CAPITOLO 6
MALATTIA
Seconda parte
L’hokora doveva essere abbandonata da molto tempo,
almeno a giudicare dalla polvere che ricopriva ogni cosa. Ma sembrava essere
ancora solida a sufficienza da permettere di abitarvi. Almeno per il tempo
necessario.
Alessandra sgombrò da detriti e
legni la parte più riparata del pavimento rialzato e vi stese il futon su cui Sesshomaru adagiò Rin. La bambina respirava sempre più con fatica e la
febbre doveva essere aumentata, almeno a giudicare dai brividi che le
scuotevano il corpo. La ragazza provò una stretta al cuore nel vederla così.
Una tristezza che credeva di aver dimenticato. Di aver imparato a domare.
Perché era una debolezza che non si poteva permettere. E invece, tutti i suoi
sforzi si stavano sciogliendo davanti a quella bambina che continuava a
sussurrare il nome del suo signore, senza sapere che lui fosse lì accanto.
Freddo e controllato come sempre. Impassibile.
Insensibile
Quella definizione attraversò
veloce la mene di Alessandra,
ma la scacciò concentrandosi su quanto fosse necessario fare. Iniziò a girare
per il piccolo ambiente ed alla fine trovò alcuni recipienti di bronzo, che dovevano
servire per le offerte e l’incenso.
Ne afferrò uno non molto grande e
uscì, per poi rientrare subito dopo col contenitore colmo di neve. Prese poi il
suo zaino e si sedette vicino a
Rin, estraendo una cassetta
medica. Sorrise dentro di sé, ripensando alle prese in giro dei suoi compagni
di escursione quando l’avevano vista arrivare alla stazione così carica, almeno
secondo loro.
“Guarda che andiamo solo a
pattinare e a passare la notte in un rifugio! Non intendiamo mica scalare
l’Everest!” avevano detto canzonandola. Ma lei aveva scrollato le spalle ed era
salita sul treno. Non le
importava quello che pensavano, lei era nata in montagna e sapeva che poteva
essere tremenda e benevola al tempo stesso. Lei non era di città come loro, lei
ne conosceva i pericoli, anche quelli di una gita preparata nei particolari.
E adesso, non poteva far altro
che ringraziare il buon senso che le aveva consigliato di non ascoltare quei
ragazzi e di preparare il suo bagaglio come da abitudine.
Prese il termometro e lo avvicinò
a Rin, ignorando le domande
di Jacken e lo sguardo di Sesshomaru.
“Serve solo a misurare la febbre”
si decise infine a rispondere, almeno per far tacere il piccolo demone. Un
trillo meccanico.
“
Rin tossiva,
forte. Una tosse secca e profonda, ma che faceva gorgogliare il respiro. Una
tosse che non piaceva per nulla ad Alessandra. Le sciolse il kimono a quadri
quel tanto necessario a scoprirle il petto gracile e la ausculto. Nei polmoni
si sentiva qualcosa di strano. Un suono che lei conosceva.
“Che cos’ha?”chiese Jacken con voce gracchiante. Le
risultava sgradevole quella voce mentre
cercava di afferrare ricordi e spiegazioni lontane, dell’infanzia. Mentre voci che la facevano soffrire le
risuonavano in testa.
“Acqua”.
Non aggiunse altro e prese
un’aspirina dall’astuccio medico. Tachipirina.
Non sarebbe servita per la tosse, ma almeno avrebbe fermato la febbre. Per un
po’. La fece sciogliere e avvicinò il bicchiere alla bocca di Rin quando una mano artigliata la
fermò tagliando l’aria davanti a lei. Sesshomaru
la guardava duro, con occhi colmi di minacce: sembrava non volersi fidare.
Alessandra rispose allo sguardo e repentinamente si portò la ciotola alle
labbra, bevendone un sorso. Non era veleno. Il demone ritrasse la mano e la
lasciò avvicinare.
Dopo che Rin ebbe bevuto, Alessandra iniziò a parlare con
sussurri: pensava a voce alta permettendo così anche agli altri di avere
maggiori delucidazioni.
“Ha la febbre molto alta e acqua
nei polmoni. Bisogna tenerla al caldo. Il farmaco che le ho dato abbasserà la
temperatura, ma per i polmoni non possiamo fare molto”.
