Feci
scattare la serratura con difficoltà, le mani tremavano e i palmi sudavano,
facendo scivolare la chiave ripetutamente. Finalmente il mio passato acquistava
una forma. Racconti a metà, a volte sussurrati perché non ci sentissero, a
volte solo rubati dalle chiacchiere piene di ricordi nelle altre stanze,
stavano per prendere forma. Cosa avrei trovato oltre quella porta? Sarebbe stato
come me lo immaginavo? Avevo sognato tante volte il luogo in cui tutto era
cominciato, e ora che stava per realizzarsi il mio sogno più grande, temevo di
non essere pronta. Avevo paura. Terrorizzata, forse, è l’aggettivo più giusto.
Dopo un ultimo sospiro profondo spinsi la porta, che cigolò, annunciando il mio
arrivo ai fantasmi di un passato che non era mio. Una nuvola di polvere si alzò
e io tossii per l’improvviso pizzicorio alla gola. Come sospettavo, nessuno ci
aveva più messo piede, e la polvere che si era ammucchiata negli anni aveva
creato una patina grigiastra spessa diversi centimetri. Entrai, timorosa,
scrutando la realtà circostante. Mi avvicinai al ripiano sul quale troneggiava un
portafotografie in legno, ormai vuoto. Chissà chi c’era stato, a suo tempo. Lo
presi in mano, cercando di ricordarmi se ne avessi mai sentito parlare, e
mentre la mia mente vagava fra i ricordi, passai delicatamente il dito indice sul
mobile, pulendolo dalla polvere e intravedendo, così, il marrone del legno
sottostante.
Volevo
sedermi, ero stanca, ma niente era abbastanza pulito. Sospirai, rassegnata, e
cercai negli scaffali qualche prodotto per pulire. Il tanto agognato riposo non
sarebbe arrivato così presto come speravo, ma forse, proprio per questo motivo,
alla fine l’avrei apprezzato anche di più.
Cominciai
dalla cucina, spolverai, spazzai, misi in ordine, e gettai nella vasca piena di
acqua tutto ciò che fosse da lavare, cuscini, tende e coperte. Quando era
partito, Michael doveva aver preso con sé solo il minimo indispensabile, e la
maggior parte dei suoi oggetti era ancora lì, dopo vent’anni.
Potevo
respirare l’odore dell’adolescenza che li aveva visti crescere insieme, e la
nostalgia prese il sopravvento. Quei tempi erano andati, finiti, e nessuno glieli
avrebbe mai restituiti. Sapevo che era stato difficile accettarlo, all’epoca;
di punto in bianco avevano dovuto dire addio a tutto ciò che fino ad allora
aveva rappresentato il loro mondo e che aveva dato loro sicurezza. Erano soli.
Soli in un furgone con altre persone che, a lungo andare, non sopportavano più
la vicinanza l’uno dell’altro.
Persa
nei ricordi di quel tempo andato, terminai i lavori e, soddisfatta di me, potei
finalmente sedermi sul divano a peso morto, sfinita. Il mio piede, però, urtò
qualcosa. Mi chinai nonostante il dolore alla schiena dovuto allo sforzo
fisico, e scoprii che l’oggetto misterioso era una fotografia. Una fotografia in
bianco e nero. Non ebbi esitazione nel riconoscere il soggetto: capelli corti,
biondi, occhi penetranti e labbra carnose. Maria. Fasciata in uno scuro
completo aderente, era su un palco, la mano destra stretta intorno all’asta del
microfono con cui si stava esibendo e la sinistra chiusa in un pugno lungo il
fianco. Rimasi incantata a fissare quella fotografia per diversi minuti,
sentendomi improvvisamente parte di un mondo di cui, fino a quel momento, avevo
solo sentito parlare. Rivedere Maria come ormai non era più mi catapultò nel
mondo della nostalgia, da cui sembravo non riuscire ad uscire nemmeno dopo un’ora
passata sempre seduta su quel divano, con quella fotografia in bianco e nero
fra le mani e gli occhi incatenati a quelli di Maria. La mia Maria, come la chiama Michael quando pensa che non lo senta nessuno.
Mi
fa tenerezza con quel suo modo di fare burbero che contrasta con l’espressione
beata che gli si dipinge sul volto quando guarda Maria. E anche quando guarda
me, a dire il vero, ma è un tipo di amore differente, quello tra padre e
figlia. Avevo sempre creduto che in me rivedesse l’immagine di Maria i primi
tempi della loro storia, e guardando quella foto capii che avevo ragione, visto
che ero la fotocopia di mia madre, a parte l’altezza e gli occhi nocciola.
Questo non significa assolutamente che se non fossi stata così simile a Maria,
Michael mi avrebbe amata di meno, ma solo che vedeva in me l’amore che nasce
naturalmente nei confronti del proprio sangue, e allo stesso tempo l’amore per
la persona con cui ha scelto di condividere la sua vita.
“Bella
addormentata…”
Una
voce profonda e sensuale mi risvegliò dai miei pensieri, e io mi voltai per
vedere la testa di Michael che faceva capolino dalla porta d’ingresso.
“Oh,
sei tu.”
“E
chi doveva essere?”
