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Autore: Melanto    24/05/2012    2 recensioni
- ULTIMO CAPITOLO ONLINE -
[Sequel di "Solo un nome" - ambientato cinque anni dopo]
«Oggetti delicati che devono essere protetti, i fiori sono le donne, che passeranno di mano in mano e appassiranno lentamente. I loro petali si consumeranno e cadranno. Noi siamo uomini.»
«E se non siamo fiori, allora cosa?»
«Noi siamo i rami e gli steli che li sorreggono. E non importa quante mani tenteranno di spezzarci, noi resisteremo e la nostra pelle sarà corteccia. Dura.»
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Nasir, Nuovo personaggio
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Solo un nome'
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Solo un nome
- Branches -

 

- PARTE V° -

Quando Kaeso levò lo sguardo al cielo che si vedeva dal cortile interno e scorse le nubi illuminate dalla diffusa luce dei lampi, non provò il minimo rimorso nell’accennare un sorriso e nel pensare che il lunare sarebbe stato rovinato dalla pioggia. Anzi.
E dire che c’era stato un tempo in cui si era ritrovato più dei soldati stessi ad attendere quella notte, ma Flavinius, ormai, era morto da anni e tante – troppe – cose erano cambiate da allora.
Era da molto che non si ritrovava a pensare a lui con così tanta insistenza. Da quando gli era stata affidata l’educazione di Tiberius aveva fatto in modo che la sua mente ne venisse totalmente assorbita, per non ricordare quanto effettivamente il soldato gli mancasse.
Avrebbe dovuto fare in modo che il suo giovane compagno non finisse per commettere lo stesso, sciocco errore, magari innamorandosi di qualcuno impossibile da raggiungere. L’amore sapeva essere pericoloso e meschino e la loro vita era già piena di sofferenze per aggiungerne un’altra alla lista. Un’altra devastante, soprattutto.
Kaeso abbassò lo sguardo alla vasca piena d’acqua osservando il riflesso del cielo grigio. Il brontolare d’un tuono lo raggiunse, ma era meno forte di quello che aveva udito poco prima. Poi, delle gocce si infransero sulla superficie, creando piccoli cerchi. Sorrise di nuovo, con una punta di soddisfazione.
«Kaeso!»
La voce allarmata di Chadara lo raggiunse che era ancora lì, fermo. Levò lo sguardo e la vide arrivare di corsa dal corridoio che portava all’uscita sul retro della villa.
«Kaeso, è terribile!»
Il siriano incupì l’espressione e la prese saldamente per le spalle, tentando di scorgere altro sul suo viso, oltre alla paura.
«Calmati e dimmi che succede.»
«Helvius…», e già quello non gli piacque, «…è comparso all’improvviso nel cortile posteriore! Ha colpito Didius!»
«Perché mai avrebbe-»
«Tiberius!» lo interruppe Chadara, le sopracciglia aggrottate e le labbra tremanti. «Helvius lo sta inseguendo con la spada in pugno.»
Kaeso non ebbe bisogno di nessun’altra spiegazione, era già tutto fin troppo chiaro: l’insistenza del soldato, i rifiuti di Nasir. Avrebbe dovuto riferire ogni cosa al dominus fin dall’inizio. Era stato uno stupido.
«Corri ad avvertire il padrone, svelta!» ordinò e Chadara non se lo fece ripetere; lui, invece, raggiunse il cortile dove trovò Didius seduto che si massaggiava la testa.
«Sei ferito?» gli chiese quando gli fu accanto. I suoi capelli schioccavano nel vento che si era levato di colpo assieme alle prime gocce di pioggia, ora più grosse e pesanti. Sembrava stesse per abbattersi un temporale, non infrequente in quei periodi, ma per nulla clementi.
Didius era a metà tra il confuso e l’incredulo. «Helvius è fuori di sé…»
«Lo so. Andiamo, dobbiamo trovarlo prima che faccia del male a Tiberius: se gli dovesse accadere qualcosa, la collera del dominus ricadrà anche su di te. E tu non credo lo voglia.»
