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Autore: Haruakira    26/05/2012    3 recensioni
I conquistadores spagnoli mettono a ferro e fuoco l' impero azteco. Antonio è lì con loro. E qualcosa in quegli anni lo cambia.
Dal testo:
"-España.
Sentendo chiamare il suo nome spalancò appena gli occhi verdi facendo un passo all' indietro. Un ragazzo estremamente simile a lui gli sorrideva dall' altro lato dello specchio.
Che fosse impazzito?
-¿Qué demonios...? ( = che diavolo...?)
-¿ Demonios?- il ragazzo di fronte a lui sorrise assottigliando gli occhi, smeraldo uno, rossastro l' altro- no, non diavolo, Antonio. Tu. Yo soy tù. ( = io sono te)"
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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one shot su spain

Il RIFLESSO DEL DIAVOLO




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Anno Domini 1519
[1]Siamo venuti per servire Dio e il Re e anche per diventare ricchi





-Lovinito mi amor!
-Togliti, idiota. Non starmi così appiccicato.
Perdente, Antonio.


-Esto es España?
Una frase sputata con rabbia e ironia sardonica nella penombra della stanza silenziosa. Antonio si mosse tra le coltri del soffice letto a baldacchino, si girò sullo stomaco afferrandosi ad un cuscino rosso e socchiudendo gli occhi intravide una lama di sole tiepido attraverso i tendaggi pesanti che ricoprivano le finestre.
Guardò con gli occhi ancora socchiusi la pendola alla sua destra segnare appena le sei del mattino.
Si sentiva irrequieto, aveva come l' impressione che l' aria puzzasse di vecchio e di muffa.
Di sangue rappreso e di alcool che bruciava sulle ferite.
Sfregò tra loro i polpastrelli delle mani. Erano mani ruvide e dure, sotto le unghie era rimasto il residuo della terra lavorata nei giorni precedenti.
Antonio spostò le coperte di lato, sostò qualche minuto seduto sul bordo del letto, ancora intontito per il sonno, poi finalmente si alzò e scostò leggermente le tende, aprì la grande vetrata che si affacciava sui campi spagnoli permettendo così all' aria frizzante del mattino di penetrare all' interno della stanza procurandogli un brivido leggero sulla pelle.
Passò al grande specchio ovale indugiando un momento ad osservare la propria figura e tolse la vestaglia che copriva parzialmente il suo riflesso inclinando le labbra in un sorriso. A volte era proprio disordinato.
-España
Sentendo chiamare il suo nome spalancò appena gli occhi verdi facendo un passo all' indietro. Un ragazzo estremamente simile a lui gli sorrideva dall' altro lato dello specchio.
Che fosse impazzito?
-¿Qué demonios...? ( = che diavolo...?)
-¿ Demonios?- il ragazzo di fronte a lui sorrise assottigliando gli occhi, smeraldo uno, rossastro l' altro- no, non diavolo, Antonio. Tu.  Yo soy tù. ( = io sono te)
Antonio strinse la vestaglia che teneva nella mano sinistra, un moto di terrore gli attanagliava lo stomaco. Forse stava sognando, forse era pazzo. Eppure non si sentiva tale e questo se possibile gli faceva ancora più paura.
Lui gli somigliava. Oh, se gli somigliava.
"Sono io... eppure non sono io, quello", si disse.
I capelli di Antonio erano ancora corti anche se aveva pensato di farli crescere un poco, quelli del suo riflesso erano proprio come i suoi, ribelli ma più lunghi, parzialmente coperti da una fascia rossa sulla fronte da cui fuggivano dispettose alcune ciocche e legati in una coda sottile che si adagiava discreta sulla spalla destra. Parevano brillare di un colore innaturale che ammaliava lo sguardo con un riflesso rossastro che si mescolava ai fili castani. Gli occhi  e le labbra erano qualcosa di spaventoso.
