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Autore: Brin    18/05/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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16
Ragazzi, ci avviciniamo alla verità. Tra pochi capitoli scopriremo che fine ha fatto Shem, chi o cosa è Namar e soprattutto cos'è la Zona Rossa. Qualche risposta ci sarà già dal prossimo capitolo a dire il vero; a voi immaginare però quale sarà il primo nodo a sciogliersi.
Per qualunque cosa mi trovate su facebook oppure nel gruppo dedicato alle mie storie. Buona lettura,

Vale




16.

VERSO LA LIBERTÀ

*


Quando l’agente Silver, Amaya e Volker entrarono ad Assen, l’atmosfera che trovarono non era certo delle migliori. Gli avvisi di cattura erano ancora appesi dovunque, come se nessuno avesse avuto il coraggio di toglierli, e la gente cominciava a mormorare che portassero il malocchio. «Dev’essere successo qualcosa» ipotizzò Amaya. Silver la guardò, accigliato.
«Da cosa lo deduci?»
«Guardati attorno.»
Il poliziotto fece come suggerito dall’elfa, alla ricerca di qualche elemento anomalo. Cercò tracce materiali, sui muri, per terra; provò anche a fiutare l’aria alla ricerca di qualche odore in particolare, ma non rinvenne nulla. Volker lo guardò divertito.
«Intendevo dire il comportamento delle persone» Amaya sospirò, indicando una donna che era appena passata davanti a uno dei tanti avvisi di cattura, velocemente. Sembrava nervosa, e solo quando fu abbastanza lontana riprese a camminare normalmente.
«La maggior parte si comporta così, come se avesse paura di quegli avvisi.»
«Ma è assurdo» obiettò con calma Volker, scuotendo il capo.
«Non poi così tanto, se è davvero accaduto qualcosa» rispose Silver, quando all’improvviso qualcosa tra la folla catturò la sua attenzione.
Una figura in lontananza si stava avvicinando. Una donna. Sembrava avere delle fattezze familiari, ma Silver diede la colpa alla distanza. Eppure sperava, e il cuore cominciò a battere forte quando lei si avvicinò. Quando la riconobbe.
Sari.
«È lei!» gridò, ma non fece neppure in tempo a dirigersi nella sua direzione che Amaya era già schizzata tra la folla, correndo verso l’amica.
Anche Silver si precipitò, seguito da Volker. Ma più si avvicinava e più aveva la sensazione che qualcosa non andasse. Parlottava con un ragazzo decisamente diverso da Warknife, e il poliziotto riuscì chiaramente a leggere i segni della stanchezza sul suo viso. Era evidente che quei giorni trascorsi da ostaggio l’avevano sciupata più di quanto si fosse immaginato.
Eppure sembrava che qualcosa la preoccupasse, nonostante la libertà: lo vedeva dall’espressione contratta che aveva mentre parlava col ragazzo.
Quando si accorse di loro, non li salutò neppure. La sorpresa lasciò spazio a qualcosa di molto simile alla disperazione.
«Victor, Amaya!» Sari si catapultò addosso a loro, guardando entrambi con apprensione. A mala pena si accorse di Volker. «Dovete aiutarci a liberarlo!»
Silver non capì.
«Aiutare chi
«Namar!»
Amaya s’intromise, esprimendo lo stesso pensiero di Silver.
«Chi sarebbe questo Namar?»
«Warknife. Namar è il suo vero nome, almeno secondo quanto mi ha detto lui.»
«E vorresti che liberassimo Warknife?» domandò Silver sbalordito.
«Non abbiamo molto tempo! Per favore, aiutateci!»
Volker osservò la scena in silenzio, le braccia conserte al petto. Si chinò verso Amaya, e il suo fu un sussurro debole che solo l’elfa riuscì a sentire.
«Le hanno fatto il lavaggio del cervello, sicuramente.»
Amaya lo scacciò con un cenno della mano, lo stesso che si usa con una mosca fastidiosa. Aveva cose ben più importanti che dar retta a quel bell’imbusto.
«Ti rendi conto di cosa ci stai chiedendo? Sari, quel tipo è un omicida, ha ammazzato centinaia di persone e ti ha presa in ostaggio! Tu ci stai chiedendo di liberare un assassino!» stava gridando senza neppure rendersene conto. Sari la zittì immediatamente premendole una mano sulla bocca, e soltanto dopo essersi accertata di non aver attirato nessuna attenzione indesiderata si decise a rispondere.
«Lo so, ma c’è qualcosa che non mi convince in questa faccenda. Non so bene come spiegarvelo, ma vi chiedo di fidarvi di me.»
«L’ultima volta che mi sono fidato, sei finita in mano a un criminale che era creduto morto da anni» rispose scettico Silver.
«Appunto per questo! Non capisci che ad Artika sta accadendo qualcosa, Victor? Quell’uomo, Namar… Aveva dei tagli alle mani, profondi e infetti, e lo tenevano al buio come se fosse un animale…» Sari rabbrividì al solo pensiero. Per la prima volta, sentiva quel senso di frustrazione e impotenza uscire da lei come un fiume in piena. Sentiva che doveva fare qualcosa, e doveva farlo adesso. Guardò Silver, Amaya e infine Volker, i pugni stretti con forza tale da far sbiancare le nocche.
«Il C.S.M. arriverà tra poche ore, sarà solo questione di tempo. Questa è l’ultima possibilità che ha per fuggire, dopo di che solo il cielo saprà che cosa gli faranno ad Artika.»
Nessuno rispose, e Sari non seppe dire se gli mancasse il coraggio per farlo o se semplicemente non trovassero nulla con cui ribattere.
Per un breve istante la sua mano tremò.
«Lasciate che vi faccia una sola domanda, dopo di che sarete liberi di andarvene se non vorrete aiutarmi: vi piacerebbe morire come un povero animale, senza nessuna dignità? Perché è la fine che farà Namar, se non facciamo subito qualcosa.»
Nessuno rispose, né osò guardarla in faccia. Dopo alcuni istanti fu Amaya la prima a risollevare lo sguardo.
«Ti aiuterò, ma lo farò solo perché sei tu a chiedermelo, e perché non voglio che tu finisca di nuovo nei guai.»
Un sorriso illuminò lentamente il viso di Sari, che guardò Volker.
«Tu… ehm… non ti ho mai visto, ma se vuoi essere dei nostri comunque…»
«Lui ci ha aiutati a trovarti» spiegò Amaya. L’uomo fece un inchino profondo ed elegante, teatrale.
Sorrise, orgoglioso.
«Volker Kramer, al tuo servizio. Il che vuol dire che vengo con te.»
Sari sorrise, e dentro di sé gliene fu grata. Quando si voltò verso Silver, notò che il poliziotto era pensieroso. Sembrava diviso tra il suo dovere e ciò che desiderava fare.
«Hai già fatto molto per me, non ti costringo se non vuoi.»
«Non essere sciocca Sari, potrei tornarvi più utile di quanto pensi.»
La psicologa sollevò le sopracciglia, sorpresa. Non riusciva a capire che cosa intendesse dire.
Silver la guardò, sornione.
«Ho un’idea.»


