CAPITOLO 7
PAURE E SOTTERFUGI
“Ecciii…”.
Kagome si
strinse di più nel pesante piumino, arrotolando di nuovo la sciarpa attorno al
collo e calandosi il berretto sulle orecchie. Ormai, del suo viso, si
intravedevano solo gli occhi.
“Ti buscherai un malanno. Perchè
non torni indietro?”. Inuyasha
si era voltato ed era tornato indietro fermandosi di fronte alla ragazza. Ma
perché doveva essere così testarda? Non lo capiva che lui era preoccupato.
Forse dovrei dirglielo…
Scosse la testa. Neanche morto! La
prenderebbe troppo male e poi mi toccherebbe anche scusarmi! Se vuol fare di
testa sua si accomodi!
“Non ti sembra di esagerare, Inuyasha? Ho solo starnutito! In quest’epoca fa più freddo che
nella mia e io non ci sono abituata!”
L’hanyou si girò stizzito. Ma quale freddo?! L’inverno vero non era neanche
iniziato e lei già diceva che era freddo?
“Tornatene indietro, allora!”.
Tono duro, scocciato. Quello che Kagome non sopportava. E lui lo
sapeva bene. Molto bene. Lo aveva fatto apposta. Adesso si sarebbe arrabbiata,
gli avrebbe dato dello stupido, probabilmente lo avrebbe sbattuto a terra e poi
se ne sarebbe tornata nella sua epoca. Tutto calcolato. Sarebbe stata al sicuro
e lui più tranquillo.
“Ti scoccia tanto viaggiare da
solo con me?”.
Non c’era livore, solo paura.
Paura di una risposata affermativa. Di sentirsi dire che non la voleva con lui.
Di essere scacciata. Kagome
viveva spesso quella sensazione. Temeva che prima o poi Inuyasha non sarebbe più andato a prenderla.
Attese. Quanto ci metteva a
risponderle? Si divertiva, forse, a tenerla sulle spine? Una volta loro
viaggiavano da soli. Solo in un secondo tempo il gruppo si era allargato.
Perché allora non la voleva più con lui?
“Stupida…”.
Braccia forte attorno al suo
corpo, un petto sicuro su cui affondare il viso e una voce calda sussurrare al
suo orecchio, con la bocca nascosta fra il nero dei suoi capelli. Inuyasha l’aveva attirata a sé e
ora la stava abbracciando. Un abbraccio nervoso, disperato, ma che le
trasmetteva anche tanta dolcezza. Preoccupato? Possibile che lo fosse? Ma
perché? Non stavano facendo nulla di diverso dal normale; anche se Sango e Miroku erano dovuti andare con Kirara al villaggio degli Sterminatori e se avevano
deciso di lasciare Shippo
con Kaede, nulla era
diverso. Stavano cercano Naraku.
E presto i loro amici li avrebbero raggiunti. Ma allora perché il mezzo-demone
era così diverso dal solito? Perché un
attimo prima era scorbutico e maleducato e un attimo dopo tenero
e appassionato?
Kagome era
spiazzata. Non riusciva più a capirlo. E allora si affidò all’istinto. E lo
abbracciò forte a sua volta.
“Voglio solo che non ti succeda
niente…”
“Ma ci sei tu con me”. Voleva
mostrarsi sicura perché, quando era accanto a lui, nulla le sembrava
impossibile. Nulla.
“Basterà?...”
“Inuyasha…Si può sapere che ti succede?”.
Non lo aveva mai visto così.
Dubitava persino di se stesso. Della sua forza. Di quella forza di cui andava
tanto orgoglioso e che gli aveva permesso più di una volta di mettere in
difficoltà non solo suo fratello Sesshomaru,
ma anche Naraku. Cosa gli
stava succedendo?
L’hanyou sospirò pesantemente. Doveva dirle tutto.
Sciolse l’abbraccio e la prese
per mano, facendola sedere davanti a sè,
sotto ad una grande magnolia secolare. Rami spogli con fiori di neve.
Kagome si
sentì stringere nuovamente. Un abbraccio diverso, come alla ricerca di una
presenza che sta per fuggire. Non si voltò. Sapeva che per Inuyasha sarebbe stato più difficile parlare se lei
lo fissava. Si limitò ad
abbandonarsi contro il suo petto e a stringergli le mani. Erano fredde.
Hai paura?...
“Coraggio…Dimmi cosa ti
preoccupa…”
Sangue. Piccole gocce cadevano a
terra, macchiando la stuoia intrecciata. Nel buio, risuonava solo un respiro
affannato. Quello di chi ha appena compiuto uno sforzo immenso.