Intanto girava nella stanza alla
ricerca di legna, assi rotte e quanto fosse
combustibile. Ci voleva un fuoco. Per riscaldare Rin e farla sudare. E per preparare l’unico aiuto
possibile. Ammucchiò il suo bottino nel piccolo camino in pietra e iniziò a
sfregare i fiammiferi. Inutile. Avevano preso troppa neve. Erano fradici.
“Significa che Rin morirà?”.
La domanda di Jacken fece sobbalzare la ragazza e ruppe un
fiammifero, sfregato con troppa forza. Morirà…No; non lo avrebbe permesso. Mai.
“No”. Una risposta che voleva
essere decisa e che però aveva il sapore di una speranza che si estingue. “Non
deve accadere…”.Un sussurro, rivolto a se stessa. Guardò la bambina, avvolta
nel futon, con la parte
superiore del kimono dell’youkai
sopra e la testa appoggiata sulla stola di pelliccia. Non lo avrebbe mai
permesso. Questa volta non sarebbe rimasta a guardare, avrebbe provato il tutto
per tutto. Nessuno l’avrebbe allontanata.
“Dannazione!” imprecò quando
anche l’ultimo fiammifero le si spezzo
fra le dita. Troppo agitata. Anche se lo mascherava bene. Jacken le offrì allora il suo aiuto; anche lui
voleva fare qualcosa per quella bimba umana. Perché, se anche lo faceva
impazzire, gli voleva bene. Piantò il bastone Ninto davanti ai ceppi e vi fece scaturire il fuoco.
Lingue rosse danzarono nell’aria,
contorcendosi e regalando un po’ di luce all’ambiente. Finalmente.
“La ringrazio”. Alessandra si
girò verso il piccolo demone con un sorriso appena accennato, ma nei suoi occhi
c’era davvero gratitudine.
“Ah, figurati e …Ehi!!! Un momento!!! Non è a me che
devi portare questo rispetto ma…”. Il demone si voltò terrorizzato verso Sesshomaru. Come avrebbe preso il
suo signore il fatto che quell’umana
lo avesse ringraziato dandoli del lei, mentre si ostinava a tenere un atteggiamento
irrispettoso verso di lui? Gli dava del tu! Cosa che fino a quel momento, a
memoria di Jacken, solo il
fratello di Sesshomaru
aveva fatto. Una confidenza che il demone odiava.
Sesshomaru
si limitò a fissarla. Di nuovo quegli occhi
d’ambra. Di nuovo quello sguardo tagliente. Ma non disse nulla. La prese come
una provocazione cui era meglio non rispondere. Non al momento. Di quell’umana aveva bisogno. Anche
se detestava doverlo ammettere. Ma gli serviva. Per Rin.
L’acqua bolliva nel recipiente di
bronzo. Borbottava. Ogni tanto, un legno mescolava il suo contenuto, fatto di
stoffa e pezze strappate.
Alessandra aveva pregato Jacken di procurarle alcune cose.
Non era necessarie nell’immediato, ma avrebbe preferito averle al più presto.
Alcune erano erbe e radici abbastanza facili da trovare; per le altre, si
sarebbe dovuto recare in un villaggio. Il piccolo demone aveva aspettato il
consenso di Sesshomaru, che
aveva semplicemente annuito con il capo. Così, nell’hokora erano rimasti solo Sesshomaru, Alessandra e Rin.
La ragazza aveva recuperato alcuni stole sacerdotali e aveva
strappato anche qualcuna delle sue magliette di ricambio. La stoffa ideale
sarebbe stata quella del vestito che indossava il demone, ma non se la sentì di
chiedergli anche l’altra parte alta del kimono. Non lo avrebbe mai lasciato a
torso nudo. Poteva anche ammettere che fosse un demone, ma per lei restava un
ragazzo. E un ragazzo può soffrire il freddo, anche se lo sente meno. E poi, l’idea
di trovarsi con un ragazzo mezzo nudo nella stessa stanza non le piaceva
proprio. La imbarazzava troppo.
Un lampo nella memoria. Lei che
gioca con un ragazzo su un grande letto, mentre piume volano ovunque. Due
bambini.
Leone…
“Come ti sei procurata quei
lividi?”.