Sorrisi
scioccamente, mentre si avvicinava per sedersi sul divano accanto a me.
“Cos’hai
in mano?”
Gli
mostrai la fotografia, e lui ebbe un’esitazione. Evidentemente non se
l’aspettava.
“Dove
l’hai trovata?”
“Sotto
il divano.”
Contemplò
l’immagine fra le sue mani con il sorriso che lo contraddistingueva di fronte
alla sua Maria. Com’era già successo a me, anche lui si perse nei meandri della
propria memoria, e io avrei dato tutto ciò che possedevo per poter rivivere con
lui quei momenti. Sapevo che la loro vita era stata difficile, a suo tempo, ma
il mio temperamento di sedicenne mi spingeva a voler provare l’adrenalina di
quell’avventura continua, condivisa con i loro migliori amici.
“Michael…”
“Mm?”
come risvegliato da un momento di trance, si ricordò della mia presenza e mi
passò un braccio intorno alle spalle, permettendomi di appoggiare la testa sul
suo petto e di continuare a guardare la fotografia che teneva ancora in mano.
“Perché
non mi avete mai raccontato niente della vostra vita qui a Roswell?”
La
domanda lo colse del tutto inaspettato, il suo corpo si irrigidì e io sperai di
non aver oltrepassato il limite. Il nostro rapporto non era mai stato semplice:
così simili di carattere da capirci senza bisogno di parole, eppure così
diversi da riuscire a ignorare senza problemi la reciproca vicinanza dopo aver
litigato.
“Perché
parlare di certe cose può fare molto male.”
Potevo
leggere la verità di quell’affermazione nei suoi occhi; quella fotografia aveva
riportato a galla non solo ricordi di una giovinezza passata, ma anche
sofferenze apparentemente sepolte ma in realtà solo nascoste. Mi sentii in colpa
per averlo spinto così tante volte a raccontarmi quella che per me era poco più
di un’avventura, senza rendermi conto della drammaticità della sua realtà:
“Non
volevo intristirti… scusa.”
Era
difficile per me chiedere scusa, e per Michael era difficile rispondere, così
si limitò ad accennare un sorriso che raggiunse i suoi occhi solo per un
attimo, prima di perdersi nuovamente nell’oblio.
Sapevo
che stavo affondando il coltello nella piaga, ma non potei evitare un’ultima
domanda:
“Un
giorno tu e Maria me lo racconterete?”
Fingendosi
esasperato, Michael sviò la domanda con una battuta:
“Solo
se la smetterai di chiamarci per nome!”
“Ma
Mich-”
“Fossi
in te, comincerei da adesso…”
“Uffa.”
Mi
allontanai da lui per portare le ginocchia al petto e appoggiarci il mento, fingendomi
offesa.
“Non
dirmi che ti vergogni ancora?”
Lo
guardai stupita, perché non sapevo se era stata una battuta detta così, o
veramente lui sapeva.
“C-cosa?”
Il
suo sguardo si fece più dolce, e fissò un punto indefinito oltre la finestra,
forse perché si era accorto del mio totale imbarazzo.
“Credevi
che non lo sapessimo?”
“I-io…
Lo… lo sa anche Maria?”
“Mm
mm.”
Sentii
le guance avvamparsi di un rossore innaturale, e aumentai la stretta intorno
alle mie gambe. Lo sapevano. Avevo passato anni cercando di nascondere loro la
verità, ma non era servito a niente… Mi ero sempre sentita in colpa per dar
loro un dispiacere chiamandoli per nome, senza un motivo apparente, e in quel
momento mi sentii ulteriormente in colpa.
“D-da
quanto tempo…”
“Da
quanto tempo lo sappiamo?”
“Mm
mm.”
“Da
quando facevi la prima elementare.”
“Cosa?”
Ero
in imbarazzo da morire, non avevo il coraggio di voltarmi verso di lui per
paura di leggervi il rimprovero che per tutti quegli anni mi era stato
risparmiato. Quanto avrei dato per avere a disposizione un bicchiere di quel vino
che mi era sempre stato negato a causa di non so bene quale controindicazione
aliena. Forse per togliermi dall’imbarazzo, o forse semplicemente perché
riteneva giusto mettere le carte in tavola, Michael continuò:
“Avevi
da poco cominciato ad andare a scuola, quando la tua maestra, la signorina
Thruman, convocò me e Maria per un incontro straordinario. Conosci tua madre…
era agitatissima, sommerse la tua insegnante di domande finché non la calmai.
Fu allora che la signorina ci raccontò di alcuni episodi che si verificavano
quasi quotidianamente dall’inizio dell’anno scolastico. Ne sai niente?”
Mi
lanciò uno sguardo ironico, e io mi sentii avvampare. Ricordavo benissimo gli
episodi a cui si riferiva, e ricordavo altrettanto bene l’ideatore di quegli
scherzi: John Richardson.
“Ci
disse che un bambino della tua classe ti prendeva in giro dicendoti ripetutamente
che io e Maria eravamo troppo giovani perché avessimo scelto di metterti al
mondo e che quindi non ti volevamo bene.” Continuai a guardare fuori dalla
finestra, nonostante sentissi lo sguardo di Michael sul mio profilo. “Ci chiese
se avessimo notato in te qualche cambiamento a casa, ma lì per lì non ci venne
in mente niente.”