I primi erano lame di follia che tendevano a socchiudersi come se il suo strano sè stesso si sentisse un gatto che gioca col topo ormai inerme, le labbra invece si piegavano, sottili, in un sorriso enigmatico e potente che Antonio pensava nascondesse denti acuminati che l' avrebbero divorato.
Era riccamente vestito con gli abiti più pregiati del tempo, un orecchino pendeva dal lobo sinistro, portava una camicia di cotone molto ampia attraverso cui si intravedevano collane d' oro e una croce cristiana che spiccava sulla pelle olivastra del collo, la lunga giacca rossa variamente decorata abbandonata pigramente sulle spalle, i pantaloni scuri avvolti in vita da una fusciacca rossa e un cinturone. Antonio prima di arrivare agli stivali intravide spada, coltello e pistola.
Il suo alter ego allo specchio si mise una mano guantata sul fianco, l' altra, scoperta mostrava anelli e bracciali.
Chi era costui? Non poteva essere lui, quel tizio non poteva affermarlo. Lui non vestiva a quel modo.
Sembrava...
-Ammirami pure, Antonio- gli disse il ragazzo- ammira il frutto della gloria imperitura del Reino.
Il corsaro, o almeno Spagna ebbe quell' impressione, allungò la mano ingioiellata verso lo specchio. Quella mano uscì fuori toccandogli la guancia accaldata, poi l' intera figura oltrepassò lo specchio, con la gamba destra e infine tutto il corpo e se lo ritrovò davanti tanto da sembrare vero.
Lo guardò serio l' altro, toccandogli leggero il viso:- Io sono il futuro. Sono la nazione che risorgerà potente dalle tue ceneri. Ricco, amato e odiato, temuto. Tu sei un nulla- gli afferrò la mano sporca di terra guardandola con un sorriso e toccando i calli duri- sei solo un contadinotto- lo fissò ancora, lo guardò improvvisamente irato e urlò- E' questa la gloria che cerchi per la grande Spagna?! Este?!- lo fissò qualche secondo accigliato, si calmò e sorrise di nuovo, placido e soddisfatto. Antonio lo guardava, confuso. Si sentiva schiacciato da quella presenza- queste mani si riempiranno di sangue straniero, le tue unghie saranno incrostate di sangue rappresso, forse anche del tuo, non più di terra. Le tue orecchie sentiranno le urla di gioia del popolo che ti acclama e di quelle terrorizzate dei nemici. Correrai i mari e sarai padrone di un regno su cui non tramonta mai il sole.-
Dicendo così lo guardava fisso e sorrideva. Folle. Si allontanò oltrepassandolo, camminando a grandi falcate per la stanza senza però perdere d' occhio le sue reazioni. Lo guardava costantemente di sbieco.
Antonio si voltò, afferrò la grande alabarda appesa sul muro pronto a fronteggiarlo. Gli dava le spalle, l' altro, osservando la finestra:- Ho sempre amato quell' arma- affermò sospirando beato.
-Chi diavolo sei?!
Si girò appena:- Te l' ho detto... sono te. Sono te, Antonio. Sono la nazione che nascerà dalle membra di uno smidollato contadino quale sei tu- si bloccò un momento, pensieroso- in effetti... sono te e non lo sono. Sono il futuro, sono il concentrato delle ambizioni di questa terra, sono lo spietato guerriero che sopprimi a stento. Il mondo sta cambiando e tra poco questa mia persona prenderà il sopravvento sul tuo buon cuore. Devi solo lasciare che ciò avvenga.-