L’esperienza di Kaeso e il suo tono autoritario colpirono il soldato come aveva previsto; Didius era ancora giovane e sprovveduto: sapeva esattamente come fargli fare quello che voleva.
Lo aiutò ad alzarsi e insieme corsero oltre il portone, per inoltrarsi nelle piantagioni di Victor.

La pioggia era cominciata a cadere all’improvviso.
In gocce piccole, da principio, tanto che non le aveva nemmeno sentite fermarsi sulla pelle già bagnata dopo essere caduto nella vasca. Poi, il temporale era esploso veloce come i lampi che avevano attraversato il cielo e ora la pioggia s’infrangeva sul viso e sui capelli, sulle spalle e il torace nudi. Anche negli occhi, tanto da rendergli difficoltoso riuscire a vedere dove stesse andando.
Tiberius correva e nei suoi movimenti andava ‘a memoria’. Ricordava le fila infinite di viti e passava tra loro senza fermarsi, poiché non poteva saltare da un filare all’altro. Si ritrovò nel frutteto in un attimo, senza nemmeno lui sapere come fosse possibile. La distanza dal vigneto al pescheto gli era sempre sembrata infinita, e invece si era ridotta di colpo.
Si girò per riuscire a scorgere Helvius, ma non riuscì a vederlo. La pioggia e l’oscurità rendevano tutto più difficile, ma non si fermò e passò tra gli alberi, affondando nella terra smossa che l’acqua aveva reso più simile alla fanghiglia. Si fermò solo quando raggiunse il pruno.
Gli si gettò contro, appoggiandosi al grosso tronco per prendere fiato.
Tiberius l’aveva riconosciuto per la sua posizione che era asimmetrica rispetto a tutti gli altri.
Prese enormi boccate, cercando di far entrare quanta più aria possibile nei polmoni, ma gli sembrò sempre che ce ne fosse troppo poca. E le gambe non parevano volerlo aiutare come avrebbero dovuto: non era abituato a correre così tanto e sentiva di essersi spinto fino al limite del proprio corpo, però… però forse… avrebbe dovuto allontanarsi ancora un po’… ancora qualche metro…
Ma prima che potesse muoversi, una mano lo afferrò per la spalla, costringendolo a voltarsi e gli occhi di Tiberius trovarono quelli di Helvius divenuti una maschera di rabbia e rancore.
I denti erano completamente snudati, mentre l’acqua scivolava sul viso dai capelli fradici.
La spada era salda nella mancina.
«La tua fuga finisce qui» sibilò con il respiro affannato e prima che lo schiavo potesse tentare nuovamente di sottrarsi alla sua presa lo bloccò contro il tronco con malagrazia, tanto che Tiberius si lasciò sfuggire un lamento di dolore. «Hai visto? Se non avessi fatto il prezioso, cagnolino, a quest’ora sarebbe stato tutto finito…» Il tono di Helvius si era fatto di colpo più pacato, quasi accorto. Con la mano libera si premurò anche di togliergli i capelli che la pioggia gli aveva incollato sul viso. «Io sarei tornato alla festa e tu… tu saresti tornato ai tuoi fottuti doveri di schiavo.»
«Sei ancora in tempo per porre fine a questa follia, se ti è rimasto un minimo di senno!» Tiberius non avrebbe voluto ringhiarlo con tanta collera, ma l’orgoglio aveva ormai preso il controllo sulla sua lingua e non era più in grado di fermarlo. «Il dominus te la farà pagare per aver messo le mani su un qualcosa che gli appartiene, ma se mi lasci andare-»
«Sta’ zitto!»
Il colpo della testa che veniva sbattuta contro il tronco vibrò per tutto il cranio, fino a tremargli nei denti. Tiberius ingoiò il dolore e lo concentrò in uno sbuffo più pesante che sfuggì alle sue narici. Tutto per non dargli di nuovo la soddisfazione di sentirlo soffrire.
«Il dominus saprà solo che il suo fottuto cane ha tentato di fuggire approfittando del lunare e che io l’ho rincorso ma che, purtroppo, mi sono visto costretto a ucciderlo.» Il ghigno tornò a deformargli l’espressione.
