrebbe potuto essere diversamente.
Indispettita, Lavinia si avvicinò e tese la gamba, poggiando il piede sul ginocchio dell’uomo. Lui cominciò a far scorrere lentamente la seta scura verso l’alto, scoprendo un ricamo floreale attorno alla caviglia.
«Per tua fortuna sono una donna che non brama il cavalier servente, o non esiterei a definirti un mostro» sottolineò.
«Alcuni mi hanno chiamato così» riconobbe con una punta d’orgoglio.
Appellativi simili facevano parte del repertorio di frasi gridate, piante o supplicate dall’obiettivo di turno, nel momento cruciale del loro incontro.
Il suo carnet di omicida era decisamente invidiabile, sia per numero di vittime che per raffinatezza stilistica, tanto da valergli la stima di molti colleghi e l’invidia di parecchi altri.
Vide la donna chinarsi, cingendogli il collo con l’altra giarrettiera e tirarlo verso di sé. Due occhi scuri occuparono l’intero campo visivo del sicario.
«Peccato non possano ricordartelo, visto che sono tutti morti» sogghignò perfida.


1 Gilda: Guilde Internacionale Label Des Assassins, ovvero Gilda Internazionale Marchio degli Assassini
2 Jenever: liquore olandese a base di ginepro, da cui si è evoluto il gin.
3 Avventurina: in cristalloterapia serve a portare tranquillità interiore, distensione, "sangue freddo".
4 Agata… tormalina nera: in cristalloterapia, la prima lenisce i dolori muscolari, mal di testa, crampi e previene disturbi agli occhi; la seconda è utilissima contro gli stati dolorifici in genere. Previene la formazione delle cicatrici, riduce le nevrosi e gli stati di tensione.
   
 
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