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Autore: Kim NaNa    24/05/2012    7 recensioni
"C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…“
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane, rallentando i battiti del mio cuore.
“Non adesso, Gabrielle. Non ancora…“
Questo mi disse.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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L’inizio della fine.
 
È sempre complicato tornare a casa dopo qualche mese di ospedale.
Gente che va, gente che viene. Parole gentili, sorrisi stampati, frasi di circostanza e strette di mano.
Ma quand’è che la gente smetterà di indossare la maschera dell’ipocrisia?
Forse mai.
Fingono tutti di essere preoccupati, dispiaciuti e quasi tristi, ma, in realtà, di te, non sanno poi molto.
L’uomo non è quell’individuo buono e comprensivo che dice di essere.
L’uomo è subdolo, egoista, ignavo e superbo.
Detesto gli sguardi compassionevoli della gente; mi guardano tutti come se fossi una malata. Anche se la verità è che io sono davvero malata.
Devo solo convincermi di esserlo.
Questi occhi curiosi e indagatori mi scrutano con una cura magistrale, sembra quasi abbiano paura di me e di quel velo di morte che aleggia sul mio viso nei momenti più critici.
La morte.
Ma, in fondo, cos’è la morte?
Un dolce sonno eterno. Senza dolori.
È la totale assenza della vita.
Silenzio. Pace.
La morte è tutto o forse niente.
Non sarebbe poi male morire. Tutto finisce.
Ecco perché io non ho paura della morte. È vivere il vero problema.
Affrontare la vita con coraggio, nonostante le sue frustrazioni, le sue prove, i suoi grandi dolori.
Morire non è poi così male, è sopravvivere alla morte di qualcuno che si ama la più grande e atroce delle sofferenze.
Provate a chiedere cosa vorrebbe a una madre che ha appena perso il suo bambino. Vi urlerebbe, in preda al dolore, che vorrebbe morire. Sì. La morte è un leggero respiro che dobbiamo restituire, ma sopravvivere alla morte di qualcun altro è la più sciagurata delle agonie.
Mi chiamo Gabrielle Cooper, ho 22 anni e da cinque gioco a tavolino con la morte. Sì, perché sono io che le corro dietro, ma lei non mi vuole.
Forse è meglio così o forse no.
Dipende.
Da me. Da quello che ho intenzione di fare. Vivere o morire. Restare a guardare la mia fine o lottare per quella vita che, in fondo, non ho ancora scoperto.
A volte credo sia meglio morire, non proverei più alcun tipo di dolore.
Niente delusioni. Niente difficoltà. Niente bugie. Niente tradimenti. Niente rabbia, odio, amicizia, amore, indifferenza. Nessuna disgrazia. Nessuna malattia.
Niente di niente.
Altre volte, però, mi soffermo a guardare la vita che vedo dalla finestra. Quelle vite che seguono il proprio destino incuranti di quanto accade agli altri.
Vedo sorrisi, abbracci, risate. Vedo gli amici, le coppie, le famiglie. Vedo la vita e allora non so se è davvero morire quello che voglio.
Da quando mi pongo questi quesiti?
Da quando faccio simili discorsi?
Non lo so, non mi ricordo. O forse sì.
È tutta colpa di quel ragazzo che ho incontrato in ospedale.
Un semplice fattorino che mi ha portato una coca cola dal bar più vicino.
Una coca cola che nessuno aveva chiesto.
A me neanche piace la coca cola!
Da allora l’ho visto sempre. Ogni giorno. Stessa ora e sempre con quella dannata coca cola fra le mani.
Mi guardava quel tipo.
Ma come mi guardava!
Anthony Sky mi ha detto di chiamarsi.
Aveva capelli neri come la pece e gli occhi scuri come la notte. E la sua pelle… candida ed eterea emanava un confortevole tepore che mi donava una quiete mai provata.
Forse la morte vuole che io diventi pazza prima di raggiungerla, ma quel profumo, quel suo delicato profumo non credo riuscirò mai a dimenticarlo.
Mi disse di avere di 18 anni e poi mi sorrise.
E come mi sorrise.
Aveva una strana luce negli occhi e ne rimasi profondamente colpita. Quasi rapita.
Parlavamo sempre io ed Anthony, senza stancarci mai.
Preferivo le sue parole alle solite, mille ed inconcludenti argomentazioni dei miei medici.
Era piacevole parlare con lui e le mie giornate non sembravano più così interminabili e lente.
Quando pioveva però, Tony, come lo chiamavo io, non parlava mai.
Se ne stava sempre in un angolo della mia stanza ad osservare, silenzioso, il cielo. Sembrava assorto in qualche strana e complicata visione, come se qualcuno, dall’altra parte, lo tenesse imprigionato in una qualche dimensione parallela.
‹‹Che guardi?›› gli chiesi in un pomeriggio caldo e piovoso di Agosto.
Lui non smise di guardare il cielo che liberava la battente pioggia, ma sorrise.
‹‹Guardo il mondo. Guardo quanto è infinito. Lo senti? Lo senti tu, il profumo dell’eternità?››
Guardai fuori dalla finestra avvicinando il mio sciupato viso al freddo vetro.
‹‹Io non sento niente. E fuori diluvia. Altro che mondo ed eternità…››
Lo guardai perplessa. Da quando diceva assurdità?
‹‹Devi guardare con l’anima e sentire con il cuore. L’eternità è come la morte, non esiste quando c’è la vita, ma la puoi sentire quando ti soffermi a guardare il mondo.››
Si voltò a guardarmi per un attimo, un breve istante, solo per sorridermi.
‹‹Imparerai.›› mi disse prima di tornare a guardare il cielo carico di pioggia.
Non gli credetti. E tornai sul mio letto a gustare quella coca cola che avevo, pian piano, cominciato ad apprezzare.
Quando mi parlava della sua vita, di quanto si divertiva ad andare in giro con la sua moto, delle serate passate in compagnia di fidati amici, della sua famiglia, il tempo pareva fermarsi. Era come se riuscisse ad ipnotizzare la mia mente, a soggiogare il mio cuore.
C’eravamo solo noi. Io, lui e il mondo. Il suo mondo.
Avrei passato la vita ad ascoltarlo. Eppure i suoi occhi, quei serafici occhi sempre sorridenti, talvolta, mi incupivano.
Penetranti, indagatori, ridenti eppure troppo lontani da quel mondo che io vedevo ogni giorno.
Quegli imperturbabili occhi sembravano celare il più fitto dei misteri, il più inconfessabile dei segreti.
Pioveva il 10 di Settembre. Una pioggia torrenziale, violenta, minacciosa.
Lui era lì con me, ma con lo sguardo perso oltre la mia finestra, in quel cielo sconquassato da lampi e fulmini accecanti.
Avevo freddo e anche paura.
I temporali non mi sono mai piaciuti e poco importa se l’anagrafe evidenzia i miei 22 anni. Ho paura, punto e basta.
Mi alzai e, dopo essermi avvolta in una coperta, mi sedetti accanto a lui, stringendogli la mano.
‹‹Non avere paura, Gabrielle. Ci sono io con te.›› Mi disse.
E paura non ebbi.
Lui era lì e poco m’importava se la sua mente si era persa a fissare quel cielo impietoso. Lui era lì, tutto il resto non contava.
Chiusi gli occhi appoggiando il capo sulla sua spalla e inspirando a fondo quell’intenso profumo di pioggia gli chiesi:
‹‹C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…››
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane rallentando i battiti del mio cuore.
‹‹Non adesso Gabrielle. Non ancora…››
Questo mi disse.
 
   
 
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