Film > Batman
Ricorda la storia  |      
Autore: nuvolenere_dna    23/05/2012    3 recensioni
[ Il cuore di Harley accelerò velocemente.
Non era ancora tornato a casa, non si sapeva dove fosse, non aveva con sé un cellulare, un localizzatore, non aveva la benché minima idea del perché non fosse ancora da lei, ed ecco la risposta, quella che più temeva, quella che le faceva arrampicare brividi lungo la schiena, quella che odiava profondamente: il suo amato o era stato catturato o era morto. ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harley Quinn aka Harleen Quinzel, Joker aka Jack Napier
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
joker3 LADIES AND GENTLEMEN, benvenuti alla mia nuova fiction.
Sono lieta di presentarvi la mia terza Joker/Harley. Non so bene come sia venuta, so solo che è più lunga rispetto al mio standard. E’ meno romantica e più angstiosa delle altre perché è estremamente Joker-centrica, non si concentra molto sulla storia tra loro quanto più sul suo passato e sul peso dei suoi ricordi. Inizialmente doveva essere solo il sequel della mia fiction “Someone To Come Home To”, ma poi si è evoluta notevolmente fino a diventare una storia anche a sé stante.
Avvertenze:
- Come ben sapete, Jack Napier è il vero nome del Joker.
- Riguardo al passato del Joker e all’origine delle cicatrici ho deciso di attenermi alla prima delle due storie che lui stesso racconta all’interno del film “Il Cavaliere Oscuro”: la colpa è del padre, alcolizzato e violento, che in seguito ad una lite uccide la madre e sfregia il volto del bambino.
- La parte centrale in corsivo è un flashback dell’infanzia del Joker.
Prologo:
Il Joker ha progettato un colpo straordinario, far esplodere l’intero quartiere ovest della città per distrarre la polizia, per poi far saltare in aria il Palazzo di Giustizia, situato nel lato est. Si è preparato a lungo per questo colpo, e non ha assolutamente voluto che Harley andasse con lui, ma l’ha fatta rimanere a casa dicendole che sarebbe ritornato entro l’ora di cena.
Buona lettura. Attendo pareri sia positivi che negativi.
ND
 
Promises
 
[ You'd better believe I'm coming
You'd better believe what I say
You'd better hold on to your promises
Because you bet you'll get what you deserve ]
The Cranberries - Promises
 