“Non
avevo ancora cominciato a chiamarvi per nome…”
“Oh,
sì.” Rispose fermamente Michael, prima di riprendere. “Avevi cominciato un paio
di settimane prima, alternando ‘Michael’ e ‘Maria’ ai soliti ‘mamma’ e ‘papà’.
Non ci avevamo fatto molto caso, in principio, e poi Maria diceva che era una
cosa normale, perché sentivi gli altri che ci chiamavano così… Dopo il
colloquio con la tua insegnante, tuttavia, cominciammo a riflettere e ci
rendemmo conto che la frequenza con cui ci chiamavi per nome aumentava di
giorno in giorno. Eravamo giovani e inesperti, ma capimmo che ci poteva essere
un collegamento fra le due cose e tornammo a parlare con la signorina Thruman,
che confermò i nostri sospetti: il tuo chiamarci per nome era un modo per
disconoscerci come genitori e frapporre un muro fra te e noi, per non soffrire
delle parole di quel bambino. La tua insegnante ci disse anche che da qualche
giorno avevi cominciato a chiamarci per nome anche in classe, e che quindi si
aspettava la nostra visita.”
Rimanemmo
in silenzio qualche minuto, e io gli fui immensamente grata per darmi il tempo
di metabolizzare quello che era successo in me allora senza che me ne rendessi
conto. Nel mio cervello di bambina era veramente entrato in moto un meccanismo
simile? Voglio dire… razionalmente, la cosa aveva senso, eppure non riuscivo a
crederci. Non ricordavo di preciso quando avevo preso a chiamarli per nome,
però sapevo che l’avevo fatto perché John smettesse di prendermi in giro. Ai
miei amichetti dicevo che erano i miei fratelli, e che i miei genitori erano
morti quando ero piccola, ma questo Michael sembrava non saperlo e di certo non
sarei stata io a dirglielo.
E
così adesso il mistero era svelato. Restava solo da capire se, a sedici anni,
credevo ancora alle parole di John e avevo ancora bisogno di quel muro, o se
ero abbastanza matura da capire che la mia nascita non era stata programmata,
ma non per questo i miei genitori non mi amavano affatto o mi amavano meno
rispetto ad altri che erano riusciti ad avere un figlio solo dopo anni e anni
di tentativi.
Ripercorsi
mentalmente vari episodi della mia infanzia, finché non me ne tornò in mente
uno che mi fece sorridere: la poesia che recitava Michael la sera, quando mi
addormentavo appoggiata a lui sul divano e mi portava a letto. Mi rimboccava le
coperte, mi scostava i capelli dalla fronte e mi baciava, dopodichè si sedeva
sulla sedia a dondolo su cui Maria mi allattava da neonata e recitava una
poesia.
Il
passaggio dal divano al letto mi svegliava sempre, ma era piacevole assistere a
quello che per Michael –e anche per me– era ormai un rituale. Nel dormiveglia,
ascoltavo le parole che fluivano dalla sua bocca a memoria, e mi ripromettevo
ogni volta di scoprire chi ne fosse l’autore, ma poi crescendo ho preferito
evitare, per non rompere l’incantesimo e lasciare tutto effimero e surreale.
Che il bello e l’incantevole
siano solo un soffio e un brivido,
che il magnifico entusiasmante
amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d’artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimé lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa, con gelido fuoco,
barra d’oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere, non somigliano
a noi – effimeri-,
non raggiungono il fondo dell’anima.
No, il bello più profondo e degno dell’amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d’aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere, tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.
Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà
a tutto ciò che fugge
e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.
Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d’ali d’uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.
Michael
si alzò e si diresse verso la finestra. Dalla mia postazione sul divano vedevo
la sua schiena muscolosa sotto il maglione, le spalle larghe su cui salivo da
bambina e che mi facevano sentire al sicuro dopo un incubo. La tensione
percepibile dalle linee del collo mi fece capire che, aldilà della battuta, era
giunto per me il momento di sapere.
“Roswell
era in fermento perché si stava avvicinando la data del concerto dei Foo
Fighters. I Whits erano stati scelti come gruppo d’apertura, però avevano
bisogno di una cantante. Maria si autocandidò ma in un primo momento i
componenti del gruppo non la presero in considerazione, finché non accettarono
di farle un provino purché smettesse di ossessionarli. Conosci tua madre,
quando si intestardisce non si arrende finché non ha raggiunto l’obiettivo.”
Anche se non lo vedevo, percepivo il sorriso che si era stampato sulla sua
faccia: era lo stesso che avevo io, al pensiero della testardaggine di Maria…
esasperante! “Rimasero tutti a bocca aperta, nessuno si aspettava che avesse
una voce simile. Folgorati. Ovviamente la presero all’istante, senza nemmeno
consultarsi fra loro. Bene… quella fotografia immortala la loro prima
esibizione dal vivo.”
Guardai
la foto vicino a me e m’immaginai la voce soave di Maria che incantava le
persone sotto al palco.
