CAPITOLO 9
SCHEGGIE DI MEMORIA
Prima parte
“Ale-chan! Cosa sono questi?”
Per Rin, lo zaino di Alessandra era una sorpresa
continua. Una scatola magica. Da cui estraeva le cose più strane. Particolari.
Un diversivo piacevole, visto che non le permettevano ancora di uscire, anche
se lei ormai si sentiva bene e scalpitava per tornare all’aria aperta. A
giocare.
Alessandra sollevò gli occhi
dalla stoffa che aveva in grembo. La bimba stringeva in mano un paio di
calzature un po’ particolari, con sotto la suola una lama lucente. Sorrise. Era
a causa loro che lei si trovava lì in quel momento. Era a causa loro che Rin si era salvata.
“Pattini”.
Riabbassò gli occhi. Esenziale
come sempre. Rin ci aveva
fatto presto l’abitudine a questo suo strano modo di esprimersi. Parlava
davvero poco, come il signor Sesshomaru.
Però con lei aveva sempre una bella voce. E le raccontava cose incantevoli.
Storie che lei non aveva mai sentito e di luoghi che non aveva mai visto. Forse
il suo signore li aveva visitati. Lui aveva viaggiato molto…
Rin guardò
di nuovo le strane calzature, sfiorandole con la mano. Le posò a terra.
Pesavano un po’. E lei non era ancora del tutto in forze, anche se cercava
sempre di persuadere Jacken
a farla uscire. L’hokora
non faceva per lei. Le stava stretta. Ormai, non era più abituata a vivere fra
le pareti di una casa. Ormai era diventata una piccola zingara. Sempre in
movimento. Costantemente. Libera. Libera come il suo signore. Libera di seguire
lui. Sempre.
Alessandra le fece un cenno e Rin le si avvicinò, continuando a fissarla con occhi
pieni di domande. Faceva così. La fissava. E sapeva che prima o dopo la ragazza
avrebbe soddisfatto la sua curiosità. Non come faceva Sesshomaru. Lui non rispondeva mai. Si limitava a
ricambiare lo sguardo, qualche rara volta. Ma non spiegava mai nulla. A
nessuno.
“I pattini servono per stare in
piedi sul ghiaccio e correrci sopra. È come danzare”.
Alessandra aveva fatto indossare
alla bimba un kimono che Jacken
le aveva portato e ora stava cercando di adattarlo al corpicino minuto di Rin. Era un kimono molto pesante. Ideale contro quel
freddo. E lei aveva deciso di renderlo una
scempie di cappotto per la bambina, così da evitarle di prendersi
un nuovo malanno. Il suo kimono era troppo leggero per quella stagione. Anche
se la bambina non sembrava soffrire il freddo.
In disparte, Jacken osservava contrariato la scena. Quell’umana aveva di nuovo voluto
fare di testa sua. E lui ci sarebbe andato di mezzo. Lo sapeva. Sesshomaru se la sarebbe presa
con lui.
Due sere prima, dopo che la
ragazza era entrata sconvolta nell’hokora,
l’youkai gli aveva ordinato
di procurargli un kimono da donna. Per Alessandra. E di darglielo.
“Perché?” aveva osato chiedere il
demonietto. Non era normale
per il suo padrone mostrarsi gentile e premuroso verso qualcuno che non fosse Rin. E poi, visto che la ragazza se ne sarebbe
andata presto, che senso aveva procurarle un kimono caldo e avvolgente, ideale
contro la neve e il freddo? Perché su questo Sesshomaru era stato chiaro. Doveva essere adatto a
viaggiare durante l’inverno. Della stoffa migliore e più pregiata.
“Verrà con noi”.
Risposta spiazzante. Jacken non riusciva proprio più a
capire il suo signore. Non più una sola umana, ma due nel suo seguito. Nel
seguito del Signore delle Terre dell’Ovest. Nel seguito del demone che odiava
gli umani. Di un odio profondo. Viscerale.