«Didius dirà che lo hai colpito-»
«Didius è solo un ragazzino che puzza ancora della fica di sua madre e confermerà le mie parole, se non vuole fare una brutta fine. No, no adesso… adesso ti fotterò per bene, ti farò sentire cosa si prova a scoparsi un vero uomo e dopo… dopo ti ammazzerò.» Rise, divertito dalle sue stesse parole e dalla perfezione dell’intero piano che aveva organizzato.
Tiberius mostrò i denti in un ringhio feroce, gli occhi ardevano come carbone, rendendo le sue orbite forse pari a quelle di Helvius per follia dilagante.
«Non credere che sarà tanto facile provare a piantarmelo nel culo, fottuta serpe romana!»
Il manrovescio lo stordì, facendolo ritrovare a terra in un attimo.
«Come osi parlare in questo modo a un figlio della Repubblica?!»
Il soldato sembrava incontrollabile, torreggiò su di lui, ma nonostante fosse armato e più forte, il siriano non si lasciò intimorire. Con il dorso della mano, sporco di fango, cercò di ripulirsi il labbro alla meglio, dove il sangue colava dal punto in cui era stato colpito.
Ringhiò ancora, e in quelle parole vi era tutto il rancore che aveva assopito dal momento in cui era stato catturato.
«La tua fottuta Repubblica un giorno brucerà tra le fiamme degli Inferi!»
«Maledetto ribelle…»
Tiberius gli vide sollevare la spada e caricare il fendente. In quell’attimo pensò che sarebbe morto lì, contro quell’albero che veniva dalla sua stessa terra. Non distolse lo sguardo, mantenendolo fisso in quello di Helvius, ma gli Dei avevano deciso diversamente e Didius comparve all’improvviso per interrompere l’esecuzione. Con forza afferrò le braccia del compagno d’armi e cercò di trascinarlo via.
«Ferma la tua mano, Helvius! Non complicare le cose!»
«Lasciami, moccioso!»
Il siriano rimase a guardare il modo feroce in cui il soldato si dibatteva, nel tentativo di liberarsi. Era sorpreso di vedere Didius, ma quando alle sue spalle apparve Kaeso smise di porsi domande.
Lo schiavo personale del dominus lo raggiunse in un attimo, inginocchiandosi al suo fianco. Sul volto l’espressione era tesa e preoccupata; si leggeva chiaramente che era stato convinto di dover affrontare il peggio.
«Stai bene? Ti ha ferito?»
Tiberius accennò un sorriso, mettendosi a sedere. «No, è tutto a posto.»
«Allontanati da qui. Ce la vedremo io e Didius» ordinò Kaeso, ma lui scosse il capo con forza.
«No! Helvius è fuori di senno e pericoloso.»
«Proprio per questo devi andartene. Non temere, presto-»
«Ah! E’ arrivata anche la puttana del padrone!» Helvius li interruppe in tono aspro, liberandosi del compagno con uno strattone e costringendo Didius stesso a estrarre la propria spada. «Sei venuto in difesa di quel bastardo, vero?»
«Non sfidare la sorte più di quanto tu abbia già fatto, folle idiota!» Kaeso sembrava una furia, nemmeno Tiberius l’aveva mai visto così adirato. Per quanto fosse molto più minuto del soldato, la forza della sua figura non aveva nulla da invidiare a quella di Helvius.
Piano, anche lui si alzò, rimanendo sempre alle spalle del siriano più anziano che seguitò a parlare.
«Ero stato chiaro, mi sembra. Ti avevo dato una possibilità, ma a quanto vedo sei stato troppo stupido per poterla cogliere. Ebbene, ne pagherai le conseguenze: il dominus è stato avvertito e a breve sarà qui. Sarà a lui che risponderai della tua idiozia!»
«Il dominus non mi punirà visto che quel piccolo bastardo ha provato a fuggire!» Helvius rivolse una mezza occhiata adirata all’altro soldato. «E avrò Didius a confermare le mie parole, vero?»
Kaeso rispose prima che potesse farlo l’interpellato: non poteva permettere che venisse influenzato o manipolato. «Continui a comportarti da idiota! E stai sottovalutando il dominus: credi sia così stolto? Non provare a ingannarlo o segnerai la tua condanna.» Guardò Didius dritto negli occhi, affinché il monito sortisse il giusto effetto. «Detesta che gli si passi per vera una menzogna. Vi farà strappare la lingua.»