Mi
ricordai le ninnananne da bambina, quando non avevo sonno o avevo un incubo, e andavo
nel lettone fra Maria e Michael, mi infilavo sotto le coperte, e mi accoccolavo
contro il petto di Michael mentre le dolci note che uscivano dalla bocca di Maria
mi cullavano. Era sempre stato rilassante ascoltarla, e quindi potei
immaginarmi lo stupore di qualcuno che non l’aveva mai sentita cantare prima.
Così piccola e con una voce così potente.
“Hai
scattato tu questa foto?”
Emise
un grugnito sospettoso, da cui capii immediatamente che era lui il fotografo,
ma il suo carattere schivo e introverso gli impedì di ammetterlo a pieno. Lo
conoscevo bene, e sapevo interpretare quei suoi rumori gutturali. Sorrisi
immaginandomi Michael alle prese con il riuscire a scattare una fotografia
decente, senza esporsi troppo, come al suo solito:
“Perché
ridi?”
“Cos-
Oh, niente.”
Liquidai
la domanda con un gesto della mano, eccitata all’idea che stavo per conoscere
la verità.
Dopo
una pausa di qualche minuto, finalmente cominciò a raccontare:
“Maja,
sai già la storia di come Max, Isabel e io siamo arrivati sulla Terra, vero?”
“Se
ti riferisci all’impatto del ’47 e al periodo di incubazione, sì. Maria me lo
raccontò un pomeriggio in cui eravamo sole, quando cominciarono a manifestarsi
i miei poteri… ero poco più che una bambina, e credevo che fosse normale poter
rompere gli oggetti con la forza del pensiero o manipolare la struttura
molecolare delle cose…”
“Allora
saprai anche che Max e Isabel furono adottati dagli Evans, mentre io…”
La
sua voce si inclinò leggermente, e io mi affrettai a dirgli che ero a
conoscenza anche di quello, evitandogli di rivivere la sua infanzia con un
ubriacone bastardo qual era Hank. Maria non era scesa nei particolari, ma avevo
capito la situazione e potei comprendere l’esitazione nella voce di Michael.
“Un
pomeriggio, io e Max eravamo al Crashdown e ci fu un tentativo di rapina, che
finì in una sparatoria. Liz fu colpita all’addome, e Max, innamorato di lei
praticamente da sempre, la guarì, nonostante gli avessi chiesto espressamente
di non farlo per non esporci. Ma lui, come al solito, non mi ascoltò… Da lì è
cominciato tutto.” Michael continuò la storia, mentre io fissavo incredula le
sue spalle e la sua schiena, da cui vedevo la tensione allentarsi man mano che
procedeva. Ogni sua parola era una pugnalata al cuore per me, che cercavo di
immaginarmi cosa volesse dire, a quell’età, vivere un’avventura simile. Non
c’era da meravigliarsi che si fossero sempre dimostrati più maturi rispetto ai
loro coetanei. “Nonostante la continua pressione e la paura di essere scoperti,
un piccolo rospetto biondo trovò il modo di oltrepassare la mia corazza. Nel
bene o nel male, fra alti e bassi, da allora non se n’è più andata.”
Adoravo
il suono della sua voce quando parlava dei suoi sentimenti nei confronti di
Maria, ed ero contenta di essere il frutto di un amore così grande.
Ero
abbastanza scioccata mentre cominciavo a capire chi fosse quel certo Alex che a
volte avevo sentito nominare, ma su cui non avevo mai fatto domande. Capii
anche perché la tristezza si impossessasse dei loro volti al solo nominarlo.
Morto ammazzato da un’aliena che credevano loro amica. Il peggiore dei
tradimenti.
“Come
scopriste che era stata lei?”
“Fu
opera di Liz e Maria. Mentre noi eravamo nella stanza dei Granilith cercando il
coraggio di lasciare il noto per l’ignoto, loro scoprirono la verità, e,
insieme a Kyle, corsero a fermarci.”
“E
evidentemente ci riuscirono…”
Se
io ero lì ad ascoltare questa storia dalle parole di Michael, evidentemente ci
erano riusciti. La risposta di Michael fu vaga, e mi domandai cosa ci fosse
sotto che lui non volesse raccontarmi. Si grattava insistentemente il
sopracciglio e questo non faceva che aumentare la mia curiosità. Cosa aveva
fatto di così grave da metterlo in imbarazzo?
“E’
rimasto per me.”
La
voce di Maria arrivò dalla soglia di quello che un tempo era stato
l’appartamento di Michael a spiegarmi il motivo del rossore che avevo notato.
Mi voltai verso di lei, che percorse la distanza fra la porta e il divano senza
distogliere lo sguardo da quello di Michael.
“Io,
Liz e Kyle corremmo come disperati per avvertirli. Chissà cosa li avrebbe
aspettati una volta su Antar… Se Tess non era chi diceva di essere, chi avrebbe
potuto assicurare loro che il loro pianeta li avrebbe accolti come lei diceva?
Arrivammo in tempo, e li chiamammo a squarciagola senza risultati. Ma loro non
potevano sentirci dall’interno, e quando credevamo che tutto fosse finito… La
porta si aprì e Michael uscì. Ha scelto di non partire per rimanere con me.”