“Avevi scoperto troppo…”
Un corpo, a terra, in una pozza
scarlatta. Trapassato. Naraku
si lasciò andare all’indietro, sbatte contro il muro e scivolò lentamente a
terra, mentre alcune strisce scure sporcavano la parete. Aria. Aria. Ne aveva
bisogno. Gli girava la testa. Troppo velocemente per restare in piedi.
Dannazione! Era ancora debole. Molto debole. Nonostante fossero passate ormai
due settimane.
Si guardò la mano. Rossa.
Brillante. Sinistra. Contro la sue pelle
diafana, quel colore cupo risaltava ancora di più. Gli era
costata grande fatica, quella morte. Più del previsto.
Ed era solo un semplice subordinato…
Un pensiero che gli fece scorrere
un brivido lungo la schiena. Compiaciuto. Lo era davvero. Perché con simili
alleati la vittoria sarebbe stata sua. Certamente. Ma ora doveva provvedere a
fruttare quella situazione a sua vantaggio.
Non era stato previsto quel contrattempo e, anche se gli creava qualche
preoccupazione, in fin dei conti poteva farlo fruttare. Per rinsaldare il
patto. E forse accelerare un po’ le cose. Era impaziente. Molto impaziente.
“Kagura!”.
La yasha apparve veloce e silenziosa. Vento. Ne era
l’incarnazione. L’essenza resa concreta e tangibile. L’essenza imprigionata.
Così simile alla sorella Kanna
nello sguardo vuoto, così diversa
da lei nel carattere ribelle. Due volti dello stesso Naraku. Due parti del suo essere.
Il demone la percepì entrare,
gustò il suo moto di disgusto e sorpresa nello scorgere il cadavere e lui a
terra, ferito. Una ferita non insignificante. Uno squarcio su tutto il fianco
destro. Quel maledetto sapeva usarli bene, i suoi affilati pugnali. E avevano
già inciso sopra il suo nome. Ma non era andata come aveva previsto. Lui non si
sarebbe mai fatto sconfiggere. Neanche da loro.
Riaprì gli occhi. Rubino nel
rubino. Un sorriso scaltro, una smorfia di sinistra soddisfazione. Naraku assaporava già l’effetto
della sua trappola.
“Porta via questo sprovveduto.
Liberati del cadavere come preferisci, ma fa in modo che sia ritrovabile.
Semina indizi, corrompi qualche demone non apertamente nostro alleato. Ti
lascio carta bianca. Agisci come preferisci, ma incolpa chi sai”
La yasha non rispose nulla, limitandosi ad uno sbuffo
fugace ed aprì il suo ventaglio con gesto rapido ed aggraziato. Una corrente
d’aria tagliente sollevò il corpo esanime, producendogli tagli sottili come
quelli di una spada. Opera perfetta. Una messa in scena perfetta.
“Kagura…Vedi di non fallire…Altrimenti…”
Di schiena, la demone fremette di paura. Anche se ridotto in
quello stato, Naraku era
sempre temibile. Soprattutto per lei. Perché ne aveva in pugno il cuore. La
vita. Si allontanò senza rispondere; l’unico suo pensiero era fisso su quel
demone. Quanto c’era di vero nella sua debolezza e quanto era invece un
inganno?
“Shin!”
Voce profonda. Voce di chi è
abituato a dare ordini. Voce di chi comanda. Da secoli. Voce distorta da rabbia
e furore. Il demone aveva fissato i suoi occhi in quelli del figlio. Occhi
opposti. Per sfumature e luce. Neri come il dolore quelli dell’youkai anziano; viola quelli del
giovane. Occhi di velluto.
Il ragazzo aveva in mano una
pergamena, sgualcita. La stava lisciando con gesti nervosi. Appena convocato,
gli era stata messa in mano. E dopo averla letta l’aveva stretta. Forte. Come
se potesse distruggere il suo contenuto. Cancellare la realtà.
Sei parole. Sei maledettissime
parole.
Il tuo inviato è morto.
Assassinato.
Non riusciva a crederci. Uno dei
demoni più anziani che vivessero al palazzo. Un veterano, abituato alla morte,
allo scontro, abile con la diplomazia e ancor più abile con la spada.
Invincibile, se liberava la sua forza demoniaca. Un subordinato,è vero. Di suo padre. E anche suo.
Ma per lui, soprattutto un compagno, un amico. Il suo maestro d’armi…
“Andrai da Naraku”.
Un ordine secco. Che non
ammetteva repliche. Giusto. Lui non era vincolato. I sigilli su di lui non
potevano più fare effetto. Ma presto neanche su suo padre.