- Il suo quadro clinico? – esordì la dottoressa, sistemandosi meglio il camice bianco e raccogliendo i capelli scuri in una pratica coda di cavallo. Era nel turno di reperibilità, quella sera, ed era appena stata chiamata; nonostante avesse tentato di opporsi, in quanto buona parte della città era esplosa per mano del Joker e le strade erano parzialmente distrutte, il direttore era stato irremovibile: doveva recarsi immediatamente all’Arkham Asylum per un caso urgente. Non aveva battuto ciglio quando aveva notato che il suo paziente misterioso non era altro che il Joker stesso, catturato dalle forze di polizia e trasportato nell’unico luogo che era stato in grado di contenerlo, anche se per un breve periodo. In un carcere normale sarebbe evaso nel giro di qualche ora, mentre l’Arkham, manicomio criminale, aveva messo in atto notevoli misure di sicurezza, che nella maggior parte dei casi riuscivano a dissuadere gli psichiatrici malviventi che tentavano continuamente di scappare.
Lo guardava con occhi curiosi e indagatori: quell’uomo era stato in grado di far esplodere l’intero quartiere ovest di Gotham City, per poi concentrarsi sul Palazzo di Giustizia, fatto saltare in aria in un tripudio pirotecnico dai colori meravigliosi. Che genere di mente poteva annidarsi dietro una condotta simile? Aggrottò la fronte, mentre lo guardava respirare affannosamente, sdraiato su di un letto: polsi e caviglie erano avvolti da cinghie dure e metalliche, gli occhi coperti da una benda spessa, i vestiti vagamente strappati e macchiati di sangue. Fu proprio quel particolare ad attrarre la sua attenzione: quel liquido scarlatto e copioso imbrattava le coperte sulle quali era steso, abbondante e inarrestabile, scendendo lentamente ai lati del materasso e depositandosi a terra.
- Non.. non lo sappiamo, dottoressa. E’ per questo che l’abbiamo chiamata. – sussurrò l’infermiera alla quale si era rivolta, non riuscendo a sostenere il suo sguardo deciso e indagatore.
- Che cosa significa che non lo sapete? – insisté, a metà fra l’incredulo e il divertito, mentre continuava a guardare l’oggetto del loro discutere, separato da loro da uno spesso vetro infrangibile.
- Nessuno ha avuto il coraggio di entrare lì dentro. – bisbigliò in un soffio – Quell’uomo è pericoloso. Gli altri dottori si sono rifiutati di occuparsi del caso, per paura di eventuali ritorsioni. Lei non è obbligata ad accettare, l’abbiamo chiamata solo per scrupolo: se vuole, è libera di andarsene.
- Mi spieghi una cosa – ribatté, indispettita – Nessuno ha tracciato il suo quadro clinico perché da quando è qui non è mai stato visitato?
- Esatto, dottoressa. – confermò allora, stanca e irritata. Perché le importava tanto?
- E se dovesse morire, di chi sarebbe la responsabilità? – disse a voce più alta, vagamente alterata.
- Credo che l’intera Gotham City tirerebbe un sospiro di sollievo alla notizia della sua dipartita, specialmente dopo il suo ultimo gesto: nemmeno le forze dell’ordine condannerebbero seriamente qualcuno per averlo ucciso. Di rifiuti umani del genere non importa a nessuno, almeno questo è quello che credo io. – mormorò con una smorfia di disprezzo, lanciando un’occhiata di scherno all’uomo al di là del vetro, immobile e silenzioso.
- Non sta a noi deciderlo. – rispose freddamente la dottoressa, disgustata nel profondo, aprendo la porta della cella vuota e luminosa. Avvicinandosi al Joker, fu colpita dal pregnante e inevitabile odore di sangue che permeava la stanza e le si infilava su per le narici provocandole un forte stordimento. I faretti bianchi puntati sul corpo di lui la accecavano, facendole socchiudere leggermente le palpebre e causandole una vaga sensazione di esposizione eccessiva e di freddo.
Era strano, guardarlo così da vicino: lo aveva visto innumerevoli volte in televisione e le era sempre sembrato determinato, fiero, ma soprattutto ridente e divertito: nella sua espressione erano palpabili il godimento e la gioia per gli atti che compieva. Mentre ora, non vedeva altro che un paziente come molti altri, un semplice uomo dagli occhi bendati, legato e inerme.
- Chi.. chi sei? Dove sono? – mormorò il Joker, percependo una presenza accanto a sé, la voce bassa e roca, ridotta a un sussurro debole e confuso.
- Sono una dottoressa dell’Arkham Asylum. Sei stato catturato dalla polizia e riportato qui. Non ricordi niente? – domandò, mentre prendeva una sedia e si accomodava accanto a lui, tirando fuori dalla sua valigetta un blocco per gli appunti: qualsiasi cosa poteva essere utile a formulare una diagnosi.
- No.. niente. – rispose, affranto. Il Joker si mordeva le labbra, contratte in una smorfia di evidente dolore, cercando di trattenere i gemiti che sembravano accumularsi copiosi nel suo palato. Nei palmi delle mani stringeva le lenzuola così energicamente da fermarsi la circolazione delle punte delle dita.
- Soffri spesso di vuoti di memoria? Veramente non ricordi come sei arrivato qui? – mormorò incuriosita, lasciando cadere il taccuino e avvicinandosi lentamente a lui, sedendosi su di una sponda del letto. Lo fissò con più attenzione, allarmata: il suo occhio clinico le suggeriva che probabilmente l’uomo soffriva molto. Era difficile non notare il sudore che imperlava la sua fronte, traboccante fra i capelli mossi e sconvolti, ma anche i fremiti del suo corpo, la bocca impastata e umida di saliva anche troppo abbondante.
- No. – ripeté, innervosito, il fastidio e l’ira che intridevano sottilmente quella voce bassa e fioca. La mente confusa, scevra di ricordi, gli occhi forzatamente chiusi in una tenebra di tessuto, le membra costrette all’immobilità, caricavano il suo animo di una rabbia profonda e animale, coadiuvata nella sua essenza da un dolore insopportabile che gli faceva venire voglia di urlare, instabile e tremante, prodotto da continue scariche che gli attraversavano le tempie, la nuca, la fronte.
- Dove senti dolore? Ti hanno sparato? Da dove viene il sangue? – gli chiese, allora, calma.
- La testa.. la testa.. – bisbigliò confusamente, mentre un senso di nausea e di vertigine lo scuotevano, mozzandogli il fiato. La dottoressa lo mise lentamente a sedere, facendo attenzione a non fargli compiere movimenti troppo bruschi, poi gli sfilò con delicatezza la benda che gli copriva le palpebre, immediatamente spalancate. Il Joker mugolò di dolore, non appena la luce fredda e tagliente attraversò ferendo i suoi occhi gonfi e rossastri e li richiuse subito. Ma quello che sconvolse la dottoressa furono le lacrime incastonate fra le sue ciglia lunghe, faticosamente trattenute fra le palpebre serrate.
Non credeva che un criminale di quel genere potesse piangere. La dottoressa si accigliò: per lei tutti i pazienti erano uguali e meritavano la stessa considerazione. Lavorando ad Arkham aveva visto tantissimi criminali con problemi psichiatrici, e aveva ormai smesso di farsi problemi di giustizia ed etica professionale; chiunque aveva il diritto a essere curato, e ormai le sembrava evidente che il Joker stesse male sul serio. Ma cosa poteva essergli successo? Non aveva segni di spari, gli arti sembravano ancora funzionanti, era ancora in grado di parlare. Sembrava stordito, frastornato. Continuò a riflettere, mentre nella sua mente cominciava a prendere piede una domanda: come avevano fatto a catturarlo? Lo avevano per caso sedato?
- La testa.. – continuava a gemere lui, mentre abbassava il capo per toccarsi le gambe, in cerca di sollievo.
- Che cosa è successo? – domandò lei inutilmente, e mentre gli passava alle spalle finalmente capì da dove era sgorgato il sangue. I vestiti sulla schiena erano quasi completamente strappati, e tramite questi tagli erano chiaramente visibili grandi cocci di vetro inabissati nella sua carne chiara e tenue,diventata umida e scarlatta. Ne sfiorò uno con le dita, per cercare di capire quanto in profondità era penetrato nei suoi muscoli, provocando i suoi lamenti, subito soffocati contro il tessuto scuro dei suoi pantaloni.
Il Joker sentiva la testa pulsare, girare all’impazzata, diventata improvvisamente pesante come un macigno. Una nebbia gli confondeva gli occhi e la mente, non riusciva più a vedere nulla di definito di fronte a sé: solo vortici dal candore accecante e dal colore purpureo. Cercò di inspirare con più calma, tentando di abbassare la frequenza cardiaca alle stelle, inutilmente.
Si tirò nuovamente seduto e non poté impedirsi di vomitare sul pavimento, in un susseguirsi di colpi di tosse e di tremori che scuotevano ritmicamente tutto il suo corpo. Sfinito, ricadde esanime sul letto, gli occhi semichiusi e stralunati, il capo abbandonato su una spalla e le labbra semiaperte.
 