A
quel punto fu tutto chiaro. Il grattarsi le sopracciglia, l’imbarazzo, il
rossore. Nonostante quel suo gesto d’amore avesse salvato la vita a tutti loro,
Michael non se ne sarebbe mai vantato. Era modesto. E anche un po’ timido, in
fondo. In quel momento fui fiera di essere sua figlia più di quanto lo fossi
mai stata.
“Ma
Tess…”
“Tess
è partita, portando con sé il figlio di Max.”
C’era
amarezza nelle parole di Michael, dovuta probabilmente agli avvenimenti
successivi, che mi furono raccontati un po’ dall’uno e un po’ dall’altro.
“Era
il giorno del diploma, quando l’FBI ci trovò. Abbandonammo la cerimonia prima
ancora della consegna e fuggimmo nel deserto per decidere cosa fare.”
Ascoltavo
le parole di Maria imbambolata, incredula di fronte a questa storia che si era
rivelata ben peggiore rispetto a quella che mi ero immaginata dai discorsi che
avevo rubato negli anni. Poi Michael prese la parola:
“Gli
agenti dell’FBI sapevano solo di me, Max, Isabel e Liz; Maria e Kyle avrebbero
potuto tornare alla loro vita, ma…”
“…ma
nonostante tutto non potevamo abbandonarli.” Maria guardò dritto negli occhi di
Michael, e i loro lineamenti si addolcirono. Ah, l’amore… “Michael era rimasto
per me a suo tempo, e questa volta era il mio turno: non l’avrei abbandonato. O
perlomeno era quello che pensavo in quel momento… A quei tempi mi sentivo
sicura di me: ero giovane, con un ragazzo che mi amava e degli amici a cui
avrei affidato la mia vita a occhi chiusi. Mi sentivo un Superman in gonnella,
con tanto di mantello e poteri speciali.”
A
questo punto sia Michael che Maria abbassarono lo sguardo, e per istanti
apparentemente infiniti calò il silenzio. Maria, seduta sul bracciolo del
divano, si guardava le mani che si muovevano convulsamente, mostrando il già
evidente nervosismo; Michael, invece, era appoggiato al davanzale della
finestra con le braccia conserte, in posizione di difesa. Cosa poteva essere
successo di così grave, in quegli anni, da giustificare un simile
atteggiamento?
“…Evidentemente,
però, non ero così forte come credevo. Ci stabilimmo in un paesino di campagna
quasi al confine con il Canada, e vivemmo per molto tempo in un piccolo
appartamento tutti insieme.”
Nella
mia mente cominciò a prendere forma un’idea di quello che poteva essere
realmente successo, anche se mi rifiutavo di crederci finché non l’avessi
sentito uscire dalle loro bocche.
“Tiravamo
la cinghia tutti i giorni, e fu difficile abituarsi a questi tipo di vita… Tutti
tranne Michael, eravamo abituati in modo completamente diverso, con qualcuno
che cucinava per noi, che lavava, stirava… e invece, senza alcun preavviso, ci
trovammo a dover provvedere a noi stessi, con solo quello che avevamo al
momento della fuga… Quella che all’inizio era sembrata un’avventura, ben presto
diventò un inferno per tutti: nessuna privacy, mai un momento per starsene da
soli con i propri pensieri… A lungo andare divenne una situazione
insostenibile. Opprimente. E così, qualche mese dopo, presi la decisione più
difficile della mia vita: raccolsi quel poco che avevo accumulato nel
frattempo, e me ne andai. Salii sul primo autobus che passava, senza curarmi
della destinazione, e mi ritrovai nell’ennesimo paesello sperduto, vicino alla
costa. Dovevo ricominciare da capo un’altra volta, e per di più doveva farlo da
sola… ma mi rimboccai le maniche e ce la feci.”
Fissavo
ammutolita Maria da quando aveva cominciato a parlare di quella parte della sua
vita di cui non avevo mai sentito nemmeno un accenno.
Il
silenzio era sceso un’altra volta, così ebbi modo di riflettere sull’enormità
di quella decisione che doveva aver richiesto tutta la sua forza. Ma Maria era
forte, lo era sempre stata, e non faticai a credere che fosse riuscita a
ricrearsi una vita, da sola, non ancora diciannovenne. Quel pensiero ne fece
scattare un altro: io ero lì, a sedici anni, con una madre e un padre appena
trentacinquenni…
“…finché
non scopristi di aspettare me.”
Il
suo sguardo si spostò su di me, e fortunatamente non vi lessi il rimpianto che
mi aspettavo.
“Esatto.