Didius vacillò, visibilmente combattuto. Spostò lo sguardo e arretrò di un passo.
«E chi credi gli dirà la verità?»
«Ce l’hai davanti.»
Helvius rise sguaiatamente. «La parola di uno schiavo non vale niente, Kaeso. Ma comunque mi metti nella condizione di dover eliminare anche te. Non che la cosa mi dispiaccia.»
«Adesso basta, stai andando oltre!» Didius si intromise, frapponendosi tra il soldato e gli schiavi. «Non ucciderai nessuno, è chiaro? Sei completamente ubriaco!»
«Non dirmi cosa devo fare!»
La lama balenò nella luce d’un lampo colpendo alla cieca, ma con forza, e tracciando un lungo squarcio nell’avambraccio di Didius. Il giovane ruggì per il dolore e perse la presa sulla propria arma, mentre un calcio ben assestato al petto lo mandava disteso nel fango.
Helvius non aveva più freni e Kaeso si vide costretto ad agire negli attimi successivi. Con una spinta allontanò Tiberius e schivò il primo fendente del legionario. Agilmente raccolse la spada di Didius e la brandì contro l’avversario.
Nel tempo che erano stati insieme, Flavinius gli aveva insegnato alcuni rudimenti dicendogli che avrebbe dovuto tirarli fuori solo nel caso si fosse trovato in estremo pericolo. E nessuno dei due avrebbe mai creduto potesse davvero accadere, un giorno.
Helvius tese un mezzo ghigno. «Mi stai sfidando? Levi le armi contro un romano? Allora sì, anche tu sei un ribelle. Il dominus mi sarà grato dopo che avrò eliminato entrambi.» Con un ringhio di guerra affondò il colpo, ma Kaeso riuscì a deviarlo, portandosi alle sue spalle. Avrebbe dovuto tenergli testa almeno fino a che non fosse arrivato il padrone e non sarebbe stato facile.
Nel frattempo, Tiberius restava inginocchiato accanto a Didius, che si premeva il braccio da cui il sangue fluiva copioso. Gli occhi non lasciavano Kaeso e non perdevano nessuno dei suoi movimenti. Avrebbe dovuto esserci lui, lì, a combattere al suo posto, perché era con lui che Helvius ce l’aveva, ma ancora una volta si ritrovava a non potersi difendere da solo, a non essere in grado di poter badare a sé stesso come avrebbe voluto e Kaeso… per quanto si stesse dimostrando abile, non avrebbe mai potuto competere con quel bastardo di un legionario addestrato e fisicamente più forte.
Immobile, strinse i denti e i pugni, tanto che il sapore del sangue si mischiò a quello della pioggia.
«E’ folle…» masticò Didius, dolorante. «Gli Dei lo puniranno per mano del dominus
Ma Tiberius non poteva aspettare che gli Dei si decidessero a far arrivare Victor: avrebbe potuto essere troppo tardi, però come tentò di agire, la mano del soldato si serrò attorno alla sua caviglia.
«Non osare muoverti!» Gli ringhiò aspramente e a lui non rimase che volgere lo sguardo allo scontro, impotente.
Gli affondi di Kaeso non erano andati a segno nemmeno una volta, nonostante ci avesse provato, ma Helvius era scaltro e avvantaggiato: li aveva deviati in un attimo e ogni volta che attaccava, per lo schiavo diveniva sempre più difficile riuscire a evitarli e la pioggia non aiutava; il terreno era fango, gli intrappolava le suole dei sandali e rallentava i movimenti. Poi, il soldato sembrò cambiare obiettivo, d’improvviso si volse in direzione di Tiberius e sorrise, nel suo modo malevolo. Levò la spada e sembrò pronto a gettarsi su di lui.
Kaeso si allarmò e agì istintivamente, senza pensare, senza rendersi conto di essere caduto in trappola. I movimenti animati dalla foga e dalla paura di vedere il compagno ferito, l’arma che veniva alzata troppo e lasciava l’addome scoperto.