- Ho bisogno di aiuto, qui. Non mi interessa se avete paura, il paziente non è in condizione di nuocere ad alcuno. – disse fermamente la dottoressa nell’interfono accanto al letto, mantenendo il suo abituale sangue freddo – Mandatemi un’infermiera e un telefono, subito.
Le sue richieste furono subito esaudite: ricevette un cellulare funzionante, mentre l’infermiera si affrettava a pulire il pavimento. Uscì dalla stanza, cominciando a percorrere il corridoio adiacente.
- Sono Lane Whistle, dottoressa dell’Arkham Asylum. Ho bisogno di parlare urgentemente con chi ha effettuato la cattura del Joker. Sì, attendo in linea, grazie. – disse con fermezza, spinta da una vaga intuizione.
- Pronto, sono il commissario Gordon, mi hanno riferito che ha qualcosa di importante da dirmi riguardo al Joker. E’ suo paziente, giusto? – disse un’ansante voce maschile, dopo un lungo periodo di attesa. La riconobbe: non era affatto inusuale sentirlo parlare in televisione.
- E’ proprio per questo che l’ho chiamata. Volevo chiederle.. come avete effettuato la sua cattura?  -
- Subito dopo che il Joker ha fatto saltare in aria il Palazzo di Giustizia, Batman è riuscito ad individuarlo fra la confusione e le macerie e ce lo ha indicato. Così noi della polizia lo abbiamo raggiunto e imprigionato. E’ stato davvero un colpo di fortuna essere riusciti a prenderlo, se non fosse stato per Batman non lo avremmo mai trovato. – spiegò lui, paziente e compiaciuto.
- Questo l’avevo saputo, buona parte di quello che ha detto è stato riferito dai telegiornali. La mia vera domanda è come avete fatto nella sostanza a chiudergli le manette ai polsi, perché si sa che il Joker è molto difficilmente avvicinabile. – ribatté seccamente la donna.
- Lo abbiamo sedato. - confessò l’uomo – Uno dei nostri tiratori scelti lo ha colpito con una massiccia dose di farmaci, che lo hanno immediatamente portato allo svenimento.
- Quali farmaci? La sua cartella clinica presente ad Arkham dice chiaramente che il suo corpo è immune alla maggior parte di quelli esistenti e normalmente utilizzati. Nessun sedativo da noi conosciuto potrebbe seriamente avere un effetto su di lui. –
- E’ un farmaco sperimentale che avevamo fatto progettare apposta per lui. Ma, perché me lo chiede? Non riesce a risvegliarsi? – sbuffò il commissario, infastidito da tutta quella indiscrezione. Non aveva mai conosciuto quella donna, ma era certo che non gli sarebbe mai piaciuta.
- Perché credo non abbia avuto l’effetto desiderato. Oltre al fatto che è sveglio da ore, afferma di non ricordare niente dell’accaduto, accusa dolori fortissimi alla testa, nausea, vomito, oltre ad essere coperto di sangue. Ho paura che da un momento all’altro possa avere un crollo psichico, e volevo accertarmi di ciò che gli era stato somministrato in precedenza per agire di conseguenza. – lo rimbeccò lei, irritata.
- Senta, io non so che cosa dirle. Capisco che per lei la salute dei pazienti è la priorità ma deve capire che un criminale di quel calibro va assolutamente catturato ad ogni costo. Se il farmaco che gli abbiamo iniettato ha avuto effetti collaterali inaspettati, sinceramente non ci importa, perché è servito ad impedire che continuasse a far saltare in aria l’intera città, capisce? – disse tutto d’un fiato, irremovibile.
- Capisco perfettamente. – confermò lei, di nuovo calma – Volevo solo sapere se le condizioni del paziente sono naturali oppure dovute ad un medicinale in particolare. Ma, senta, di che genere si tratta?
Non ebbe tempo di ascoltare la risposta, perché l’infermiera le tolse il cellulare di mano intimandole qualcosa di incomprensibile e indirizzandola verso la cella del paziente; non dovette nemmeno chiederle spiegazioni perché comprese da sola la situazione.
Le urla del Joker risuonavano, taglienti e strazianti, in tutto il piano, infilandosi in ogni anfratto e in ogni orecchio umano: erano grida di dolore e di disperazione, lancinanti e insopportabili. La sua espressione era una maschera di sofferenza, gli occhi ridotti a tenebrose fessure umide,incandescenti e irate come quelli di una bestia caduta in trappola. Si dimenava  al punto di ferirsi polsi e caviglie, a furia di sfregarli violentemente contro le cinghie che lo trattenevano, ormai vagamente rossastre.
- Devo.. devo andare a casa. – biascicava in un mormorio confuso a causa del respiro affannoso, frutto del cuore tachicardico e impazzito.
- Di cosa stai parlando? C’è qualcuno che dobbiamo chiamare? – gli domandò lei, indecisa sul da farsi. Qualsiasi farmaco a sua disposizione sarebbe stato inefficace sul corpo temprato e assuefatto del Joker: non sarebbe mai riuscita ad addormentarlo, inoltre c’era anche la probabilità di interazione con quello assunto precedentemente. Non conosceva i principi attivi del sedativo con cui lo avevano legato e non aveva alcuna intenzione di correre rischi; preferiva attendere ancora, per avere più chiaro il decorso della situazione.
- Non, non lo so. A casa da chi? Non lo so, non c’è nessuno a casa, forse. O forse c’è. Ma nessuno mi aspetta, nessuno mi aspetta. – delirava l’uomo fra le grida, in preda ad una crisi isterica, tentando disperatamente di scavare in quella memoria improvvisamente desertica ed enigmatica, nella quale non riusciva ad individuare nulla di conosciuto. Il dolore alla testa era sempre più forte, sempre più martellante, sempre più intenso. I suoi occhi scuri e prostrati si annebbiavano sempre di più, inducendolo a sbattere continuamente le ciglia, fino al momento in cui si velarono definitivamente.
 