Lovino come ogni mattina entrò rumorosamente nella stanza di Spagna, deciso più che mai a saltargli addosso e reclamare la sua colazione. Il bastardo dormiva ancora a pancia all' aria. Il bimbetto ghignò e prese la rincorsa per ritrovarsi col naso sul cuscino. Borbottò qualche parola incomprensibile nella sua lingua, quel bastardo si era spostato rotolando di lato. Si ritrovarono viso contro viso e in quel momento Italia Romano sentì il cuore perdergli un battito per una sensazione malevola e niente affatto rassicurante che gli smuoveva le viscere. Antonio aprì gli occhi con calma mostrandone uno smeraldino e l' altro vermiglio.
-C...che hai?- pigolò il ragazzino allarmato.

España guardava silenzioso l' oceano solcato dalle navi di Cortes, aveva lo sguardo perso ora nei flutti, ora verso l' orizzonte, la posa fiera e le mani incrociate marzialmente dietro la schiena.
Guardava l' oceano placido e non poteva non dirsi turbato all' idea di annegare nell' oblio di quei flutti. No, la nazione che rappresentava non sarebbe mai caduta in un qualsiasi dimenticatoio, non si sarebbe fatta inghiottire da alcuno stolto avversario. Che tutti, oceano compreso, tremassero al suo passaggio.
L' orizzonte, nella cui lontananza scorgeva i lembi delle terre lontane sarebbe stato il futuro del Reino. Impero è una parola potente, mistica e sacra, ammantata di un alone di mistero e potenza senza eguali.
-Impero- sussurrò e sorrise come il cacciatore che si avvicina alla preda.
-Antonio- Cortes gli fu accanto assumendo la medesima posizione e guardando un punto in lontananza (quel lembo di terra), l' altro da parte sua si girò a guardarlo :- Non Antonio, è un nome che ho dimenticato. Javier. Suona meglio non pensi?
L' uomo aggrottò le sopracciglia:- Come credi, España -preferì risolverla così, era troppo abituato all' altro nome e non voleva certo contrariare la Nazione, già partiva da ribelle.  Il condottiero notò la benda che teneva sull' occhio sinistro lasciandone scoperto uno vermiglio. Non aveva gli occhi verdi? Non ricordava che Antonio si fosse procurato una così grave ferita in battaglia. -Mi sembri cambiato España- fece notare.
La nazione al suo fianco sospirò godendosi l' aria salata del mare:- Sono sempre io Cortés, sempre io- rispose con un accenno di rammarico.
-Si raccontano prodigi sulle tue imprese. Matamori, qualcuno ti chiamava così mentre combattevi gli infedeli. Come il santo.
-Credi che un santo si macchi le mani di sangue?
-Chissà... chissà.
-Sembri diverso- ripetè Cortés- anche se a dire il vero non mi riguarda. Non mi interessa a volere essere onesti. Prima certi sentimenti ti offuscavano la mente. Mi hanno detto che piangevi come una donnetta dopo le battaglie.
Spagna rise ilare gettando il capo all' indietro:- Sarà stato il senso di colpa, Cortés!
Il condottierò lo guardò severo:- Ti preferisco così. Con gli scrupoli non si va da nessuna parte.






[2]"La grande città […] è costruita sulla laguna salata e dista, in qualunque punto, due leghe dalla riva. Vi si può accedere da quattro parti attraverso strade ben costruite, della larghezza di due lance.
È grande come Siviglia o Cordoba. […] La piazza più grande è due volte quella della città di Salamanca, interamente circondata di portici. Dove, ogni girono, tra compratori e venditori, ci saranno più di sessantamila persone"


Iniziarono a chiamarli conquistadores, quegli spagnoli di cui si favoleggiava in patria. Rimasero stupiti di fronte allo splendore di Tenochtitlán. La città degli indigeni sorgeva su un' isola immersa in un lago, era immensa come Parigi o come Napoli, aveva strade, canali, ponti che collegavano i luoghi su cui sorgeva, precisa e ordinata. Persino un acquedotto. Spagna non poteva credere a ciò che vedeva. Quei pagani... non potevano tanto!
La Nazione osservava Cortés aggirarli, blandirli e tessere inganni. Gli stolti li acclamavano come dei.