*


La cella era buia, piccola e priva di finestre, e i prigionieri erano costretti a respirare costantemente la stessa aria rarefatta. I topi erano i veri padroni e lasciavano i loro escrementi nei giacigli di paglia, ma Namar non ne era assolutamente impressionato.
Quando l’avevano condotto verso la sua cella, aveva visto un paio di persone rinchiuse, ma ora che se ne stava seduto per terra non sentiva nessun rumore, tranne quello del proprio respiro.
Ogni tanto il silenzio veniva rotto dai passi di qualche guardia, che puntualmente veniva a insultare i prigionieri e a riempirli di bastonate prima di dare il cambio al collega.
Namar se ne stava seduto per terra appoggiato contro il muro, le dita che tamburellavano nervosamente sulla pietra del pavimento. La sua mente stava viaggiando velocemente nel tentativo di elaborare un piano di fuga, ma ogni congettura faceva irrimediabilmente acqua.
Le mura della cella erano perfettamente intatte, non c’erano finestre e non aveva nessun oggetto che gli consentisse di crearsi una via d’uscita da solo, e per di più non venivano mai lasciati soli.
Quando sentì dei passi pesanti avvicinarsi verso la sua cella, immaginò che fosse il cambio di guardia.
L’uomo che gli si presentò davanti era uno dei carcerieri, un ometto tarchiato, bassetto e dall’espressione piuttosto cattiva. Sorrideva sprezzante, atteggiamento che fece divertire Namar.
Trovava spassoso smontare pezzo per pezzo l’arroganza degli esseri umani, così forti solo quand’erano al sicuro al di là di una gabbia di ferro.
Non si disturbò neppure ad alzarsi in piedi, né parlò.
«Finalmente avrai quello che ti meriti» sghignazzò la guardia, armeggiando con un mazzo di chiavi.
Namar sorrise impercettibilmente.
«E chi mi ammazzerà? Tu?»
Cominciò a ridere di lui, e la guardia esitò per un istante a infilare la chiave nella toppa. Namar si alzò in piedi, lentamente, sinuoso come un felino in caccia.
«Lo so che lo vorresti, non c’è bisogno che lo nascondi» continuò, aprendo le braccia in un chiaro invito a fare ciò che voleva la guardia. Si avvicinò alle sbarre, e il carceriere afferrò un bastone riposto contro il muro, puntandolo contro di lui.
«STAI INDIETRO!»
Il prigioniero non fece resistenza. Arretrò, le braccia ancora aperte e un sorrisetto di sfida sulle labbra secche.
«Paura? Eppure sei tu quello fuori dalle sbarre, non io.»
Il sorriso sulle labbra di Namar si allargò a dismisura, e l’espressione sul suo viso divenne quasi grottesca.
«Sono venuti a prenderti. Avrai quello che ti meriti, animale!»
«Interessante. E chi si è scomodato per me, questa volta?»
Altri passi. Una seconda persona si stava avvicinando, probabilmente chi l’avrebbe preso in custodia da quel momento. Aveva una vaga idea di chi potesse essere, e la cosa non gli piaceva per niente anche se riusciva a nasconderlo piuttosto bene.
Ogni fibra del suo corpo si tese come una corda di violino, finché la persona che si stava avvicinando non fu visibile.
Un uomo di mezza età, del tutto diverso da quello che aveva perquisito l’armeria a Naima. Non solo nell’aspetto, ma anche nell’atteggiamento: non c’era arroganza nel suo sguardo, né aggressività.
Aveva un viso conosciuto, ma non ricordava dove l’avesse visto e, cosa strana, era da solo.
C’era qualcosa che non tornava.
«Il generale Rider mi ha mandato a prelevare il prigioniero. È molto urgente.»
«Capisco. Gli ordini sono ordini» annuì la guardia aprendo la cella.
I due uomini entrarono dentro, e Namar si lasciò legare i polsi senza opporre resistenza.
Venne condotto all’esterno della prigione e consegnato senza esitazioni al messo di Rider, che lo afferrò saldamente per un braccio e lo scortò lontano dal carcere.
«Chi sei veramente?» domandò Namar, senza neppure guardarlo in faccia. L’uomo non rispose. Gli fece cenno di rimanere in silenzio, continuando a camminare velocemente. Poi si guardò furtivamente attorno, avvicinandosi a un vicolo. Era una zona piuttosto appartata, lontano dalla strada principale. Solo quando fu sicuro di non aver attirato su di sé attenzioni non desiderate, parlò.
«Agente Victor Silver, e sono dalla tua parte. Per di qua.»
Svoltarono l’angolo, addentrandosi nel vicolo. Era deserto, eccezione fatta per un gatto nero che gli soffiò contro, arruffando il pelo. Namar rispose con un verso animalesco, e il felino fuggì via spaventato. Il poliziotto decise di non commentare l’accaduto, sicuro che gli sarebbero sfuggite parole sarcastiche che preferiva tenere per sé.
Proseguirono per oltre un centinaio di metri, finché giunsero di fronte a una piccola casupola abbandonata, antica e con il tetto sfondato. Un rifugio perfetto.
«Prima di entrare…» il poliziotto estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltello a serramanico, e liberò Namar dalle corde che gli imprigionavano i polsi. Quando bussò alla porta, ad aprire fu una giovane elfa dai capelli neri, che squadrò l’evaso con diffidenza.
Namar era sempre più confuso, anche se il suo volto non lo dava a vedere.
Afferrò Silver per una spalla, costringendolo a voltarsi.
«Mi vuoi dire che sta succedendo?» ringhiò spazientito.
In quel momento fece capolino dalla porta un viso che Namar non si aspettava di rivedere.
Umana, capelli castani. Una seccatura, ma anche un’utile palla al piede.
Sari.
La prima cosa di cui fu consapevole fu il caldo, sincero sorriso che lei gli rivolse. E ciò che accadde dopo non lo avrebbe mai più potuto dimenticare: Sari gli corse incontro, e gli gettò le braccia al collo.
«Sono contenta che tu sia qua» la sentì mormorare contro di lui, ma Namar rimase interdetto con le braccia a mezz’aria, incapace di reagire. Paralizzato.
Non si aspettava quella reazione, quella cosa. Non aveva mai ricevuto un abbraccio in vita sua, e ogni contatto con qualunque altra creatura aveva portato sempre e solo dolore. Ma quello era diverso, era caldo e piacevole.
Stava cominciando ad abituarsi, quando Sari sciolse l’abbraccio.
«Ti hanno fatto del male?»
Namar scosse il capo in un cenno negativo.
«Chi sono queste persone?» domandò sospettoso, indicando Silver e Amaya.
«Amici miei. Le presentazioni le facciamo all’interno, non è prudente farsi vedere qua fuori. E soprattutto abbiamo bisogno di un piano per scappare.»