*
 
L’ora di cena era passata da un pezzo e Harley aveva un terribile presentimento. Il Joker le aveva impedito di unirsi a lui per quello straordinario atto criminale in città, e le aveva detto che sarebbe sicuramente rientrato in serata. Nonostante ciò, la notte cominciava a oscurare la città e la donna era ancora sola, raggomitolata su una delle sedie del tavolo in cucina.
Si accese impaziente una delle sigarette del Joker, le sue preferite, e si rilassò per un attimo nel percepire il fumo caldo che le attraversava la gola e le riempiva lentamente i polmoni. Non fumava spesso, non ne aveva l’abitudine, ma nei momenti in cui si sentiva sola, lontano da lui, il sentire fra le labbra il sapore familiare della sua bocca aveva sempre il potere di tranquillizzarla. Harley godette di quella sensazione calda e confortevole per un attimo, per poi rivolgere di nuovo la mente alla preoccupazione precedente.
Aveva evitato fino a quel momento, fiduciosa e persuasa che tutto sarebbe andato secondo i loro piani, ma non riuscì più ad impedirsi di accendere la televisione. Pallida e fremente, ancora circondata da bluastre volute di fumo, cercò il telegiornale e si mise in ascolto, le orecchie inevitabilmente tese e pulsanti.
- Il bilancio dei morti al momento è all’incirca mezzo migliaio, i dispersi si aggirano intorno alle due o tre migliaia. Le macerie al momento ricoprono buona parte della città e ci vorrà molto tempo anche solo per controllare la presenza di eventuali superstiti. Ma l’operazione di recupero è appena iniziata, siamo fiduciosi di riuscire a salvare molte persone. – diceva un poliziotto al giornalista che lo intervistava, attorniato da una folla visibilmente spaventata e scossa dagli avvenimenti.
- Indiscrezioni che sono giunte affermano che dietro tutto questo ci sia il pericoloso criminale denominato Joker, che si dice abbiate già arrestato. Tutto questo corrisponde alla verità? –
- Io non posso rivelare nulla – ribatté con un largo sorriso – Ma almeno per un po’ di tempo siamo certi che Gotham City starà al sicuro.
Il giornalista e la folla si sciolsero in timidi applausi e in impercettibili sorrisi, intuendo che dietro la frase del poliziotto ci fosse la conferma dell’arresto del Joker. Il cuore di Harley accelerò velocemente.
Non era ancora tornato a casa, non si sapeva dove fosse, non aveva con sé un cellulare, un localizzatore, non aveva la benché minima idea del perché non fosse ancora da lei, ed ecco la risposta, quella che più temeva, quella che le faceva arrampicare brividi lungo la schiena, quella che odiava profondamente: il suo amato o era stato catturato o era morto.
 