Si alzò senza dire parola e si
girò. Il fuoco del tramonto incendiò la stanza, facendo brillare le armature
indossate e le armi appese alle pareti. Era un arrivederci…Si sarebbero rivisti
su un campo di battaglia. L’inizio della fine. Per poi festeggiare la vittoria.
La vendetta.
Vendetta…una parola dal sapore
dolce, di acqua che disseta nella calura estiva…
Un ronzio intenso. Vicino
all’orecchio. La sua guida. Il suo lasciapassare. Un saimyosho. Va bene. Sarebbe andato. Glielo doveva. A
chi lo aveva cresciuto.
Kagome trascinava
l’hanyou per una mano.
Sorridendo.
Accidenti! Quel sorriso non
voleva proprio spegnersi. E Inuyasha
ne era felice. Perché quel sorriso lo inebriava. Lo stordiva. Come una ventata
calda d’estate. Come un profumo intenso.
Le aveva detto tutto. Tutto. Le
sue sensazioni, il potere della sfera (o almeno un potere molto simile a quello
che lui aveva sentito molti anni prima) confuso nell’aura di Naraku, la sua inquietudine.
Quella sensazione che preannuncia sempre guai. E il pulsare sommesso di Tessaiga.
Già…perché la spada era viva. E
reagiva. Rispondeva a qualcosa che lei sola sentiva. Una minaccia, o forse un
richiamo. Una sola volta l’aveva sentita pulsare così. Palpitare. Una sola
volta. Quando l’aveva unita a quella del fratello. Quando Tessaiga e Tenseiga
avevano combattuto assieme. Contro Sounga.
Contro il passato.
Tutto. Le aveva detto tutto. E
lei si era limitata a voltarsi, guardandolo negli occhi. Uno sguardo disperato.
Ma non di paura. Lo sguardo di chi vuole trasmettere qualcosa. Con tutte le sue
forze. Ma non trova le parole. Per paura di non riuscire a farsi capire. Per
paura di essere frainteso. Inuyasha
non aveva più pensato a nulla. Si era smarrito nelle sfumature di mogano dello
sguardo della ragazza. Si era lasciato avvolgere. Vi era sprofondato. Niente
pensieri. Niente preoccupazioni.
Pesca…Sapore di pesca…Fresco e dolce; delicato e invitante…Un
bacio…
Kagome lo
aveva baciato. Piano. Con la paura di osare troppo e la sicurezza di riuscire a
farsi capire del tutto. Lo aveva baciato. Con trepidazione.
E poi si era alzata, spezzando
quel contatto che aveva spiazzato il mezzo-demone. E si era incamminata.
Tranquilla. Rilassata. Come se lui le avesse appena narrato una bella storia.
Sorrise, scuotendo rassegnato la testa. Pazza. Doveva esserlo. Per fidarsi di
lui anche quando lui, di fiducia, non ne aveva. E glielo aveva confessato.
Candidamente. Le aveva detto di temere per lei. E lei in risposta lo aveva baciato.
Sì, doveva essere pazza. Malata
di quella pazzia che si chiama amore…
“Inuyasha!”.
Alzò gli occhi; era ferma su un
masso verde e bianco. E lo salutava con la mano. Sorrideva. Poi, aveva aperto
le braccia e si era lasciata cadere all’indietro. L’hanyou si aspettava di vederla subito rialzarsi,
magari con una palla di neve in mano. Niente. Attese un attimo, poi scatto.
Rapido. Preoccupato.
La trovò sdraiata nella neve
alta; fradicia e divertita della sua espressione spaventata. Rideva. Una risata
cristallina. Fresca. Acqua di sorgente. Il ragazzo pensò al suono dell’acqua di
una sorgente. Lucente, fra il muschio e le felci. E intanto Kagome rideva e muoveva le braccia e le gambe: su-giù, su-giù; destra-sinistra;
destra-sinistra.
“Aiutami…”. Prese la mano che gli
tendeva e l’aiutò ad alzarsi. Lei si girò, osservando compiaciuta il suo
lavoro. “Ti piace?”
“Cos’è?”. Inuyasha fissava la sagoma nella neve. Non riusciva
a darle una forma chiara.
“Un angelo di neve”
“È bello…”
Mentì. Non vedeva nessun angelo.
Solo una sagoma informe. Ma non gli importava. Perché l’aveva fatto lei. Perché
vi vedeva la ragazza distesa, con gli occhi che ridevano. Perché lei gli aveva
ridato quel coraggio che il sentire quel potere gli aveva tolto. Gli aveva
restituito se stesso. Forse già da molto tempo. E lui se ne era accorto solo in
quel momento. Mentì. Perché l’unico angelo che vedeva era la suo fianco.