*


Gli raccontarono lo stretto necessario, così che Namar potesse capire chi fossero quelle persone e, cosa più importante, riuscisse a vincere la diffidenza verso di loro.
Parlarono a lungo riguardo cosa dovessero fare, dove sarebbero potuti andare ora che neppure Assen offriva sicurezza.
Dopo la confusione iniziale, Namar diventò piuttosto irrequieto. Bocciava ogni proposta con stizza, camminava avanti e indietro, gettava frequenti occhiate alla strada deserta, e tutto questo stava facendo venire un gran mal di testa a Sari.
Cominciava a non poterne più, anche se s’imponeva di non perdere la pazienza: non doveva essere facile per lui, ora che anche l’ultima speranza di trovare un posto in cui nascondersi era svanita.
«E quindi cosa suggeriresti di fare?» sbuffò Amaya, rivolta a Namar.
Dal suo tono di voce, Sari intuì che anche lei doveva cominciare a essere stufa del comportamento del fuggiasco, ma sapeva anche che quel modo di parlargli avrebbe prodotto scarsi risultati.
Namar scrollò le spalle.
«Li uccido. Tutti.»
«Magnifico, così non fai altro che aggravare la tua posizione» scattò immediatamente Silver, torreggiando su Namar. A vederli così, l’uno di fronte all’altro, Sari temette che, se il poliziotto avesse voluto mettergli le mani addosso, l’avrebbe spezzato in tanti piccoli pezzi.
«Un uomo morto non può catturarmi. È la soluzione migliore.»
«Qui si parla di uccidere non un uomo, ma centinaia. Non ce la faresti mai.»
«Scommettiamo?» il ghigno di Namar fece tremare Sari. Poteva capire la sua decisione, ma Silver aveva ragione: lo avrebbero fermato comunque, e un posto per nascondersi non esisteva.
Eppure…
«Dev’esserci un’altra soluzione» Sari scosse il capo, sbuffando «Più perdiamo tempo a discutere e meno possibilità abbiamo di scappare prima dell’arrivo del C.S.M.»
«Francamente non vedo come il tuo amico possa uscire da una situazione come questa» commentò Volker, scettico. Quando Sari guardò Amaya, l’elfa non sembrava pensarla molto diversamente.
«Sono d’accordo con Kramer.»
«Anche io» fu Abidos a parlare, per la prima volta da quando avevano cominciato quella discussione. Sari lo guardò, incapace di replicare. Non avevano torto, non poteva negarlo, eppure non voleva arrendersi all’evidenza.
Namar scosse il capo, reprimendo a stento una risata roca e infrangendo il silenzio che era calato improvvisamente nella stanza.
«Quanto siete stupidi. Non capite che non me ne importa assolutamente nulla di quello che pensate?»
Nessuno parlò. Tutti erano stati freddati dalle parole dell’evaso, giunte completamente inaspettate.
«Se riusciranno a prendermi, lo faranno perché io sarò morto. Se vi aspettate che io mi lasci catturare, state sbagliando strada» aggiunse, prima di imboccare la porta e sbatterla così rumorosamente da far cadere dell’intonaco dalla parete.
Sari gli fu subito dietro, e se Namar se ne accorse, non lo diede a vedere.
«Dove stai andando?»
«A difendere la mia libertà.»
«Vuoi uccidere tutto il C.S.M?»
«Può darsi» l’idea fece sogghignare il fuggiasco.
«Non è l’esercito il problema.»
Spazientita, Sari lo afferrò per un braccio e lo costrinse a voltarsi per ascoltarla.
«So che non ti va di sentirtelo dire, però è vero. Anche se riuscissi a uccidere ogni squadra che ti vorrà catturare, ne arriveranno sempre altre. Non sarai mai libero, lo vuoi capire?»