Spagna fu accolto con tutti gli onori. All' interno della residenza del nono tatloani* Montezuma, questi a un certo punto gli si avvicinò a capo chino indicando la ragazza che accompagnava tenendole saldamente un braccio.
L' europeo aggrottò appena le sopracciglia interrogandosi sulle intenzioni di quel tizio. Montezuma indicò ancora una volta la giovane e disse "Coatlicue", congedandosi subito dopo.
Si trovarono uno di fronte all' altra. Il giovane uomo la squadrava con aria superba, indiscreto. La donna era piccola di statura, aveva i capelli neri, gli occhi altrettanto, le labbra carnose e la pelle olivastra. A vederla sembrava indifesa, fragile. Sciocca. Antonio -Javier- sorrise beffardo. Era vestita di bianco,intravedeva la pelle, osservava colpito i tesori preziosi che la abbellivano. Collane, bracciali. Li voleva.
Passò un dito sulla sua collana, perso nell' ammirarla.
Era bella lei, la donna. Ma poco importava. Non era lì per quello, il sesso poteva attendere per il momento.
-Quetzalcoatl- pronunciò alla fine lei.
-Di che parli?- domandò irritato, non capendo.
-Quetzalcoatl- ripetè inchinandosi profondamente.
-Cortés!- Spagna chiamò il comandante che si affrettò a farglisi vicino assieme ad un altro uomo.
-Sto trattando- puntualizzò il conquistador.
-Cosa vuoi che mi importi?- iniziava a essere irritato, sempre di più. Non capiva una sillaba di ciò che dicevano quegli sciocchi.- che diamine sta dicendo? Non fa altro che ripetere Quetzqualcosa.
L' uomo accanto a Cortés intervenne al posto del comandante:- E' il dio serpente piumato.
Antonio rise:- Non mi pare di avere piume da qualche parte!
La ragazza dal canto suo guardava timorosa i tre uomini.
Si girò verso di lei:- Imparerai lo spagnolo. Non sei umana, no?
-Non è...- domandò l' uomo che era con Cortés.
-No. Se non mi inganno... e non lo faccio, questa donna deve essere di certo la rappresentante di questi creduloni. O qualcosa del genere.
Gli aztechi li credevano dei -o qualcosa di molto simile- la loro stessa rappresentante, che chiamavano Coatlicue, aveva scambiato Antonio per Quetzalcoatl, il dio che aveva creato il mondo e gli uomini, nato da Est e andato via nella stessa direzione e di cui attendevano la nuova venuta.
Cortés avrebbe giocato questa ulteriore informazione a proprio vantaggio, loro del resto erano venuti da est.
Spagna e la sua controparte si capivano solo sotto le lenzuola. La pelle di Coatlicue era calda e sottile sotto le sue mani, le sue grida erano di un piacere doloroso per le cose che non aveva mai provato prima. Era vergine e a quel pensiero il ragazzo ghignò e il suo ghigno si allargò ancor di più sciogliendosi in una risata quando aveva scoperto che portava il nome di una dea vergine. Strano a dirsi visto che non se la cavava affatto male.
Coatlicue da parte sua temeva gli uomini venuti dal mare. I segni dicevano che essi fossero dei, ma la sua intelligenza la metteva in guardia dai loro occhi avidi, in special modo dall' uomo cui era stata costretta a donare il proprio corpo. Non avrebbe mai voluto, aveva promesso di onorare per tutta la sua vita il nome della vergine madre del dio Serpente ma Montezuma sperava di compiacerlo in quel modo e di renderselo favorevole, lui e gli altri.
Pensava anche che gli dei avessero un aspetto diverso, che si nutrissero solo del cuore degli uomini, invece loro gli assomigliavano e mangiavano il loro stesso cibo. Avevano persino proibito i sacrifici agli dei.


Spagna issò l' alabarda verso l' alto fendendo l' aria con un sibilo prima di abbatterla con un colpo secco su un soldato indigeno. Era da giorni che continuavano così ma potevano dirsi avvantaggiati dalle armi da fuoco e dai cavalli, sconosciuti fino a poco tempo prima agli indigeni. La nazione prese la pistola dalla cintura e sparò alcuni colpi in aria, poi verso alcuni aztechi. Qualcuno fuggiva terrorizzato, altri cercavano di assalirlo nel tentativo di prenderlo vivo e farne sacrifici per i loro falsi dei. Da sotto le mura i conquistadores potevano vedere con orrore i corpi dei loro compagni presi prigionieri e accatastati sulle piramidi come sacrifici, ora senza vita.
Era un orrore.
Qualcosa per un momento dentro di lui vacillò.
-Antonio- sibilò con rabbia dando una gomitata a un uomo che lo attaccava- taci. Taci!- urlò.
Si guardò intorno e si tolse la benda nera che gli copriva l' occhio. Erano rossi, erano entrambi rossi. Antonio finalmente era morto. Morto! Contemplò il cielo fuligginoso sulla sua testa, la città data alle fiamme che bruciava, gli spari dei fucili spagnoli che lo rassicuravano, i corpi distesi a migliaia sulla terra secca. Camminò su quel pavimento di cadaveri, col cuore palpitante di un istinto pazzo e selvaggio. Doveva trovarla, doveva trovare Tenochtitlan, la ragazza col nome di dea. E ucciderla.
Nelle narici gli entrava l' odore delle case e dei corpi bruciati, del sangue, suo, dei suoi compagni, degli indigeni, come se fosse stato all' interno di un mattataoio.
Ora erano giunti alla fine di quella fase. Dalla morte di quella città sarebbe nata una nuova era per lui.