Il legno che usava come mestolo
le cadde di mano. Li aveva notati? Beh, in fondo non è che proprio non si vedessero, ma non credeva che lui
li avrebbe notati. E tanto meno che le avrebbe chiesto l’origine. Con quella voce
strana, impalpabile. Sembrava non avere sfumature, ma dietro nascondeva un tono
suadente. Incantatore.
“Non sei obbligata a dirlo”.
Gentile. Freddo, ma gentile. Non costringeva. Perché quel
cambiamento in lui? Che stesse giocondo? Con lei? Alessandra lo temeva. Temeva
che stesse giocando con lei come il gatto col topo; che mostrasse due facce del
suo carattere per confonderla e poi sconfiggerla. Per vincere.
“Contadini”. Aveva deciso. Ci
avrebbe provato, almeno. Avrebbe giocato anche lei. O meglio, sarebbe stata più
accondiscendente. Per un po’. Per vedere che intenzioni avesse.
“Appena mi avvicino ad un
villaggio, mi attaccano. Anche se non so il perché”.
Una curiosità interessante. Forse
avrebbe potuto ottenere delle risposte dal ragazzo, senza dovergli porre
direttamente delle domande. Era certa che se lo avesse fatto lui non avrebbe
risposto. Non certo perché non le sapesse, le risposte, ma per non darle alcuna
soddisfazione, alcun aiuto. Sì, avrebbe cercato qualche risposta. Almeno per
raccapezzarci di più in quel mondo che non conosceva.
“I capelli”.
Sesshomaru
stava osservando i capelli della ragazza, spettinati e disordinati dal vento;
ricadevano in piccoli ciuffi scomposti sul collo sottile, nascondevano una nuca
aggraziata. Morbidi. Dovevano essere molto morbidi al tatto. Setosi. Erano lisci, lunghi e
risplendevano un po’ davanti al fuoco, per via della neve che ancora era
rimasta intrappolata e che si stava sciogliendo piano.
Silenzio. Alessandra non domandò
nulla e Sesshomaru apprezzò
questo fatto. Come solo lui sapeva apprezzare il silenzio. Non era invadente,
non lo forzava alla parola. In questo erano simili, pensò. Non le aveva ancora
sentito pronunciare una parola più del necessario. Nulla che non avesse
un’utilità diretta. Neanche il suo nome. E allora parlò lui, sorprendendosi
intimamente del desiderio che sentiva di spiegarsi, di abbattere le ambiguità
che una parola può
racchiudere.
“I tuoi capelli sono rossi. Un
colore da demoni”.
Alessandra sussultò. Da demoni?
Che razza di spiegazione. I suoi capelli erano così di natura. Punto. Non gli
aveva certo tinti. Perché mai il rame era un colore da demoni? Poteva anche
ammettere che fosse una tonalità un po’ particolare, ma da qui ad averne
paura…Erano solo un po’ rari; tutto qui.
Poi capì. Improvvisamente.
Collegando nella mente tasselli sparsi. Si
trovava in Giappone…Giappone medievale, per la precisione…Contatti col
continente: zero, almeno secondo i libri di storia…Popolazione geneticamente
scura di capelli…Uniche varianti: i demoni. Come quello che aveva
alle spalle, con quei capelli argentei. Doveva essere normale per la
popolazione di quel tempo reagire davanti a qualcuno con tratti fuori dalla norma. E così si era
trovata di nuovo isolata. Non
era demone, ma non poteva stare con gli uomini. Neanche avvicinarli.
Sospirò. Ci avrebbe pensato in
seguito. Ora, doveva continuare a occuparsi di Rin.
Erano stati in silenzio per circa
un quarto d’ora. Lei concentrata sul fuoco, lui seduto vicino al futon.
Alla fine, Alessandra allontanò
il recipiente di bronzo e iniziò a versarne l’acqua bollente attraverso una
grata.
Lo sciabordio dell’acqua
distrasse Sesshomaru, che
si voltò verso di lei. Avvolta dal fumo del vapore, con la fronte leggermente
imperlata di sudore e gli occhi concentrati. Si stava mordicchiando il labbro
inferiore, forse per nervosismo.
Magnetica pensò il
demone, senza neanche realizzare il perché di quel pensiero. Non c’era nulla di
magnetico in lei. Era solo un’umana. Irriverente per di più. Uno strumento.
Solo quello. Un mugolio attirò nuovamente la sua attenzione.