La reazione di Namar fu assolutamente inaspettata. La spinse con tale forza che le fece perdere l’equilibrio, e Sari cadde a terra. Attutì la caduta con le mani, e sentì un lieve bruciore irradiarsi sui palmi. Benché una parte della sua mente registrò la sensazione di dolore dovuta alla caduta, ciò che attirava di più la sua attenzione era l’espressione rabbiosa di Namar. Rimase immobile a terra sostenendo il suo sguardo, impaurita.
«Che ne sai tu?! Che diavolo ne sai, tu?!»
Gli altri accorsero fuori dalla catapecchia, sentendo le grida del fuggiasco.
«ANCHE VOI, CHE PENSATE DI SAPERE?! NON SIETE VOI CHE VOGLIONO, NON-SIETE-VOI!» sbraitò agitando le braccia, l’espressione accesa d’ira. Solo allora Sari ritrovò il coraggio di muoversi, e si rimise velocemente in piedi. Gettò una breve occhiata alle sue spalle, dove tutti i suoi compagni erano pietrificati.
Tutti, tranne uno. Silver tremava, mordendosi il labbro inferiore per cercare di mantenere la calma. Quando fece un passo avanti, Sari intuì che non era più possibile per lui rimanere in silenzio.
«Non siamo noi che abbiamo ammazzato gli abitanti di un’intera città!»
Che grosso, immenso sbaglio. Sari chiuse gli occhi, gelata. Chissà che cosa gli avrebbe fatto Namar, per ciò che gli aveva appena detto. Non aveva il coraggio di guardare; si aspettava di sentire delle grida da un momento all’altro, eppure ciò che avvertì fu solo silenzio.
Quando riaprì gli occhi, il fuggiasco stava guardando Silver, spiazzato. Poi Namar cominciò a ridere, lentamente. Una risata rauca, proveniente dalla gola. Le spalle sussultarono, e il fuggiasco si coprì il volto con una mano.
«Quante cose non sapete… Siete così schifosamente convinti di essere nel giusto, sempre così tronfi, così arroganti… È per questo che vi odio» parlò con calma agghiacciante, come se stesse raccontando una favola. Di nuovo, la reazione del fuggiasco li aveva lasciati interdetti.
«Tutti voi. Uomini, maghi, elfi… Tutti uguali, tutti arroganti. Ipocrisia, servilismo e falsità dilagano tra di voi come piaghe. Non vi rendete neppure conto che la gente che condannate è migliore di voi, e nonostante tutto avete il coraggio di puntare il dito senza farvi prima un esame di coscienza. Non mi stupisce che ogni tanto una delle vostre vittime si ribelli contro di voi.»
Il sorrisetto con cui terminò la frase aveva un che di inquietante. Riprese a camminare senza aggiungere altro, diretto verso l’uscita del vicolo.
Anche se non riusciva a capire cosa nascondesse davvero la sfuriata di Namar, qualcosa in Sari le impedì di guardarlo andar via. Ora era libera di fare ciò che voleva. Poteva tranquillamente tornare a cercare la verità riguardo alla morte di suo padre, eppure, per svariati motivi, la creatura che si stava allontanando l’aveva legata a sé. Aveva conosciuto Shem, e ora come ora era l’unica persona che poteva ancora fornirle qualche informazione. Attorno a lui gravitava il mistero di Artika; lui che doveva essere stato giustiziato da diversi anni, ma che invece era vivo ed era pure riuscito a fuggire.
Lui che destava la sua curiosità, lui che sapeva delle cose che loro ignoravano.
Fu per tutti questi elementi messi assieme, o forse anche per una qualche sorta di istinto di protezione che corse verso di lui, per raggiungerlo.
Lo afferrò per un polso, mentre i palmi delle mani pulsavano ancora dal dolore per le escoriazioni.
«Io vengo con te.»
Il fuggiasco la guardò di sottecchi. Fu una frazione di secondo, eppure Sari riuscì a vederlo chiaramente: anche se impercettibilmente, Namar le aveva sorriso.