La trovò che si guardava intorno, guardinga e accigliata, in mano un' arma affilata ma rude che gli faceva venire voglia di ridere.
Sbuffò un poco, non si trattenne. Gorgogliò una risata che gli nasceva dalle viscere e risaliva su per la gola raschiando le corde vocali, cupa, nasale, un po' roca.
Tenochtitlàn si voltò all' improvviso, terrorizzata.
-Lo sapevo che non dovevao fidarmi di te- affermò in uno spagnolo un po' incerto.
Il ragazzo alzò il mento soddisfatto:- Già, per questo ti sei fatta sbattere come una puttana.- tacque un secondo, prima di aggiungere- E parli la mia lingua.
Ebbe come l' impressione che Coatlicue ringhiò prima di avventarsi su di lui. Javier si spostò di lato assestandole una gomitata sulla schiena, le allontanò l' arma con un piede.
Tenochtitlan in quel momento pianse in silenzio, alle spalle di quell' uomo vedeva la sua gente morire, la città bruciare. Era tutto finito. Quegli dei avevano solo portato il dolore e il fetore della morte. Lo maledisse nella propria lingua materna, gli augurò ogni male e ogni sofferenza, gli augurò di non potere mai trovare la luce e di essere in eterno tormentato dal peso dei suoi peccati.
-Ninguna paz... Ahoga en vuestos pecados y en el infierno de su dios!**- berciò con un filo di voce affinchè comprendesse le sue parole.
-**No tiengo miedo. E' una condanna che accetto para España.
Disse così, prima di abbattere l' alabarda sulla donna che lo aveva maledetto per sempre. L' aveva ferita per renderla innocua, ma era viva. Per il momento.
Lo sapeva, Antonio dentro di lui lo sapeva che per colpa di quell' insensata sete guerriera la sua anima si sarebbe dannata per la vita.
Spagna sospirò, una pioggia insistente iniziò a bagnargli il volto, alzò il capo rivolto al cielo, la croce d' ora brillava indegna sulla sua pelle. Sentì la pioggia invadergli gli occhi, li richiuse e li riaprì in uno scatto. Uno verde e uno rosso.
-Antonio... non ti arrendi?




Anno domini 1521

Le navi provenienti dall' America attraccarono nei porti più importanti della Spagna cariche di preziosi e di ogni bene, conosciuto e non. Quando la nazione mise piede sul suolo nativo gli sembrò di respirare finalmente un' aria diversa, più pulita per certi versi di quella con cui era venuto a contatto negli anni precedenti. Visitò i reali del paese porgendo i suoi omaggi, facendosi festeggiare e acclamare e informarli della situazione.
Poche settimane dopo si trasferiva nuovamente nella sua tenuta poco distante da Madrid. Quel corpo non bastava a contenere due anime così diverse. Uno non basta affatto. Lottavano a vicenda, continuamente, emergevano e si imponevano l' una sull' altra.
Sostò nel giardino della tenuta in mezzo agli inservienti che erano venuti ad accoglierlo, diede disposizione alle guardie che lo seguivano. Notò un ciuffo fare capolino dietro le gonne di una cameriera. Italia Romano mostrò il visino titubante passandolo dal volto -ancora strano a detta sua- di quel bastardo di Spagna a quello di alcune persone macilente che la nazione si portava dietro. Il bambino spalancò gli occhi e inorridì. Chi diavolo erano? Erano uomini e donne feriti, pieni di lividi, legati a catene pesanti, curvi e rassegnati.
Spagna gli si avvicinò e la cameriera si spostò velocemente privando il piccolo italiano della sua protezione.
-Ce-ce...ce ne hai messo per tornare!- balbettò Lovino guardandosi i piedi.
-Poco- precisò il più grande- sono stato via decisamente poco tempo.
Di solito Antonio quando lo vedeva, specie se di ritorno dopo un lungo viaggio, si abbassava alla sua altezza, questa volta no, lo sovrastava imponente con quegli occhiacci di diverso colore.
Il piccolo sporse lateralmente la testa notando una donna minuta, conciata peggio degli altri, scheletrica, con un cappio che sembrava pesare quintali. Aveva delle bende intorno allo stomaco e una mano completamente fasciata -ammesso che l' avesse ancora-
Romano ne ebbe una pietà infinita, avrebbe voluto donarle la pace, estirpare il dolore. Ma come si faceva? Tremò e iniziò a singhiozzare.
-Chi sono?- chiese
-Gli sconfitti- fu la pacata risposta
-Io sono...
-Uno sconfitto, Italia Romano.
Spagna lo superò lasciandolo a piangere e a sfogarsi sotto gli occhi imbarazzati di servitori e cameriere. Sentiva il cuore farsi piccolo piccolo, stritolato da un pugno di ferro, come se qualcosa gli stesse succhiando la vita.
Antonio era un bastardo. Gli aveva mentito.
Gli diceva che gli voleva bene.
Non era vero.
Gli diceva che lo avrebbe protetto.
Non era vero.
Che lo avrebbe trattato bene.
Bugiardo.
Bugiardo.
E bugiardo.
Non credeva che fosse cattivo. Che facesse questo.
Sapeva che non avrebbe dovuto fidarsi di lui. L' aveva capito subito che era egoista.
Il bimbo si alzò e gli corse dietro fin dentro casa, gli arrivò alle spalle e iniziò a colpirlo alle gambe con calci e pugni gridando quanto fosse bastardo e quanto lo odiasse.
Spagna si girò scocciato e lo afferrò per la collottola portandolo all' altezza del proprio viso. Il bambino continuava a scalciare e a dimenarsi. A un certo punto gli sputò in faccia.
-Non hai paura- costatò pulendosi il viso con la mano libera.
Romano si calmò all' improvviso, se ne era scordato. Certo che gli faceva paura. Era più alto, era più forte. E ora che ci pensava... era diverso.
Antonio appoggiò delicatamente il bambino a terra e si chiuse nelle sue stanze. Si mise a letto. Il mattino dopo quando si alzò si guardò allo specchio.
C' erano i suoi occhi verdi, c' era un riflesso identico che lo guardava.
...
E c' erano ancora le mani sporche si sangue.
Un' era tramontava e lui non era più due ma uno.
Esisteva Antonio, solo Antonio. Antonio e il suo sorriso gentile, Antonio e la sua ambizione. Facevano entrambi parte di lui, armoniosamente, senza lotte, senza che fossero divisi.
Era nata la nuova España.
Si fece un bagno e si cambiò. Doveva chiedere scusa a Lovino e parlare con i regnanti della politica futura.