A Helvius bastò un attimo. Ruotò la spada, cambiando la direzione della lama e questa affondò nel ventre di Kaeso con una semplicità quasi inverosimile, sembrava che la carne del siriano fosse fatta di burro.
Lo schiavo avvertì il fiato esaurirsi nel momento in cui il dolore esplose; completamente tirato via dai polmoni. Boccheggiò, le mani sollevate persero la presa sulla spada che cadde al suolo e si mischiò al fango e all’acqua in un tonfo attutito.
Negli occhi spalancati si intrappolò l’immagine del ghigno candido di Helvius che brillava nell’oscurità e nella pioggia battente. Il sangue gli scivolò fuori dalla bocca, solitario, senza alcuna parola, mentre l’unica cosa che le sue orecchie sentirono fu il proprio nome gridato da Tiberius che si perse nel fragore dell’ennesimo tuono.
Arretrò, forse a causa del colpo. La spada, ancora conficcata nel ventre, aveva la lama che emergeva dalla schiena. Kaeso abbassò le mani e lo sguardo per toccarla, vederla e rendersi conto che era davvero lì, dentro di lui, e che il dolore che stava provando era reale.
La schiena urtò il tronco del pruno e fu quel tipo di solidità a fornirgli l’appoggio per scivolare piano al suolo.
Tiberius fu al suo fianco l’attimo dopo. Ne scorse il volto dall’espressione stravolta, incredula e ferita al contempo. Vide i suoi occhi farsi enormi e le labbra continuare a chiamarlo ma lui iniziava a non sentire più nessun suono se non quello della pioggia, e nessun tocco se non quello del ferro dentro di sé e del legno alle spalle.
Non aveva più tempo, non avrebbe più potuto difenderlo e se aveva ancora qualcosa da dirgli, quello era l’ultimo momento che avrebbe avuto per farlo.
Adagio riuscì a sollevare una mano, le dita sporche di sangue tracciarono un segno sulla guancia di Tiberius che scuoteva il capo e stringeva le palpebre, digrignava i denti, si sforzava con tutto sé stesso di non piangere, di resistere con la forza del proprio orgoglio e lui avrebbe voluto dirgli che stava andando benissimo e che era questo che avrebbe dovuto fare, da quel momento in poi: resistere, fino alla fine. Ma diverse furono le parole che riuscì a esalare.
«Vivi…», le dita scivolarono sulla pelle e poi caddero morte sulla lama, «…vivi, Nasir…» -…e non dimenticare mai chi sei davvero e qual è il tuo nome…-. Ma quello non ebbe il tempo di aggiungerlo.
Non chiuse gli occhi, che rimasero vigili su Tiberius, ultima immagine che riuscì a portare con sé e a lui andava bene così. Avrebbe voluto che sorridesse, invece di avere quell’espressione sofferente, ma nella sua vita nulla era mai andato come aveva desiderato. Come sempre, si accontentò.
E morì.
Il corpo scivolò di lato, cadendo al suolo e lasciando contro il tronco del pruno una scia di sangue, lo stesso che iniziò a raccogliersi sotto al suo corpo per mischiarsi con la pioggia e la terra.
«No… no…» Tiberius lo salmodiò quasi che l’altro avesse potuto sentirlo e rispondergli. «…non voglio… non puoi…»
Aveva visto il corpo accasciarsi di lato, sentirlo scivolare via dalle sue mani che ne avevano stretto il viso. Serrò le labbra, aggrottò le sopracciglia, sentì la pelle contrarsi per il dolore e i denti stringere, gli uni con gli altri, in una morsa. Non capì se stesse piangendo o se erano solo le gocce di pioggia a rovinare sulle guance.
Il nome cui aveva rinunciato risuonò dentro nel mormorio delle ultime parole pronunciate da Kaeso, e tutto quello che lui era stato, il bambino ribelle e pieno di orgoglio, sembrò risorgere come un’eco lontana che tornava all’orecchio e ronzava, ronzava. Diveniva più forte, diveniva più irata. E in quel momento si rese conto che Kaeso non gli aveva mai rivelato quale fosse il suo, di nome. Quello vero. Quello che aveva prima di lasciare la Siria. Non lo conosceva e non l’avrebbe mai saputo né avrebbe potuto mai restituirlo con il suo vero nome alla terra, ma solo con quello che i romani gli avevano marchiato addosso.