*


Ancora una volta, il coinvolgimento di Sari aveva indotto Silver e Amaya ad agire.
Non li aveva costretti, non l’avrebbe mai fatto: furono loro a prendere quella decisione.
Anche Volker e Abidos scelsero di seguirli, probabilmente più per un curioso senso di conformismo che altro.
Decisero per la fuga dalla città. Camminarono velocemente, percorrendo le strade minori e stando attenti a non incrociare nessuno sguardo. L’adrenalina galoppava nel sangue di Sari, e il cuore pompava impazzito. Tutto stava andando a meraviglia, e l’uscita dalla città non era molto lontana. Una volta fuori, bastava che rimanessero lontani dai sentieri principali e il gioco era fatto.
Sarebbero riusciti a evitare il C.S.M. e Namar l’avrebbe fatta franca anche stavolta.
Sbucarono sulla strada principale quando li videro arrivare nella loro direzione: un manipolo di uomini a bordo di macchine su cui troneggiava lo stemma dell’esercito, una ventina di vetture a occhio e croce. In testa, lui. Il generale Rider.
Namar si bloccò, e Sari con lui. Aveva il cuore in gola.
«Presto, nascondiamoci» sussurrò Silver, trascinando la psicologa verso la strada che avevano appena percorso. Solo allora Sari si rese conto che i suoi compagni erano già arretrati, ma Namar non li stava seguendo.
Sfuggì alla stretta di Silver, e corse verso l’evaso. Sembrava che la paura le avesse messo le ali ai piedi. Lo trascinò via con sé; in mente una sola parola: scappare.
«Si può sapere a cosa stai pensando? Non li hai visti?»
«Dobbiamo trovare un mezzo per fuggire, o non ce la faremo mai a piedi!» replicò Namar, ignorando la domanda.
Svoltarono l’angolo, distanziati dai loro compagni da alcuni metri. Il rombo dei motori imboccò la loro direzione, e il cuore di Sari mancò un battito: si erano accorti di loro e li stavano inseguendo. Erano rallentati dal manto stradale dissestato dalle buche, ma li avevano trovati.
«Vuoi rubare un mezzo?» domandò, ormai nel panico.
«Mi sembra ovvio!»
Si guardarono attorno, ma nelle vicinanze non c’era l’ombra di un veicolo. Quella piccola città sembrava essere rimasta fuori dal mondo, non toccata dall’evoluzione tecnologica che aveva fatto fiorire Silindril.
All’improvviso, un lampo di luce oltrepassò le loro teste e si conficcò nel terreno davanti a loro, lasciando il segno di una piccola bruciatura.
«Per ordine della Corporazione, fermatevi e non vi verrà fatto nulla di male!»
Non li ascoltarono. Continuarono a correre a perdifiato, l’adrenalina che pompava impazzita nelle vene. Sari sbirciò oltre le sue spalle, e credette che il cuore si sarebbe fermato in quell’istante.
«Ci stanno raggiungendo! Dividiamoci!»