*
 
- Basta, basta! Smettetela di inseguirmi! – la voce fioca del bambino era resa pressoché impercettibile dallo scroscio della pioggia, impetuosa e abbondante, ma soprattutto dagli ansiti continui che gli afferravano la gola in una morsa di stanchezza e di soffocamento.
Correva, correva, le piccole scarpe che si inabissavano nella terra scura, bagnata e divenuta cedevole, le braccia che si muovevano scompostamente, mosse dal nervosismo e dalla paura. Il cortile della scuola, costellato di alberi, era ormai buio e l’aria fredda, in quanto la sera era prossima ad arrivare.
- Ti prenderemo, puoi scappare quanto ti pare ma alla fine ti arrenderai! – ribatté un ragazzino, ghignando appena, il tono crudele e divertito. Era quello che si muoveva più velocemente degli altri, si trovava a pochi, pochissimi passi dalla vittima preferita dei loro giochi feroci: bastava uno slancio deciso e lo avrebbe acciuffato, dopodiché si sarebbero divertiti a sufficienza. Non per niente era considerato il capo di quella piccola banda di bulli: sarebbe sempre stato in grado di garantire ai suoi compagni dei passatempi decenti.
- Lasciatemi in pace, io non vi ho fatto niente! – rispose debolmente il bambino, mentre si avventurava fra gli alberi, le ortiche che gli solleticavano i pantaloni sottili e neri, le mani che sfioravano appena le punte dell’erba alta, incolta, ai lati del cortile. Il cuore gli stava per esplodere in petto, il terrore e l’ansia gli facevano spalancare i grandi occhi scuri e caldi, scintillanti dalla paura.
Cadde, il piccolo piede incastrato sotto una radice sporgente, il viso si infranse contro la terra fradicia, il fango fra i capelli mossi e castani. Gli altri bambini lo attorniarono come uno stormo di avvoltoi, pronti ad aggredire senza remore la loro preda sola ed indifesa. Le loro risate, malvagie e spietate, riempivano le sue orecchie infantili e rimbombavano infinite volte nella sua mente labile e spaventata; si raggomitolò a terra serrando forte gli occhi e tentando di proteggersi. Calò un silenzio spettrale.
- Jack Napier. – sussurrò il capo degli inseguitori, abbassandosi su di lui e tentando con violenza inaudita di girargli il viso dalla sua parte. – Guardami, Jack Napier.
Jack si voltò, strisciando i boccoli scuri nella melma, non potendo evitare in nessuna maniera di incrociare quegli occhi piccoli e neri, intrisi di cattiveria, che si divertivano ad esaminarlo come il più soddisfacente dei giochi. Tremava da capo a piedi e si sforzava in tutti i modi di sostenere quello sguardo atroce, senza crollare, senza dare loro la soddisfazione di vederlo distruggersi sotto quelle pupille minacciose.
- Che, che cosa volete da me? – ebbe il coraggio di sussurrare, stringendosi nella maglietta scura che indossava, ormai intrisa di terra.
- Sei un mostro, Jack. – gli sibilò in un orecchio, fingendo di bisbigliare, concentrando poi la propria attenzione sul viso del bambino, dai lineamenti dolci e delicati, ma spezzato a metà da delle recenti cicatrici che nascevano ai lati della bocca per poi spegnersi in mezzo alle guance. Ancora disseminate dal sangue rappreso, ancora solo parzialmente ricucite, ancora molto gonfie.
Gli altri bambini risero con scherno, cominciando a canticchiare un motivetto diventato usuale tra loro, nel quale ripetevano la frase detta dal loro capo.
- Guardati, sei veramente un mostro.. Dicono che sia stato tuo padre a ridurti così la faccia.. Chissà che cosa devi aver combinato per meritarti una tale punizione! – sogghignò apertamente, sciogliendosi in una risata derisoria – Dai, raccontacelo a tutti, che cosa hai fatto?
- Niente. – rispose debolmente Jack, ferito nel profondo ma incapace di reagire. Il suo rifiuto a rispondere correttamente fu premiato con una serie di schiaffi che si abbatterono sul suo viso già abbastanza martoriato, accrescendo i suoi gemiti.
- Cosa hai detto? Non abbiamo sentito bene! – incalzò il capo degli inseguitori, furente, sferrandogli un calcio in pieno ventre che lo fece sobbalzare e gridare di dolore. Jack non riuscì più a mantenere la sua consueta dignità e si sciolse in lacrime, provocando il silenzio immediato dei suoi aguzzini.
- Credi di farci pena? – sussurrò fra i denti, mentre una rabbia animale e ingiustificata gli afferrava le membra – I mostri non fanno pena a nessuno, ricordatelo, Jack.
Non appena finì di parlare, si avvicinò con lentezza a lui e lo colpì alla testa con una tale forza da provocare il suo svenimento. Se ne andarono, correndo e fingendo noncuranza, lasciandolo così, sanguinante, infreddolito, svenuto sotto la pioggia battente.
 