Ed ora, eccolo lì, il prezioso
kimono. Tagliato e cucito fino a ridurlo alle dimensioni di una bambina. Fino a
renderlo perfettamente indossabile a Rin.
Sesshomaru si sarebbe
arrabbiato. Di certo. Lui aveva provato a fermarla; le aveva spiegato che era
un regalo per lei. Si era inventato la scusa che il suo padrone gli aveva
ordinato di darglielo per ringraziarla per le sue cure.
“Sai, il padrone non dice mai
grazie. Non è da lui farlo.”
Mentire. Per convincerla a
prenderlo. Perché Sesshomaru
era stato chiaro. Lei non doveva sapere che lui la voleva con sé. Non ancora.
Ed ora, il kimono era diventato
di Rin. Alessandra lo aveva
preso, certo. Per poi subito mettersi a lavorarlo e adattarlo. E ora la bimba
saltellava felice per la stanza, drappeggiata di stoffa calda e preziosa. Drappeggiata
come una principessa.
“Jacken! Jacken!
Come mi sta? Bene?”
Il demonietto la squadrò critico e poi gracchiò
affermativamente, con quella sua voce stridula che fece ancor più contenta Rin. Alessandra aveva fatto
proprio un buon lavoro. Davvero notevole. Non sembrava neanche che fosse mai
stato un kimono da donna.
“Grazie Ale-chan! È davvero bellissimo! Ma perché non lo hai
tenuto tu? Il signor Sesshomaru
aveva detto a Jacken che
era per te!”. Beata innocenza. Pura. Cristallina.
Alessandra le sorrise, mentre riponeva aghi e fili nella scatoletta di
latta. Lei non voleva nulla da Sesshomaru.
Niente. Aveva curato Rin
perché lo aveva voluto. Perché non era giusto che, a causa di un demone
insensibile, una bambina ci rimettesse. L’aveva curata per illudersi di star
vivendo una seconda opportunità. Per dimostrare a se stessa che le poche
conoscenze mediche apprese sbirciando ripassi e giocando al dottore da piccola
non erano perse. Che non le avrebbe mai perse. In fondo, era figlia di un
medico. Di uno dei migliori.
“A me non serviva. È più utile a
te. Ti eviterà altri malanni.”
Lo aveva usato come aveva
ritenuto più giusto. Per la piccola. Perché qualcosa dentro le aveva detto di non fidarsi. Perché non voleva più
fidarsi. Di nessuno. Perché era un dono. E un dono significa sempre qualcosa.
Ci si aspetta qualcosa in cambio. E lei non voleva aver più niente a che fare
con Sesshomaru. Niente.
Graffi rosa. Pelle appena
rimarginata. Non le faceva male fisicamente. Le faceva male dentro. Nell’anima.
L’aveva toccata. Stretta al polso. E attirata a sé. Un errore. Un
maledettissimo errore. Non era stata abbastanza attenta. E lui l’aveva toccata.
Odiava essere toccata. Odiava il contatto fisico. L’odiava. Ormai da due anni.
Forse era il risultato di tutti quegli abbracci falsi che aveva dovuto
sopportare. Di tutte quelle mani compassionevoli, che avrebbe piuttosto
preferito allontanare con uno schiaffo. E che invece aveva dovuto stringere. Ma
senza sorridere. Anche se il galateo avrebbe imposto almeno un sorriso
sforzato. Di finta gratitudine. Ma lei niente. Di pietra. Come una statua.
Senza sentimenti. Senz’anima. La sua anima era volata via con tre persone…
“Ti sei tagliata?” Rin fissava il suo polso. Senza
rendersene conto, aveva scoperto i graffi e Rin li aveva notati.
“No. È stato…”.
Alessandra si fermò. Poteva
dirglielo? Dire a quella bambina che a farglieli era stato il suo signore, la
persona che più amava al mondo? No. Non poteva. Sarebbe stato come dirgli che
lui non la voleva più. Sarebbe stato come distruggere un mito, una certezza.