*


Non se lo fecero ripetere. Silver, Amaya e Volker svoltarono a sinistra, imboccando un’altra stradina più stretta di quella che avevano appena lasciato, mentre Sari, Namar e Abidos proseguirono dritti.
Le macchine li seguirono, il rombo dei motori sempre più minaccioso, sempre più soffocante. Sari si voltò indietro: alle spalle avevano una decina di vetture, sicuramente un numero inferiore rispetto a quello che ricordava. I soldati si erano divisi.
Imprecò a denti stretti, sentendosi impotente. Rabbiosa. Dovevano inventarsi qualcosa, qualche espediente per riuscire a seminare il C.S.M. o per Namar non ci sarebbe stata nessuna possibilità di salvezza.
Svoltarono l’angolo, imboccando una via dove l’odore di sterco impregnava l’aria e la rendeva acre, fastidiosa. Poco più avanti, un fienile. Un recinto. E cavalli, una mandria non troppo numerosa ma sufficiente per rallentare la corsa dell’esercito.
Sari deviò la corsa verso la stalla col cuore in gola, ma Namar dovette aver avuto la sua stessa idea: lo vide schizzare verso l’entrata, e pochi istanti dopo i cavalli uscirono al galoppo, disperdendosi ovunque. In qualunque direzione.
Le macchine dell’esercito furono costrette a fermarsi, ma Sari sapeva bene che questo avrebbe fatto guadagnare loro nient’altro che pochi minuti di vantaggio. Dovevano assolutamente fuggire.
«NAMAR!»
Il fuggiasco uscì sul dorso di una giumenta pezzata, con le mani serrate sulla criniera e i piedi che stringevano spasmodicamente i fianchi dell’animale per non cadere.
Caricò Sari in groppa, non senza qualche fatica, e la psicologa si abbarbicò alla vita di Namar. Era terrorizzata dall’idea di cadere, e non avere nessun appiglio tranne il corpo del fuggiasco non aiutava di certo a tranquillizzarla.
«Spero tu abbia già cavalcato senza sella, prima d’ora!» gridò isterica. La risposta che ottenne non le piacque neanche un po’.
«Non direi! Non ho mai montato uno di questi cosi prima d’ora!» rispose Namar. Dal tono di voce sembrava particolarmente esagitato, come se tutto ciò lo divertisse moltissimo.
In circostanze diverse Sari avrebbe sicuramente ribattuto, arrabbiata, ma in quel momento non c’era spazio per altri pensieri che non riguardassero la fuga.
Quando sbirciò alle sue spalle per cercare Abidos, notò due cose: il ragazzo era in groppa a un altro cavallo, poco dietro di loro. E –cosa che la preoccupò- la mandria si era dispersa.
Erano rimasti pochi cavalli a separarli dal C.S.M., che aveva rincominciato a inseguirli.
«Più veloce, o ci raggiungono!» gridò a Namar, che assestò un deciso colpo di tacchi sui fianchi della giumenta. L’animale schizzò via veloce verso la fine della strada, e solo allora Sari si accorse di dov’erano. E si sentì morire.
La giumenta rallentò lentamente, passando dal galoppo al trotto e infine al passo, prima di fermarsi definitivamente. Davanti a loro, una scogliera alta molte centinaia di metri li divideva dal mare, e alle loro spalle le macchine si disposero a semicerchio impedendo ogni via di fuga.
«E ora?» domandò Abidos.
«E ora siete alla fine della fuga» ribatté secco un soldato scendendo dalla vettura, probabilmente un ufficiale a giudicare dagli stemmi sul suo petto. I commilitoni lo imitarono subito, impugnando le armi pronti a qualunque eventualità. Erano una quarantina di uomini circa, ma tra di loro non c’era il generale Rider.
Sari ipotizzò che dovesse far parte del gruppo che aveva inseguito Silver, Amaya e Volker, non trovava altra spiegazione. Ma con o senza il generale, la situazione non cambiava: erano in trappola, con il mare alle spalle e gli uomini del C.S.M. che gli impedivano ogni via di fuga.