- Jack? Jack? Ti prego, rispondi! – una voce calda, materna, riempiva e turbava improvvisamente il fruscio dell’acquazzone. La conosceva: nell’irrazionalità del dormiveglia non avrebbe saputo dire di chi si trattasse, ma gli evocava una sensazione familiare e piacevole. Si abbandonò a quelle parole, ma quando il suo corpo venne sollevato e avvolto da una sensazione di calore e di protezione, si svegliò improvvisamente, ispirando avidamente dai polmoni stanchi e rivolgendo lo sguardo alla persona che lo aveva soccorso.
La maestra Lily lo guardava, sentendosi estremamente in colpa per averlo perso di vista: li aveva notati allontanarsi correndo, e ingenuamente aveva pensato che stessero giocando, dunque non era intervenuta. Ma quando aveva visto gli altri bambini ritornare frettolosamente senza di lui ed eludere le domande, aveva cominciato ad insospettirsi: perché Jack non era più con loro? E soprattutto, perché erano tutti così sporchi di fango e di un altro imprecisato liquido rossastro? Un sinistro presentimento l’aveva colta e aveva cominciato ad avanzare fra gli alberi, stringendo convulsamente l’ombrello fra le dita. E lo aveva visto, rannicchiato ai piedi di un abete, sporco di melma e di sangue, privo di conoscenza, così lo aveva preso in braccio, noncurante di sporcarsi, nel tentativo di riscaldarlo.
- Maestra.. – balbettò il bambino, ricominciando a piangere, stringendosi nel suo abbraccio caldo e confortevole – Mi fa male la testa..
- Non ti preoccupare, piccolo. Andrà tutto bene. – disse, cercando di impedire alla propria voce di tremare, cominciando ad avanzare nell’erba, tenendolo stretto a sé. La donna ribolliva di rabbia e indignazione: come potevano essere dei bambini così crudeli? E oltretutto, con un bambino già visibilmente ferito. Aveva saputo la sua disgrazia appena qualche settimana prima, quando Jack era stato trasferito nell’orfanotrofio in cui lavorava: il padre, alcolizzato, aveva ucciso la madre e poi aveva sfregiato il volto al loro unico figlio, presente al momento dell’omicidio, dopodiché si era tolto la vita. E così Jack, a soli otto anni, era rimasto completamente solo. Dopo un breve soggiorno in ospedale i servizi sociali, in assenza di altri parenti a cui affidarlo, lo avevano trasferito lì, in attesa di un’eventuale adozione.
Le faceva una pena immensa, quel bambino così triste, che passava le giornate a guardare il nulla dalla finestra, con quel viso dolce, orribilmente sfigurato; non parlava mai a nessuno ed era molto timido, solo lei a volte riusciva a farlo sorridere. Jack la trovava così bella, così delicata, così simile a come avrebbe voluto che sua madre fosse: Lily era bionda, con una lunga chioma di capelli fini e lisci sempre ordinati, e i suoi occhi erano dello stesso colore del mare. Il solo specchiarsi al loro interno lo tranquillizzava e placava il terrore costante che albergava ormai nel suo piccolo cuore.
- Andrà tutto bene, ora ci sono io a proteggerti. – sussurrava la donna fra i suoi capelli mossi, sporchi di terra, accarezzandogli delicatamente la testa e le guance, continuando a camminare nel cortile, ormai vicina all’edificio. Lo portò in braccio fino alla sua stanza da letto, dove lo spogliò, lo asciugò con attenzione  e gli fece indossare il pigiama, per poi immergerlo sotto le coperte.
- Non andartene, ho paura. E se non torni più? – mormorò Jack con gli occhi lucidi non appena comprese che Lily se ne stava andando, afferrando una delle sue mani e stringendola forte fra le proprie.
- Tornerò, non preoccuparti. Verrò a svegliarti domattina, così parleremo con calma di quello che è successo oggi. Va bene, piccolo Jack? – lo consolò con un sorriso materno, toccandogli fugacemente il viso e allontanandosi in fretta da lui. Voleva bene a quel bambino, ma quella sua smisurata carenza d’amore a volte la spaventava: e se non fosse stata in grado di aiutarlo? Anche solo il guardare quelle cicatrici le faceva salire i singhiozzi : com’era possibile infliggere volontariamente dolore ad una creatura così tenera e indifesa? Uscì velocemente dalla stanza, persa nei suoi pensieri.  
 
Jack dormì a lungo ed era ormai mattina inoltrata. Nessuno era venuto a svegliarlo, il sole era già alto nel cielo e filtrava abbondantemente attraverso le persiane socchiuse. Si sentiva meglio, il dolore alla testa era quasi completamente scomparso, anche i lividi erano meno pulsanti. Si alzò, ancora lievemente tremante, e con passi malfermi si diresse verso la porta chiusa della sua stanza, sotto la quale vi era un foglio piegato in due, con qualcosa scritto con il pennarello indelebile all’interno.
Ci tenevi a lei, vero?”
Jack rabbrividì e si scaraventò fuori dalla stanza. E la vide: esanime e senza vita, appesa al lampadario del corridoio. Urlò e pianse, mentre si avvinghiava a quelle caviglie familiari,desiderando con tutto il cuore che non fosse vero, che lei sarebbe rimasta al suo fianco per sempre, che lo avrebbe cresciuto, che lo avrebbe amato come un figlio. Ma, poco alla volta, una consapevolezza amara conquistò la sua mente pura e infantile: lei non sarebbe mai ritornata, come suo padre, come sua madre.
Non avrebbe più amato nessuno per la paura di metterlo in pericolo. Ma doveva assolutamente vendicarla: chi afferma di ritornare poi ha il dovere di farlo. E chi glielo impedisce va eliminato, ad ogni costo.
 
*
 
Il Joker si risvegliò improvvisamente, come se fosse stato appena immerso nell’acqua gelida. Sussultò visibilmente e tutto il suo corpo si agitò in preda alle convulsioni: anche i suoi occhi adulti stavano versando lacrime: odiava ricordare quel momento della sua vita, quello in cui aveva cominciato ad uccidere, ad essere gelido, insensibile, violento, privo di ogni genere di empatia.
- Come ti senti? E’ diminuito l’effetto del farmaco? – gli chiese la dottoressa, inconsapevole.
- Devo ritornare a casa, hai capito? – urlò lui istintivamente, in balia di una crisi isterica – Devo ritornare a casa! Fammi ritornare a casa! Subito!
- Non posso farlo. Tu rimarrai qui fino alla fine del processo, quando decideranno se darti la pena di morte oppure l’ergastolo. E comunque, perché? – ribatté lei, fredda ma sinceramente incuriosita.
Il Joker, finalmente, ricordò tutto: il colpo, il piano, il sistema di evasione, ma soprattutto la cosa più importante.
Le aveva promesso che sarebbe ritornato da lei.
Harley.
 