“…un incidente.”
Mentire. Di nuovo. Per non far
conoscere anche a Rin il
sapore odioso della delusione. Di sentirsi abbandonati. Di vedersi allontanare.
Da chi si credeva amici. Mentire per non ferire. Per nascondere una realtà che
sarebbe emersa prima o poi, forse più devastante.
Sesshomaru…Perché
continuava a costringerla a mentire? Perché doveva sporcarla, farle toccare il
fondo del suo disgusto, equipararla a quella gente che lei tanto disprezzava?
Mentire. Mentire. Per coprirlo. Involontariamente. Per non far soffrire Rin. Come aveva sofferto lei.
Quando i suoi carissimi amici l’avevano abbandonata. Nella difficoltà. Nel
bisogno. In fondo, pensò Alessandra, Sesshomaru
non si meritava il suo aiuto. La sua copertura. Non era stato diverso dai suoi
vecchi compagni. Anche lui se ne era andato
quando Rn era
stata male. Se ne era disinteressato. No. Non si meritava il suo aiuto.
Però, non
riusciva a negarglielo.
“Signor Sesshoamru! Guardi Rin! Sta bene?”
La bambina
corse in contro all’youkai,
fermo nel grande prato coperto di neve. Era felice. Felice di rivederlo. Felice
di potergli regalare il suo sorriso. Felice di essere di nuovo all’aria aperta.
Accanto a lui.
Sesshomaru
girò appena il capo, come infastidito dall’interruzione. Ma in fondo era
contento di sentire di nuovo la voce allegra della bambina. Di venirne disturbato.
Disturbo.
Qualcosa lo disturbava. L’abito. Il kimono che Rin indossava era quello che aveva fatto dare
all’umana. Perché ora era addosso a Rin?
Assottigliò gli occhi. Contrariato. Ma poi accennò appena con la testa, in
senso affermativo. Non poteva deluderla. La luce che si accese nello sguardo di
Rin gli attraversò il
cuore. Era contenta. Per niente. Solo perché lui aveva annuito. Non l’avrebbe
mai capita. Come non l’aveva capita quando
si ostinava a curarlo un anno prima. Senza paura, solo con un po’ di timore.
Paura e
timore…Qualcosa che gli occhi della ragazza che usciva dall’hokora non conoscevano.
“Domani
partiamo”. Rin annuì e
corse via, contenta di potersi rotolare nella neve e scherzare con Ah-Un. Sì. Era guarita.
Sesshomaru
fulminò Jacken appena
sopraggiunto. Non gli era piaciuta la sorpresa. Proprio per niente. Il kimono
non era per la bambina. Ma per l’umana. Per conquistarne un po’ di gratitudine.
Per vedere se si sarebbe ammorbidita.
Il demoniatto scosse la testa. Non
era colpa sua. Lui ci aveva provato. Era lei ad essere cocciuta: non lo aveva voluto. E adesso
sedeva fuori dal tempio avvolta
solo dal suo pesante maglione. Nero. Quello di sempre.
Non l’aveva
più avvicinata. Dopo quella sera in cui l’aveva graffiata, anche se
involontariamente, non le si era
più accostato. Era tornato all’hokora
più di una volta; entrandovi anche. Per vedere Rin. Ma non le aveva più rivolto la parola e sempre
lei gli si allontanava come se temesse di scottarsi.
Però si erano
guardati ancora. Si erano smarriti a vicenda nelle loro iridi. In quegli
sguardi freddi e distanti. In quegli sguardi cangianti. Simili e diversi.
Inebrianti. L’aveva fissata ancora. E non aveva mai trovato paura. Mai. Quegli
occhi gli erano sfuggiti una
sola volta. Una sola. L’unica in cui davvero avrebbe voluto poterli guardare.