L’unico modo per scappare era saltare oltre la scogliera, un’idea piuttosto spiacevole che non allettava neppure Namar. Una smorfia aggressiva gli contraeva il viso e gli lasciava scoperti i denti, facendolo assomigliare a un cane che sta per attaccare. Era nervoso, e pronto a qualunque cosa.
Strinse ancor di più la criniera della giumenta, che nitrì spaventata.
L’ufficiale sorrise sprezzante, gonfiato dall’inebriante profumo della paura dell’evaso.
«Abbi il coraggio di smontare da cavallo e di affrontarci, piuttosto che far paura a un povero animale.»
Namar sogghignò. Sari scese goffamente a terra, e Abidos fece lo stesso, ma l’evaso rimase in groppa al cavallo con ostinazione. Rimase con lo sguardo fisso sull’ufficiale, con un sorriso maligno.
«L’unico animale che vedo sei tu, tirapiedi dei maghi.»
Un’espressione irata comparve sul volto del soldato, che puntò contro Namar l’indice destro. Soltanto allora Sari fece caso a ciò che lo ricopriva, e ricordò perfettamente di averlo già visto da qualche parte. Un copri-indice intarsiato da motivi decorativi complicati, piuttosto simile a quello che indossava una delle guardie che avevano controllato i passy ad Artika.
«Scendi da cavallo e tieni le mani bene in vista!»
«Tenente!» la voce di Rider giunse all’improvviso, metallica e artificiale. Solo in quel momento Sari si accorse del Ragno indossato dall’ufficiale: riusciva a scorgere la pietra sul suo palmo, illuminata da una luce dorata. Il familiare segnale di comunicazione in corso.
«Generale Rider, l’evaso è in trappola. Siamo alla scogliera.»
«Ottimo lavoro, continuate a tenerlo sotto tiro. Vi raggiungo subito.»
L’istante successivo la pietra si spense, perse le proprie venature dorate, e diventò nera. Spenta.
E Sari si sentì come svuotata. Possibile che dovesse finire in quel modo?
«Allora, che aspetti?! Scendi da cavallo!» abbaiò il tenente, continuando a puntare l’indice armato contro Namar. L’imperiosità nella sua voce fece sorridere l’evaso, ma la sua espressione era tutt’altro che bonaria. Scese dalla giumenta con movimenti misurati, e per ottenere maggiore credibilità mantenne le braccia in alto, ben visibili. Una fugace occhiata gli consentì di cogliere Sari, a pochi centimetri di distanza da lui.
Fu tutto molto veloce.
Con uno scatto fulmineo serrò un braccio attorno alla gola della psicologa, mentre l’altra mano si posizionò sulla tempia della ragazza. In una frazione di secondo ebbe puntato addosso l’intero arsenale del C.S.M, ma questo non sembrò scoraggiare Namar.
Abidos, a pochi metri di distanza, rimase immobile a scrutare i membri dell’esercito con attenzione.
«Lascia andare la ragazza!» tuonò il tenente. Aveva uno sguardo duro, deciso. Cattivo.
Sari agonizzò, boccheggiando in cerca d’aria.
«Spiacente, ma sono propenso per il no» ghignò Namar. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle. Lo strapiombo era a poche decine di metri, ed era l’unica via di fuga possibile.
«Se non ti consegni con le buone, ti cattureremo con le cattive. Non sarà piacevole.»
«Tutti questi riguardi nei miei confronti mi lusingano, ma non ho perso abbastanza il senno per accettare l’offerta.»
«Quand’è così… Fuoco!»
Fu un brevissimo istante. L’ordine si perse nel vento, soffocato da decine di grida.
Urla di dolore, urla di sofferenza. Di morte.
Poi fu solo silenzio.
Sari non ebbe il coraggio di aprire gli occhi e guardare quello scenario raccapricciante, insopportabile. Namar continuava a stringerla contro di sé e lei non smetteva di tremare.
Aveva sperato di poter fuggire dal C.S.M., aveva desiderato la libertà per Namar, ma non a quel prezzo.