*
 
- Ho promesso alla mia donna che sarei ritornato da lei. – urlò ancora, piantando i propri occhi folli e impulsivi in quelli decisi e incorruttibili della donna, che lo fissavano increduli e per nulla comprensivi.
- Non mi interessa. Io sono qui per curarti fisicamente e basta. – ribatté, mettendo una debita distanza fra sé e quel criminale, improvvisamente lucido, che la guardava come una predatore fissa la sua preda.
La nebbia nella sua mente si era completamente diradata, e la cosa che lo divertiva più di tutte era ricordare che nel suo piano era compreso un eventuale arresto con conseguente trasferimento ad Arkham: aveva infatti piazzato degli esplosivi al suo interno, collocandosi sottopelle un minuscolo detonatore, frutto della migliore tecnologia americana. Sapeva che normalmente i pazienti psichiatrici venivano immobilizzati o con le mani legate lungo i fianchi o nella camicia di forza, ed aveva collocato quel minuscolo bottone di distruzione in un punto che sarebbe stato semplice da premere in entrambe le posizioni.
L’unico ostacolo al suo piano perfetto era stato questo misterioso farmaco che gli era stato iniettato, capace di confonderlo per alcune ore e trascinarlo nell’inquietante abisso dei suoi ricordi d’infanzia, nitidi come in un’allucinazione. Ma poco importava, sarebbe riuscito a liberarsi entro breve, ma prima voleva mettere alla prova l’incauta donna che osava opporsi a lui.
- Ah, e così non ti interessa. Che cosa faresti, se io ti confessassi che posso far esplodere l’edificio quando voglio? – rise lui, sardonico e fiero.
- Ti direi che non è possibile: sei stato perquisito e non hai addosso nessun genere di detonatore, nessun cellulare o apparecchio che possa innescare una bomba a distanza. – rispose lei, seria e razionale, ben decisa a non farsi raggirare. Era questo l’atteggiamento che nel corso degli anni le aveva fatto guadagnare una notevole credibilità e un rapporto ottimale con i pazienti.
- Dolcezza, sapessi quanto ti sbagli. – sghignazzò, aprendo il volto in un sorriso gioioso, reso minaccioso dalle cicatrici e dallo sguardo lucente. – Peccato, saresti stata una persona divertente con cui giocare, ma al momento ho decisamente fretta!
La dottoressa non ebbe nemmeno il tempo di ribattere: la deflagrazione fu immensa, ovviamente nel lato della clinica non riservato alle celle dei pazienti, ma fu sufficiente a far crollare buona parte dei muri della stanza: il colpo rovesciò il letto sul quale lui era sdraiato e lei ne fu travolta. Il Joker, nonostante fosse lievemente intontito e dolorante per la caduta, riuscì agilmente a liberarsi, alzandosi finalmente in piedi.
- Mi dispiace, cara. Sai come la penso io, chi impedisce ad altri di mantenere le promesse va eliminato a qualsiasi prezzo. – spiegò, guardandola con un senso di compiacimento sempre crescente, mentre la soddisfazione lo portava a ridere incontrollatamente. Si chinò su di lei, ormai senza vita, con sguardo sprezzante e appoggiò accanto al suo corpo una delle sue carte, diventate ormai la firma dei suoi crimini più efferati.
 