Romani.
Assassini.
Serpenti.
Mostri.
Helvius.
«Non temere, cagnolino. Lo raggiungerai presto» parlò proprio il legionario.
Ma il cagnolino digrignò i denti, li mise in mostra come fossero stati zanne. Si girò appena, la coda dell’occhio catturò l’elsa della spada di Didius abbandonata al suolo.
«Ti ammazzo…» mormorò così piano che il soldato non lo comprese, non prima che Tiberius si voltasse e gli piantasse addosso quello sguardo di fuoco che avrebbe fatto evaporare la pioggia, se avesse potuto. «…ti ammazzo. Ti ammazzo. Ti ammazzo
Ci volle un attimo.
Un attimo per afferrare l’elsa, per sollevare la spada, per brandirla, per puntarla contro l’assassino e lanciarsi su di lui come una furia, mentre questi lo guardava impietrito per quella reazione violenta e improvvisa.
Ci volle un attimo.
Lo stesso che bastò al dominus per fermare tutto.
Lo stesso che bastò al dominus per tuonare il suo nome, svegliarlo dalla propria furia e paralizzarlo sul posto. Un attimo sufficiente a fargli realizzare che lui era solo uno schiavo e che le ultime parole di Kaeso erano state una richiesta.
Vivi.
E se voleva vivere, se voleva rispettare la sua volontà… doveva lasciare la spada.
Quest’ultima toccò terra con un sonoro ‘sploch’.
Lui rimase immobile, lo sguardo che si spostava da Helvius al padrone, che sopraggiungeva alle spalle del soldato, e scortato da altri legionari, tutti con le armi in pugno. La sua figura era fradicia e l’espressione di pietra e furente al tempo stesso.
Quella notte qualcun altro sarebbe morto, era questo che diceva il suo sguardo.
«In nome di tutti i fottutissimi Dei, adesso qualcuno mi spiegherà che cazzo credevate di fare!» tuonò Victor, le labbra strette e gli occhi spalancati, pronti a inglobare lo sguardo di chiunque avesse osato rivolgerglielo. «Helvius?»
«Qu-questo bastardo ha cercato di fuggire approfittando del lunare, dominus. Io e Didius l’abbiamo inseguito, ma Kaeso ha cercato di ostacolarci. Sono stato costretto a ucciderlo.»
Dalle labbra di Victor sfuggì il gorgoglio di una mezza risata e poi ironia, tagliente. «Ah, davvero? È andata così? Eppure diverse sono state le parole che mi sono giunte.»
Helvius scosse prontamente il capo, sollevando il mento con sicurezza, forse troppa. «Vi hanno ingannato, mio signore.»
«Mi hanno ingannato, dici?»
«D-dominus non-»
«Tieni a freno la tua fottuta lingua, tu! Non ti ho ordinato di fiatare!»
Nonostante fosse Tiberius a venir sempre definito come il ‘cagnolino’ del dominus, in quel momento fu Victor ad abbaiare appena il giovane tentò di dare la propria versione dei fatti. Ma avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe stato ascoltato, perché la sua parola non valeva nulla. Perché era solo uno schiavo. Allo stesso modo non si oppose quando il dominus ordinò a Camillus di condurlo alla villa e di aspettare entrambi nello studio. Tutto ciò che fece fu di volgersi un’ultima volta verso il corpo di Kaeso, mentre veniva trascinato via, e di guardare quegli occhi spalancati che non l’avrebbero mai più guidato. Era tornato a essere solo.
Appena Tiberius e Camillus furono abbastanza lontani, Victor si rivolse a Helvius. «Dicevi che mi hanno ingannato, non è così?»
«Assolutamente, signore!»
«Didius.»
Helvius ebbe un leggero fremito e subito spostò la coda dell’occhio sul compagno, che ora si era alzato, ma che continuava a sanguinare.
«Confermi le sue parole?»