Cominciai ad avvertire le nausee una settimana dopo il mio arrivo, ma lì per lì
detti la colpa al nuovo cambiamento climatico… forse era stato troppo brusco,
mi dicevo… e anche il ritardo del ciclo… colpa dello stress. Però i giorni
passarono, le nausee aumentarono e del ciclo nessuna traccia. Feci le analisi
di routine e, come potrai immaginare, mi disperai per il risultato. Ma non
potevo arrendermi proprio in quel momento… e poi da allora avrei dovuto
combattere per due! Impacchettai per l’ennesima volta tutti i miei averi e
tornai, terrorizzata, dalle persone che avevo abbandonato appena un mese
prima.” Le parole risuonarono nella mia mente come echi di una storia lontana,
letta su qualche libro, o come la trama di un film visto comodamente sul divano
di casa. Invece era tutto vero, e la protagonista della storia era seduta a
pochi centimetri da me. Era Maria, mia madre. E la vita che crescendo dentro di
lei l’aveva spinta a tornare sui suoi passi? Io. Ero io. Non mi sembrava
possibile. Questo turbinio di pensieri fu interrotto dalla voce di Maria: “Tornai
con la coda tra le gambe, terrorizzata all’idea che mi sbattessero la porta in
faccia o che mi accettassero solo perché ero incinta. Il tragitto a piedi dalla
stazione degli autobus sembrava non finire mai, ogni passo era più pesante di
quello precedente, e sentivo distintamente ogni goccia di sudore che scivolava
lungo la mia schiena. Poi scorsi in lontananza la mia meta, e fu come se
qualcosa dentro di me si fosse rotto: piansi le lacrime che avevo trattenuto
durante il viaggio e mi accasciai su una panchina, fregandomene di quello che
le persone avrebbero pensato di me. Sembra stupido, ma all’idea di essere
praticamente arrivata le forze mi abbandonarono. Non so per quanto tempo rimasi
lì, so solo che quando sentii una mano sfiorarmi la schiena ero sempre seduta,
come in trance, e avevo smesso di piangere, anche se sentivo la pelle tirare
sulle guance, dove le lacrime si erano seccate. Mi riscossi e mi accorsi che di
fronte a me c’era Max, che mi guardava senza sapere cosa dire. Scoppiai a
piangere un’altra volta e fui sollevata nel sentire che mi abbracciava. Mi
ricordo che pensai che forse non era ancora finita. Nell’appartamento, Liz
singhiozzò con me, lei per la felicità di ritrovarmi, io per quella di sentirmi
finalmente a casa, anche se ero lontana da Roswell. Poi fu la volta di Kyle,
che si arrabbiò con me perché l’avevo fatto piangere, e più tardi anche di
Isabel, che non versò una lacrima ma si dimostrò sinceramente contenta del mio
ritorno. Tutti fecero finta di niente, ma non ci volle molto perché mi
accorgessi che qualcosa non andava. Alla fine, con voce tremula e occhi bassi,
Liz mi confessò che Michael si era trasferito un paio di giorni dopo la mia
partenza.”
C’era
un unico aggettivo che poteva descrivere il mio stato d’animo in quel momento:
sconvolta.
Poi
fu Michael a prendere la parola:
“Quando
mi aveva detto che se n’era andata, non avevo opposto resistenza, un po’ perché
comprendevo la morsa che l’attanagliava e un po’ perché non rientrava nel mio
carattere supplicare qualcuno che, evidentemente, non mi voleva più. Ma dopo la
sua partenza mi resi conto che l’aria era diventata irrespirabile lì dentro, e
me ne andai anch’io. Non cambiai città, ma solo appartamento, e i ragazzi
sapevano come rintracciarmi in qualunque momento. Ero appena tornato dal
lavoro, una sera apparentemente come le altre, quando Max mi telefonò
chiedendomi di andare immediatamente da loro: Maria era tornata.”
Nuovamente
silenzio. Non sapevo chi guardare: Maria, sempre seduta sul bracciolo del divano,
o Michael, ancora appoggiato alla finestra. Fu Maria a continuare:
“Come
sospettavo, quando arrivò non mi gettò le braccia al collo, né mostrò il minimo
segno di felicità. Il signor-devo-essere-un-soldato-duro-come-una-roccia era
tornato alla carica, e sembrava più agguerrito che mai!”
C’era
ilarità nelle parole di Maria, probabilmente voluta per smorzare o toni di
quella conversazione che aveva incupito tutti. Effettivamente sembrò essere
riuscita, perché colsi uno sguardo complice fra Michael e Maria che mi fece
scaldare il cuore. Però la faccenda del signore tornato alla carica non l’avevo
capita, e chiesi spiegazioni:
“Che
vuol dire quella cosa del soldato-non-so-come?”
Maria
scoppiò in una fragorosa risata che riempì la stanza, seguita da quella di
Michael. Spostai lo sguardo dall’uno all’altro senza capirci niente, finché
Maria si decise a darmi una spiegazione:
“Signor-devo-essere-un-soldato-duro-come-una-roccia,
detto anche Mr Stonewall, per abbreviare.”
Michael
e Maria continuarono a ridere, e io continuai a guardarli, ancora ignara.
Osservai Maria alzarsi e avvicinarglisi con fare canzonatorio:
“Devi
sapere, cara Maja, che il tuo caro paparino ama tenere le ragazze sulle spine…”
“Non
è vero!” ribatté Michael.
“Non
è vero? Devo farti l’elenco di tutte le volte in cui l’hai fatto?”