Il Joker correva, protetto dal buio della notte, per le strade di Gotham City. Ansimava, incespicava, tentando di evitare le macerie, sforzando il suo corpo ancora ferito e debilitato ben oltre le proprie reali possibilità: cadde, sprofondando nella cenere di un vicolo, per poi rialzarsi, fiero e convinto. Con le caviglie tremanti e incerte ricominciò a camminare, cercando di orientarsi correttamente: da quello che poteva scorgere grazie alla luce della luna e da quei pochi lampioni rimasti in funzione si trovava vicino al centro della città. La sua abitazione era situata nel quartiere nord della città, dunque avrebbe solo dovuto proseguire dritto e sarebbe facilmente giunto a destinazione.
Mettere un piede di fronte all’altro e slanciarsi in avanti era diventato un gesto meccanico, reso faticoso dalle ferite colme di vetri sulla sua schiena, che ad ogni lieve movimento stillavano fresche gocce di sangue. Ma il Joker era talmente determinato da non avvertire più il dolore: la sua missione era riuscita, e nonostante il piccolo inconveniente era riuscito a scappare. Non poteva assolutamente smettere di avanzare, arrendendosi: le aveva promesso il suo ritorno e nessuno più di lui sapeva quanta sofferenza provocano le speranze disilluse.
E non solo. Si scopriva a pensare a lei con amore, desiderando di rivederla e di poter nuovamente stringerla fra le proprie braccia, di venire abbracciato con quella dolcezza di cui era sempre stato affamato e avido. Tentava inutilmente di tenere lontano dai propri pensieri quello che aveva involontariamente rivissuto: erano ricordi capaci ancora di avvolgergli il cuore in una morsa nera e rabbiosa. Nonostante la propria vendetta fosse poi stata efficace ed esaustiva, la sensazione di ammirare i loro corpi distrutti e il ridere sulle macerie di quell’orfanotrofio non avevano mai sorpassato la disperazione e la solitudine immensa che aveva provato. Harley era la sua salvezza, l’unica persona che era riuscita nella parte successiva della sua vita a fargli ritrovare la sua umanità, i suoi sentimenti: la amava e non avrebbe permesso a nessuno di separarlo da lei.
Arrivato dal palazzo nel quale abitavano, alzò istintivamente lo sguardo e la vide alla finestra: era bellissima e delicata, lo sguardo preoccupato che si riempiva di gioia nel vederlo, le lacrime di felicità subito abbondanti lungo le guance prive di imperfezioni. La salutò con un cenno del capo, emozionato, e cominciò a correre su per le scale, impaziente di vederla, finalmente.
Ma quando fu a pochi passi da lei, praticamente in cima, le forze gli mancarono all’improvviso e svenne rovesciandosi sulla scalinata, immediatamente macchiata di sangue. Harley corse da lui e lo abbracciò, trascinandolo in casa.
- Pasticcino mio, che cosa è successo? – mormorava al suo viso incosciente e inspiegabilmente rilassato, quando notò la situazione disastrosa della sua schiena. Lo sdraiò sul ventre, e strappandogli quel poco che rimaneva della sua camicia curò le sue ferite con cura, estraendo lentamente i cocci di vetro e disinfettandogli i tagli. Lo circondò poi con bende pulite e fresche, lo infilò sotto le coperte e dopo essersi rannicchiata al suo fianco, gli baciò una mano, morbida e graffiata. Il suo odore dolce e virile le riempì le narici: si sentiva di nuovo a casa. Persino quei muri, senza di lui, non avevano alcun valore affettivo per lei, che si sentiva a proprio agio e al sicuro solo quando c’era il Joker.
- Ho vinto, Harley. – sussurrò lui, rinvenuto, gonfio di orgoglio, girando il viso ancora vagamente truccato per poterla guardare negli occhi celesti e commossi. – Ce l’ho fatta. Il Palazzo di Giustizia è crollato come un castello di carte.
- Non avevo dubbi, pasticcino. Sei il migliore di tutti. – rispose la donna, portandosi ancora alle labbra le sue dita lunghe e ruvide. Il desiderio di abbracciarlo rendeva il suo tocco rovente ed affamato, ma si tratteneva per non aggravare il suo dolore alla schiena già insopportabile. Lo guardò sorridendo teneramente, ma alcune parole scavavano il terreno fragile della sua mente ansiosa, lottando per venire alla luce. Le combatté con tutte le proprie forze, sapendo che il Joker non amava introdurre certi discorsi, ma, vinta dalla tensione si sciolse in lacrime, lasciandolo stupito.
- Che cos’hai? – ringhiò lui, rude, ritraendosi dalle carezze della donna. A volte i suoi sentimentalismi avevano il potere di irritarlo terribilmente.
- Ho avuto così tanta paura. – gli confessò tutto d’un fiato – Ho acceso la televisione, c’era un poliziotto che faceva chiaramente intendere che non avresti più attaccato la città.. ho avuto paura che fossi morto.. o che ti avessero rinchiuso da qualche parte.. scusami.
Il Joker la fissò profondamente, addolcito, riflettendo su quanto ci fosse andato vicino: e se non avesse mai recuperato la memoria? Non avrebbe potuto ricongiungersi a lei, l’avrebbe persa, avrebbe perso nuovamente la persona che amava di più al mondo, rimanendo solo.
- Harley.. – sussurrò, la voce roca, osservandola negli occhi cerulei e sinceri. Si commosse, le iridi oscure e lucenti come fuoco ardente, nell’accarezzare con lo sguardo quelle fattezze amate e familiari, calde e accoglienti. Inabissò le proprie dita fra i capelli biondi della donna, attirandola a sé, socchiudendo le proprie labbra ampie e vermiglie. Lily. La potenza di quel ricordo estirpato dalle radici della sua memoria lo sconvolse: non avrebbe permesso a niente e a nessuno di separarlo da Harley, così simile a quella donna che gli aveva voluto bene e aveva pagato con la sua vita il prezzo di quell’amore.
La baciò con passione, stringendosi a lei, lasciandosi cullare dal battito vivo e costante del cuore della donna, innamorato e finalmente placato.
- Oh, pasticcino, sono così felice che tu sia qui con me. – mormorò sulla sua morbida e umida bocca, specchiandosi in quelle pupille attente ed emozionate.
- Te lo avevo detto che sarei ritornato. Non ricordi? – ribatté lui, turbato, le grandi labbra scarlatte strette l’una contro l’altra, tremule.
- Sì, tesoro, ma.. poteva sempre succedere qualcosa.. – bisbigliò timidamente la donna, allontanandosi di qualche centimetro e abbassando lo sguardo. Harley sapeva che il Joker odiava che si dubitasse delle sue parole e l’ultima cosa al mondo che desiderava in quel momento era litigare con lui.
- Guardami negli occhi, Harley. – le intimò, improvvisamente serio.
La donna rialzò lentamente la testa, costringendosi a guardare in quegli abissi scuri, umidi di emozione, fiammeggianti di vivida passione. Lo amava davvero: quel sentimento era dirompente e incontenibile dentro di lei, inarrestabile come una tempesta.
 
Poche parole sorsero dalle sue labbra carminie, lievemente tremanti.
Il tono della voce risoluto e tenace.
Tiepide lacrime sgorgarono copiose dai suoi occhi scuri e profondi, ritornati infantili per un istante.
- Io mantengo sempre le mie promesse, Harley. -
 
*
 
 
 
 
 
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Batman / Vai alla pagina dell'autore: nuvolenere_dna