Un lungo sguardo corse tra i due legionari, poi il più giovane abbassò le iridi sul proprio braccio e, quando le sollevò, sul volto campeggiava una smorfia decisa. «No, dominus
«Cosa hai detto?!» Helvius emise un ringhio basso e se fosse stato ancora armato non avrebbe perso tempo a sfoderare la sua lama, la stessa che ormai era abbandonata nel ventre di Kaeso.
«No, eh? Perché non mi sorprendo?» incalzò Victor. «Dimmi tu come sono andate le cose, allora.»
«Helvius voleva aggredire lo schiavo Tiberius. Io ho cercato di fermarlo, ma mi ha tramortito e lasciato a terra. Poi è arrivato Kaeso e ci siamo messi all’inseguimento di entrambi. Siamo arrivati prima che potesse uccidere il ragazzo, ma quando ho provato a fermarlo di nuovo, Helvius mi ha ferito!» Mostrò il taglio, per confermare le proprie parole. «Kaeso ha reagito e lui lo ha ucciso.»
Victor annuì. «Vai dal medico a farti curare.»
«Sì, dominus
Mentre si allontanava, Didius rivolse un’ultima occhiata di sdegno e rivalsa a Helvius che ringhiò quel: «Infame!» e simulò di volerlo raggiungere per colpirlo, ma il suo passo venne sbarrato da Vinicius e Pullo, che fino a poco prima avrebbe potuto considerare ‘amici’, ma che ora lo guardavano come fosse stato niente più che un traditore qualunque.
«Sai cosa c’è davvero di infame, Helvius?»
La voce del dominus si attirò la sua attenzione. Lo vide muoversi verso di lui, la pioggia che seguitava a cadere ma con minore intensità.
«Di infame c’è che hai provato a prendermi per uno stupido.»
«No, signore, io-»
«Taci!»
Il manrovescio colpì il legionario in pieno viso, e il segno degli anelli che il dominus indossava fu evidente nel sangue che iniziò a fluire al lato del labbro e del naso.
«Ma il vero stupido è il soldato che tenta di fregarmi e crede che io non me ne accorga. Lo stupido è il soldato che prova a fottersi ciò che mi appartiene e crede, di nuovo, che io non me ne accorga.» Lo afferrò saldamente per i capelli, avvicinando minacciosamente il viso al suo. «Io mi accorgo di tutto, imbecille.» Esalò. «E più di uno schiavo ribelle, mi fa incazzare il soldato che pensa di essere più furbo di me. Sai perché ero consapevole delle tue menzogne? Perché i miei schiavi non mentono mai. E sai perché non mentono? Perché loro conoscono una cosa che tu hai ignorato fino a questo momento, ma che imparerai a tue spese: la paura. I miei schiavi mi temono, Helvius. Ora capirai perché.»
«D-dominus-»
«Vinicius, Pullo: rinchiudetelo nelle segrete.»
Lo sguardo di Helvius si fece enorme e, sì, questa volta la paura fece davvero capolino nelle sue iridi, mentre scuoteva il capo e cercava di arretrare.
«No! No, vi prego! Dominus! Non chiudetemi lì! Dominus
Ma Victor gli aveva già voltato le spalle.






Ciarle Randomiche: so che qualcuno se l'aspettava che sarebbe finita così per Kaeso. :3 E, in fondo, non poteva essere diversamente. Avrei potuto inventare che gli venisse resa la libertà, ma... XD insomma, siamo nel fandom di "Spartacus", la libertà è un'utopia e al massimo te la puoi conquistare solo dopo aver versato fiumi di sangue!!! XDDD E poi stiamo sempre parlando di Flavius-sonoungrandissimostronzo-Victor.
Ahimé, in questa serie tv niente è destinato a finire bene (e io ci godo di poter dar sfogo a tutta la mia perfidia. I personaggi non ne sono molto contenti, però. Lo ammetto XDDDD).
Ah, sì: le famose segrete sono quelle in cui è stato rinchiuso anche Nasir quando era piccolo (vedi: "Solo un nome").

:3 ringrazio di cuore chi continua a restare con questa storia; ormai, siamo arrivati alla conclusione. :3

   
 
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