Acqua. Alcune gocce bollenti
erano saltate sulla mano della ragazza, che istintivamente aveva stretto gli
occhi e mugolato. Nulla di più. L’youkai
ne rimase colpito. Aveva visto alcune volte uomini e donne avvicinarsi troppo
all’acqua calda per poi ritrarre urlando le mani ustionate o scottate. Lui
stesso, pur avendo una soglia di sopportazione del dolore molto alta, doveva
fare attenzione al calore eccessivo. Era come il freddo, lo avvertiva, ma non
lo soffriva. Era come se non provasse nulla. Per un ningen però era diverso. Loro non sopportano
facilmente il dolore. Quella ragazza invece si era limitata a stringere gli
occhi, ma non aveva interrotto il suo lavoro. Aveva continuato imperterrita
versare l’acqua e adesso stava estraendo dalla pentola improvvisata delle
stoffe fumanti.
Tornò a guardare Rin. La febbre doveva essere
scesa, perché dormiva più tranquillamente; tuttavia, il respiro gorgogliava
sempre e la tosse non sembrava proprio attenuarsi. Provò l’impulso di farle una
carezza, per tranquillizzarla. Una sensazione strana. Non era fastidio, era
qualcosa che ricordava di aver provato. Molto
tempo prima. Forse quando era ancora un bambino. Qualcosa che
aveva desiderato, forse. Sfiorò la pelle calda e rossa della guancia con la
mano, attento a non ferirla involontariamente con i suoi artigli. No; non
voleva farle del male…
La piccola Rin…era l’unica che fosse riuscita ad avvicinarlo, a rompere il suo
isolamento fisico ed emotivo. L’unica che riuscisse a toccarlo. La teneva a
distanza, certo. Carezze lui non ne elargiva, né abbracci e neanche parole. Ma
lei gli era rimasta lo stesso accanto. E ogni tanto riusciva anche a rubargli
un abbraccio. Anzi, a donarglielo. Perché era sempre lei a stringerlo; ad un
braccio o una gamba. Sorridendogli.
Alessandra aveva finito di
stendere la crema di menta sulle pezze ancora calde e si era voltata. Restando
poi immobile.
Sesshomaru
era chinato su Rin e le
stava accarezzando il viso. Un movimento lento e delicato. Sensuale. I capelli,
lunghi e leggermente umidi, gli ricadevano scomposti lungo la schiena e in
parte sul petto. Seducenti. Ma era il viso a incantarla. Fiero, come sempre, ma
con un’ombra di tenerezza intrappolata in fondo agli occhi. Freddo. Ma era
davvero impassibile quel ragazzo?
Istinto. Sesshomaru alzò gli occhi per istinto e incontrò il
viso di Alessandra. Lo stava fissando. Seria. Come non si era mai sentito
fissare. Scrutare. O forse l’unico che lo avesse
mai guardato in quel modo, ormai, era morto da tempo.
Nessuna parola, nessun commento.
La ragazza si avvicinò tranquilla
e lui si scostò con eleganza. Ma dentro aveva agito d’impulso, come se la
distanza potesse annullare il sottile filo che si era stretto attorno a loro.
La studiò mentre apriva piano il kimono di Rin e le sistemava sul petto un
suo indumento, molto sottile. Poi, prese una delle stoffe che aveva fatto
bollire. Fumava ancora, anche se meno rispetto a prima, e brillava sommossamente. E poi aveva un
buon profumo: di menta.
Alessandra lo sapeva. Sapeva che
il bel demone non le staccava gli occhi di dosso. Quello che non riusciva a
capire era se fosse per curiosità verso i suoi gesti o per qualcos’altro. Nel
primo caso si rimediava subito: gli avrebbe spiegato lei, adesso, qualcosa.
Come lui prima aveva fatto, anche se involontariamente. Per quanto riguardava le seconda ipotesi, finse
indifferenza. Era un argomento che non se la sentiva di affrontare in quel
momento.
Posò piano il tessuto sul petto
di Rin, che sussultò al
contatto del calore. Alessandra però non si scompose e tenne ferma la pezza.
Dava fastidio, lo sapeva bene, lo aveva provato anche lei, ma serviva.
L’avrebbe salvata.