Per il pentimento c' era ancora tempo.












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**Nessuna pace... annegherai nei tuoi peccati e nell' inferno del tuo Dio.
**Non ho paura [...] Per la Spagna.
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HARU DICE: Questa ff è stata un parto o_o, spero di non aver scritto scemenze ma mi andava di descrive il lato "oscuro" di Spagna, un Antonio che prevede un futuro pentimento ma che è più impegnato a vedere il presente. Javier potete vederlo come l' alter ego di Antonio oppure come la parte scura, quella più ambiziosa e guerriera, quella che non si fa scrupoli e che emerge lentamente, prima rinnegando la "parte buona" e poi fondendosi alla fine con essa. Bho... fate un po' voi XD
Io ho il cervello in pappa.
Il punto di vista che prevale ovviamente è quello di Spagna conquistador, quindi ovviamente questo non vuol dire che io condivida ciò che dice. Meglio precisare.
Ultima cosa, io non capisco una pippa di spagnolo quindi spero che il traduttore non mi abbia fatto scrivere scemenze.

NOTE:
*Tatloani: è il capo massimo della società azteca.
[1]: Frase tratta da Historia verdadera de la conquista de la Nueva Espana
[2]: Tratta da "La conquista del Messico"
Per quanto riguarda la parte in cui si dice che gli dei mangiano il cuore degli uomini, so che gli aztechi facevano sacrifici alle divinità e da qualche parte mi è sembrato di leggere che pensavano che le divinità si nutrissero del sangue del cuore umano ma non ne sono certa onestamente.

(MOLTO, MA MOLTO) SINTETICAMENTE GLI AVVENIMENTI:
Il contesto di questa ff è ovviamente la conquista dell' impero Azteco da parte degli spagnoli di Cortès inizialmente non appoggiata dal governatore spagnolo di Cuba e in ogni caso l' appoggio ufficiale alla spedizione è piuttosto controverso. Secondo la tradizione Azteca il dio Quetzalcoatl sarebbe dovuto tornare proprio in quegli anni, quindi gli spagnoli, che tra l' altro possedevano oggetti mai visti dagli Aztechi, furono scambiati per dei o comunque loro emissari. Cortés giocò molto su questo fatto servendosi di una notevole pressione psicologica. Alla fine si arrivò alla guerra aperta tra aztechi e conquistadores, la capitale dell' impero fu espugnata nel 1521. Nel 1525 le ultime sacche di resistenza venivano definitivamente domate.

DISCLAIMER: Hetalia e i suoi personaggi non mi appartengono ma sono degli aventi diritto. La storia non è scritta a scopo di lucro. L' immagine che ho messo ovviamente non è mia nemmeno.
   
 
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