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Autore: avalon9    17/12/2006    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 9

CAPITOLO 9

SCHEGGIE DI MEMORIA

Prima parte

 

 

Ale-chan! Cosa sono questi?”

 

Per Rin, lo zaino di Alessandra era una sorpresa continua. Una scatola magica. Da cui estraeva le cose più strane. Particolari. Un diversivo piacevole, visto che non le permettevano ancora di uscire, anche se lei ormai si sentiva bene e scalpitava per tornare all’aria aperta. A giocare.

 

Alessandra sollevò gli occhi dalla stoffa che aveva in grembo. La bimba stringeva in mano un paio di calzature un po’ particolari, con sotto la suola una lama lucente. Sorrise. Era a causa loro che lei si trovava lì in quel momento. Era a causa loro che Rin si era salvata.

 

“Pattini”.

 

Riabbassò gli occhi. Esenziale come sempre. Rin ci aveva fatto presto l’abitudine a questo suo strano modo di esprimersi. Parlava davvero poco, come il signor Sesshomaru. Però con lei aveva sempre una bella voce. E le raccontava cose incantevoli. Storie che lei non aveva mai sentito e di luoghi che non aveva mai visto. Forse il suo signore li aveva visitati. Lui aveva viaggiato molto…

 

Rin guardò di nuovo le strane calzature, sfiorandole con la mano. Le posò a terra. Pesavano un po’. E lei non era ancora del tutto in forze, anche se cercava sempre di persuadere Jacken a farla uscire. L’hokora non faceva per lei. Le stava stretta. Ormai, non era più abituata a vivere fra le pareti di una casa. Ormai era diventata una piccola zingara. Sempre in movimento. Costantemente. Libera. Libera come il suo signore. Libera di seguire lui. Sempre.

 

Alessandra le fece un cenno e Rin le si avvicinò, continuando a fissarla con occhi pieni di domande. Faceva così. La fissava. E sapeva che prima o dopo la ragazza avrebbe soddisfatto la sua curiosità. Non come faceva Sesshomaru. Lui non rispondeva mai. Si limitava a ricambiare lo sguardo, qualche rara volta. Ma non spiegava mai nulla. A nessuno.

 

“I pattini servono per stare in piedi sul ghiaccio e correrci sopra. È come danzare”.

 

Alessandra aveva fatto indossare alla bimba un kimono che Jacken le aveva portato e ora stava cercando di adattarlo al corpicino minuto di Rin. Era un kimono molto pesante. Ideale contro quel freddo. E lei aveva deciso di renderlo una scempie di cappotto per la bambina, così da evitarle di prendersi un nuovo malanno. Il suo kimono era troppo leggero per quella stagione. Anche se la bambina non sembrava soffrire il freddo.

 

In disparte, Jacken osservava contrariato la scena. Quell’umana aveva di nuovo voluto fare di testa sua. E lui ci sarebbe andato di mezzo. Lo sapeva. Sesshomaru se la sarebbe presa con lui.

 

Due sere prima, dopo che la ragazza era entrata sconvolta nell’hokora, l’youkai gli aveva ordinato di procurargli un kimono da donna. Per Alessandra. E di darglielo.

 

“Perché?” aveva osato chiedere il demonietto. Non era normale per il suo padrone mostrarsi gentile e premuroso verso qualcuno che non fosse Rin. E poi, visto che la ragazza se ne sarebbe andata presto, che senso aveva procurarle un kimono caldo e avvolgente, ideale contro la neve e il freddo? Perché su questo Sesshomaru era stato chiaro. Doveva essere adatto a viaggiare durante l’inverno. Della stoffa migliore e più pregiata.

 

“Verrà con noi”.

 

Risposta spiazzante. Jacken non riusciva proprio più a capire il suo signore. Non più una sola umana, ma due nel suo seguito. Nel seguito del Signore delle Terre dell’Ovest. Nel seguito del demone che odiava gli umani. Di un odio profondo. Viscerale.

 

Ed ora, eccolo lì, il prezioso kimono. Tagliato e cucito fino a ridurlo alle dimensioni di una bambina. Fino a renderlo perfettamente indossabile a Rin. Sesshomaru si sarebbe arrabbiato. Di certo. Lui aveva provato a fermarla; le aveva spiegato che era un regalo per lei. Si era inventato la scusa che il suo padrone gli aveva ordinato di darglielo per ringraziarla per le sue cure.