“I tessuti caldi servono a far
evaporare l’acqua contenuta nei polmoni” spiegava intanto a Sesshomaru, che al movimento di Rin si era mosso, seppur impercettibilmente. “La
sostanza che vi ho spalmato sopra invece le dilaterà un po’ i bronchi e le
permetterà di respirare meglio”.
L’youkai non rispose nulla. Non le aveva chiesto spiegazioni,
ma intimamente le era grato per avergliele date. Non stava facendo male a Rin, la stava curando.
Gratitudine…No; non la provava per quell’umana.
Non poteva provarla. I sentimenti sono estranei ai demoni. Non li conoscono.
Perché sono fonte di debolezza. Per questo sono degli uomini. Loro sono deboli.
“È il tuo nome?”.
Alessandra lo strappò alle sue
riflessioni. Al cambio della benda, Rin
aveva sussurrato di nuovo quel nome che le era sempre stato sulle labbra. Ma
questa volta anche Alessandra era riuscita ad afferrarlo meglio.
“Sì”.
Le rispose dopo secondi eterni.
Gli sembrava di scoprirsi dicendogli il suo nome, di legarla a sé. Non lo aveva
mai provato prima. Il suo nome era fonte di vanto e di gloria, era associato a
forza e potenza, alla vittoria. Era il suo orgoglio. Sesshomaru. Il ragazzo che uccide. Il nome di un
vincitore.
Sesshomaru…il ragazzo che
uccide
Alessandra ne era rimasta
colpita. Un nome che faceva gelare il sangue, che odorava di morte, ma che su
di lui suonava dolce, aggraziato. La sua essenza. Era un nome imponente, come
lo era lui; da vincitore, per intimidire…Solo per quello? Alessandra si
interrogò se quel ragazzo avesse mai davvero concretizzato il suo nome. Se avesse
mai ucciso qualcuno.
Concentrata sul suo lavoro, gettò
una veloce occhiata alla sua mano. Artigli. La sua mano era dotata di artigli.
Bianchi. Lunari. Erano mai stati tinti di rosso? Era un demone, uno youkai, sarebbe stato normale per
lui? Scosse la testa forte, violentemente. Niente sangue. Niente morte. Non ci
doveva pensare. Se non voleva essere colta dal panico, non doveva pensarci.
Sbagliava, lo sapeva. Ma a volte è meglio difendersi, piuttosto che attaccare.
Anche se significa restare nell’ignoranza.
Sentì i suoi occhi chiamarla. La
continuavano a fissare. Da quando gli aveva detto sì. Da quando lei sapeva il
suo nome. Freddi. Dannatamente freddi. Il riflesso del fuoco si liquefaceva
nelle sfumature dorate. Magia. Magia. La testa continuava a dirle di non
guardare, di sottrarsi a quella danza ipnotica. Non l’ascoltò. Ricambiò lo
sguardo.
Azzurro. Il colore del cielo di
primavera. Gli occhi di quella ragazza erano un mistero. Affascinanti.
Continuavano a mutare a seconda della
luce. O forse del suo umore. Stregati. Dovevano esserlo. Perché altrimenti Sesshomaru non riusciva a capire
cosa l’attirasse tanto in quello sguardo. Aveva incontrato molte donne, demoni
o umane. Belle, molto belle. Affascinanti, seducenti. Con ovali perfetti per
viso, capelli profumati di mille essenze, corpi flessuosi come il giunco.
Eleganti, raffinate, volitive, battagliere…Ne aveva incontrate tante, eppure
nessuna lo aveva affascinato come quell’umana.
Nemmeno Rin. E tutta la
magia stava in quello sguardo, era racchiusa in quegli occhi fieri e
terribilmente malinconici. Occhi dalle striature d’argento. Del colore della
luna.
Il nome. Voleva sapere il suo
nome. Perché ora lei sapeva il suo. Ma non glielo voleva chiedere. Non lo
avrebbe mai fatto. Mai. Si limitava a guardarla. Intensamente. Freddamente. E
lei rispondeva impassibile a quella muta interrogazione. Vide le sue labbra
schiudersi appena il necessario per far uscire un sussurro, prima che la
ragazza tornasse a concentrasi
su Rin, rompendo quella
sospensione in cui erano caduti.
Quel sussurro Sesshomaru lo colse chiaro e lo gustò fino in fondo,
sorridendone compiaciuto dentro di sé.
“Alessandra”.