Michael
provò a risponderle per le rime, ma Maria non gliene lasciò il tempo,
cominciando a elencare episodi su episodi della loro storia adolescenziale: da
una bacio dato apparentemente per calmarla, al ballo scolastico dell’ultimo
anno, passando per una festa in una fabbrica di sapone, per la stanza dei
cancellini e per una certa Courtney. Quando Maria sembrò aver finito la sua
arringa, un Michael molto divertito provò a ribattere nuovamente, anche
stavolta senza risultato:
“Per
non parlare di quando mi promettesti di venire al mio primo concerto con i
Whits… tu, disgraziato! Ti avevo anche procurato il biglietto senza farti
tirare fuori di tasca un centesimo, e tu non ti sei fatto vedere!”
Negli
occhi di Michael lessi la soddisfazione che si prova a vincere senza neanche
muovere un dito. Divertita dalla scenata tragicomica di Maria, decisi di
entrare in gioco anche io, in quanto parte integrante di quella famiglia:
”Parli di questo concerto?” le chiesi, mostrandole la fotografia in bianco e
nero.
“Dove
l’hai trovata?” mi domandò, allontanandosi da Michael per avvicinarsi a me.
“Sotto
il divano.”
La
consapevolezza di come quella foto era arrivata lì la colpì piacevolmente, e
vidi dipingersi sul suo volto una sguardo tenerissimo, affiancato
immediatamente dall’espressione determinata che l’aveva sempre contraddistinta
durante i loro innumerevoli battibecchi da innamorati:
“Di’
un po’, Guerin, non penserai mica che solo perché hai una foto di quella sera,
io ti perdoni per avermi dato buca, vero?”
“Ho
scattato io quella foto, sciocchina.”
Maria
rimase senza parole, e Michael sorrise, soddisfatto di sé.
“Tu…
tu c’eri.”
“Mm
mm.”
“Non
ci credo!” ribatté Maria, scioccata.
Michael
guardò me, sorridendomi caldamente, e io capii la soddisfazione che lui provava
per essere riuscito a stupire Maria, dopo tutti quegli anni trascorsi insieme.
Percepii
nei loro sguardi il bisogno di condividere un momento di complicità in
solitudine, così me ne andai con la scusa di ispezionare meglio l’appartamento.
Dalla camera riuscivo a capire solo poche frasi, ma dalla porta socchiusa li
vedevo, appoggiati al davanzale della finestra, l’uno nelle braccia dell’altro,
che parlavano a pochi centimetri di distanza. Com’erano dolci, insieme. Erano
molto affiatati, anche se chi non li conosceva pensava che fossero due pazzi,
visto il numero dei loro litigi! Ma io che vivevo con loro sapevo che dietro
quell’atteggiamento si celava un sentimento profondo, e che il loro litigare
non significava niente di ciò che la gente pensava. O forse erano pazzi, sì, ma
l’uno dell’altro.
Proprio
perché ero consapevole dei loro sentimenti, non riuscivo a credere alla storia
che avevo appena ascoltato… sparatorie, guarigioni, alieni mutanti, navicelle
spaziali, destini, amici morti, amici che si rivelavano assassini, FBI… Avevo
immaginato che la loro vita fosse stata avventurosa, ma non fino a questo
punto. A tutto questo, poi, andava aggiunto il problema personale di ognuno di
loro: dall’essere cresciuto con la consapevolezza di venire da un mondo
sconosciuto, allo scoprire che gli alieni esistono, innamorarsi di uno di loro,
fino al senso di oppressione dovuto a una situazione che senti più grande di te
e che pertanto non ti senti in grado di combattere.
Mi
sdraiai sul letto a riflettere, e ascoltai quello che succedeva nell’altra
stanza. Michael e Maria stavano parlando di me, e le parole di Michael mi fecero sorridere:
“Maria?”
“Mm?”
“Maja
ha il ragazzo?”
“Perché
questa domanda?”
“Non
lo so… è che prima, mentre le raccontavamo la nostra storia, mi sono
improvvisamente reso conto che è diventata grande.”
C’era
del rimpianto nella sua voce? O era tristezza? Forse era entrambi: avevo sempre
pensato che fosse naturale per un genitore veder crescere il proprio figlio, ma
in quel momento capii che non era così. Non saprei spiegare se fosse successo
qualcosa in particolare che mi avesse portato a questa conclusione, e non
saprei nemmeno descrivere il misto di sensazioni che mi attanagliarono lo
stomaco: spaziavano dalla tristezza alla malinconia, dal dispiacere al senso di
colpa… Era una cosa stupida, dopotutto non era colpa mia se ero cresciuta, ma
non potevo fare a meno di dispiacermi per avergli causato un dolore… se di
dolore si poteva parlare. Persa nei miei pensieri, non mi accorsi che i miei
genitori avevano ripreso a parlare:
“Dobbiamo
essere fieri di lei, è una brava ragazza.”
“Tutto
merito del padre!”
“Non
fare lo spiritoso! Io sto parlando seriamente.” Dopo un attimo di silenzio,
Maria riprese: “Però anche noi siamo stati bravi a non farla sentire diversa…
sai, per la storia dei poteri alieni…”
“Sai
bene che non ho mai voluto che Maja si sentisse come mi sentivo io quando
abitavo con Hank. Credo che possiamo sentirci soddisfatti del risultato, direi
che ci siamo riusciti in pieno.”