Quando sentirono il rumore di altri motori diventare più vicino, ormai era troppo tardi: fecero un ultimo, patetico tentativo di fuga, ma le macchine dell’esercito tagliarono loro la strada.
Erano in trappola, di nuovo.
Rider scese dalla vettura, e rimase pietrificato di fronte lo scenario atroce che si presentava a pochi metri da lui: una quarantina di corpi erano accasciati al suolo, immobili e ancora caldi. I loro volti erano una maschera orrenda, un quadro dipinto dalla morte stessa. Occhi sbarrati e spenti; bocche contratte in smorfie di dolore indicibile, di quelli che spaccano l’anima in due parti.
Erano i suoi uomini, ed erano tutti morti.
Passarono diversi minuti prima che Rider riuscisse a sollevare lo sguardo da quell’orrore apocalittico, sconvolto da un’ira accecante. Respirava velocemente, tremava, e sembrava che stesse per dare di stomaco.
«Tu… Sei un mostro… UN MOSTRO!»
Ma Namar non stava ascoltando una parola di quello che stava dicendo il generale Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva sentito chiaramente quell’energia fluire come un alito di morte, sapientemente controllata. L’avrebbe riconosciuta ovunque, e la fonte era una sola.
All’improvviso, tutto fu così chiaro da risultare accecante. Capì. Comprese l’entità del pericolo in cui Sari si trovava, e il modo in cui era arrivato fino a loro –fino a lui- sembrava quasi uno scherzo bizzarro del fato.
Eppure era tutto reale, tutto pericolosamente reale.
«Namar» la voce di Sari era ridotta a un mormorio sommesso.
Il fuggiasco cominciò ad arretrare, spostando lo sguardo da Rider ad Abidos. Non poteva attendere oltre. Doveva andarsene, ma lei doveva sapere.
Avvicinò le labbra all’orecchio di Sari, e la voce uscì flebile. Un sussurro.
«Guardati da Abidos, non è ciò che sembra. Tornerò a prenderti.»
La portata di informazioni che quella frase nascondeva lasciò Sari interdetta, ma fu costretta a riscuotersi quando sentì la gola improvvisamente libera e vide Rider puntare il dito armato –indossava lo stesso modello che il tenente portava sull’indice- contro Namar, pronto a fare fuoco.
Senza pensare si lanciò verso il generale, e rabbrividì quando vide la punta del copri-indice illuminarsi. Un fiotto di luce azzurra saettò oltre le spalle di Sari. Il suo cuore stava battendo con tale forza che la psicologa temette che le sarebbe uscito fuori dal petto da un momento all’altro.
L’istante successivo aveva le mani strette attorno al polso di Rider, nel disperato tentativo di impedirgli di fare nuovamente fuoco.
Era riuscita a neutralizzarlo, ma aveva paura di girarsi verso Namar e vedere.
Quando sentì un gemito strozzato, l’orrore si impadronì di lei.
Si voltò, anche se aveva una paura folle di ciò che avrebbe visto. E lo vide: Namar, sul ciglio della scogliera con un’espressione dolorante. Si reggeva l’addome, e la mano era sporca di sangue.
Rider l’aveva ferito.
Non riusciva a staccare gli occhi dal fuggiasco che lì, sull’orlo dell’abisso, sembrava più felice che mai. Lo vide sorriderle, un sorriso appena accennato, prima di guardare di sotto.
E Sari provò paura e rabbia. Paura per lui, e rabbia per quel destino assurdo.
Fu come un incubo. Lo vide dare la schiena alla scogliera. Sostenne lo sguardo della psicologa fino alla fine, senza smettere di sorridere. Chiuse gli occhi e allargò le braccia come fossero ali.
E come la fine di ogni cosa, si lasciò andare. Sari lo vide sparire oltre la scogliera, nel vuoto. Giù, fino a un violento tuffo nell’acqua che tuttavia non arrivò mai.
Trattenne il fiato per secondi interminabili, divorata dall’angoscia. L’unica cosa che vide fu un corvo salire verso il cielo. Verso la libertà.

   
 
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