“Assolutamente.
Sei un ottimo padre.”
“E
tu un ottima madre.”
“Grazie.
Mi fa piacere sentirtelo dire, perché ammetto che all’inizio di quest’avventura
avevo seri dubbi che avrei saputo crescere un figlio. Eravamo così giovani…”
Forse loro non lo sapevano, ma erano stati dei genitori esemplari. Persone, e
come tali a volte avevano sbagliato, ma erano pur sempre persone. “Michael… lo
sai che tutto questo significa che stiamo invecchiando?”
“Non
credo.”
“Come
non credi?”
“No…
secondo me siamo ancora in tempo per…” lo vidi grattarsi il sopracciglio e fare
una smorfia, prima di finire: “…sì, insomma… per… per un secondo figlio.”
“Cosa?
Vorresti un altro figlio? Adesso? A quest’età?”
“Mm
mm. Lo so che non sarà come la prima volta, ma… vorrei provare le sensazioni
che ci sono state negate la prima volta, vista la nostra situazione. Eravamo
giovani, appena fuggiti dalla città che bene o male era stata la nostra casa…
eravamo inseguiti dall’FBI… ho sempre sognato di dare a un figlio quell’affetto
che io non ho mai avuto, e ho paura di non esserci riuscito con Maja. Almeno
all’inizio, voglio dire.”
“Michael,
io invece cr-“
“No,
ti prego, fammi finire. Maria, non so come spiegartelo… Voglio provare cosa
significa sperare che uno stupido test comprato al supermercato sia rosa o
azzurro o quale sia il colore che indichi che è positivo… voglio non dovermi
preoccupare che il nostro bambino sia catturato dall’FBI all’uscita dall’asilo,
o non stare in ansia mentre lo porti al parco. Con Maja tutto questo ci è
mancato, e adesso ne sento il bisogno. Ho visto la sua faccia mentre le
raccontavamo la verità, e… mi sono sentito immensamente in colpa. È anche colpa
nostra se Maja non ha potuto conoscere sua nonna fino a oggi, e se…”
“Sh.
Non dirlo.” Il tono di voce di Maria si era addolcito, e dalla porta socchiusa
la vidi poggiare un dito sulle labbra di Michael. “Mia madre è stata
felicissima di conoscerla, così come lo è stata Maja. E anche se hanno dovuto
aspettare tutti questi anni, nessuna delle due ce ne fa una colpa. Michael,
abbiamo fatto bene ad aspettare, dovevamo essere sicuri che l’FBI avesse
archiviato il file sugli alieni di Roswell… Anche io avrei preferito tornare
prima, ma pensa a cosa sarebbe successo se fossimo venuti qui e avessimo
scoperto che eravamo ancora ricercati.”
L’espressione
di Michael si rilassò molto, e si formò un accenno di sorriso che si andò a
stampare sulla bocca di Maria, che ricambiò il bacio.
“La
mia Maria…”
“Probabilmente
nostra figlia mi ucciderà, ma è ora che tu lo sappia.”
“Cosa?”
“Maja
ha il ragazzo.”
“COSA?”
“Chi…
chi è?”
“Il
ragazzo che la prendeva in giro alle elementari.”
“Tu
lo sapevi?” La risata di Maria mi giunse
appena percettibile, al contrario dell’indignazione di Michael: “Tu lo sapevi e
non mi hai detto niente?”
“Avanti,
Michael…” gli rispose Maria, soffocando a stento le risate “…se Maja te
l’avesse detto l’avresti assalita con mille domande da padre geloso quale sei,
e avresti passato ai raggi x quel povero ragazzo tutte le volte che veniva a
prenderla a casa!”
“Cosa?
E’ venuto a prenderla a casa nostra?”
“Certo.
Secondo te come l’ho conosciuto? Mica potevo fare irruzione a scuola…”
“Dovevo
saperlo! Sono suo padre!”
“E
io sono sua madre. Con questo?”
M’immaginavo
l’espressione combattiva di Maria, contro quella dubbiosa e anche un po’ triste
di Michael. Da un lato aveva ragione, l’avevamo volontariamente tenuto
all’oscuro dell’esistenza di John, ma d’altronde l’avevamo fatto per una buona
causa, e cioè evitare tutta quella serie di avvenimenti citati da Maria, che
sapevo fin troppo bene si sarebbero avverati al nostro ritorno a casa, ora che
Michael sapeva.
Ormai
sconfitto, sentii il sospiro di Michael e le sue parole mi fecero sorridere:
“Voi
due mi farete diventare matto.”
“E’
probabile… ma come faresti senza di noi?”
Non
sentii la risposta, ma mi bastarono le parole di Maria per capire:
“E
non alzare gli occhi al cielo! Ci ami troppo per fare la parte del duro dal
cuore di pietra.”
“E’
tutta colpa tua, lo sai?”
“Sì,
e ne vado fiera.”
Che
dolci che erano. In pubblico venivano spesso presi per pazzi per il loro
continuo battibeccarsi, ma io potevo testimoniare a loro favore dicendo che
vivevano attimi di pura e semplice complicità, simbolo dell’amore che speravo
anch’io d’incontrare, prima o poi.