 

“Sai, il padrone non dice mai grazie. Non è da lui farlo.”

 

Mentire. Per convincerla a prenderlo. Perché Sesshomaru era stato chiaro. Lei non doveva sapere che lui la voleva con sé. Non ancora.

Ed ora, il kimono era diventato di Rin. Alessandra lo aveva preso, certo. Per poi subito mettersi a lavorarlo e adattarlo. E ora la bimba saltellava felice per la stanza, drappeggiata di stoffa calda e preziosa. Drappeggiata come una principessa.

 

Jacken! Jacken! Come mi sta? Bene?”

 

Il demonietto la squadrò critico e poi gracchiò affermativamente, con quella sua voce stridula che fece ancor più contenta Rin. Alessandra aveva fatto proprio un buon lavoro. Davvero notevole. Non sembrava neanche che fosse mai stato un kimono da donna.

 

“Grazie Ale-chan! È davvero bellissimo! Ma perché non lo hai tenuto tu? Il signor Sesshomaru aveva detto a Jacken che era per te!”. Beata innocenza. Pura. Cristallina.

 

Alessandra le sorrise, mentre riponeva aghi e fili nella scatoletta di latta. Lei non voleva nulla da Sesshomaru. Niente. Aveva curato Rin perché lo aveva voluto. Perché non era giusto che, a causa di un demone insensibile, una bambina ci rimettesse. L’aveva curata per illudersi di star vivendo una seconda opportunità. Per dimostrare a se stessa che le poche conoscenze mediche apprese sbirciando ripassi e giocando al dottore da piccola non erano perse. Che non le avrebbe mai perse. In fondo, era figlia di un medico. Di uno dei migliori.

 

“A me non serviva. È più utile a te. Ti eviterà altri malanni.

 

Lo aveva usato come aveva ritenuto più giusto. Per la piccola. Perché qualcosa dentro le aveva detto di non fidarsi. Perché non voleva più fidarsi. Di nessuno. Perché era un dono. E un dono significa sempre qualcosa. Ci si aspetta qualcosa in cambio. E lei non voleva aver più niente a che fare con Sesshomaru. Niente.

 

Graffi rosa. Pelle appena rimarginata. Non le faceva male fisicamente. Le faceva male dentro. Nell’anima. L’aveva toccata. Stretta al polso. E attirata a sé. Un errore. Un maledettissimo errore. Non era stata abbastanza attenta. E lui l’aveva toccata. Odiava essere toccata. Odiava il contatto fisico. L’odiava. Ormai da due anni. Forse era il risultato di tutti quegli abbracci falsi che aveva dovuto sopportare. Di tutte quelle mani compassionevoli, che avrebbe piuttosto preferito allontanare con uno schiaffo. E che invece aveva dovuto stringere. Ma senza sorridere. Anche se il galateo avrebbe imposto almeno un sorriso sforzato. Di finta gratitudine. Ma lei niente. Di pietra. Come una statua. Senza sentimenti. Senz’anima. La sua anima era volata via con tre persone…

 

“Ti sei tagliata?” Rin fissava il suo polso. Senza rendersene conto, aveva scoperto i graffi e Rin li aveva notati.

 

“No. È stato…”.

 

Alessandra si fermò. Poteva dirglielo? Dire a quella bambina che a farglieli era stato il suo signore, la persona che più amava al mondo? No. Non poteva. Sarebbe stato come dirgli che lui non la voleva più. Sarebbe stato come distruggere un mito, una certezza.

 

“…un incidente.”

 

Mentire. Di nuovo. Per non far conoscere anche a Rin il sapore odioso della delusione. Di sentirsi abbandonati. Di vedersi allontanare. Da chi si credeva amici. Mentire per non ferire. Per nascondere una realtà che sarebbe emersa prima o poi, forse più devastante.

 

Sesshomaru…Perché continuava a costringerla a mentire? Perché doveva sporcarla, farle toccare il fondo del suo disgusto, equipararla a quella gente che lei tanto disprezzava? Mentire. Mentire. Per coprirlo. Involontariamente. Per non far soffrire Rin. Come aveva sofferto lei. Quando i suoi carissimi amici l’avevano abbandonata. Nella difficoltà. Nel bisogno. In fondo, pensò Alessandra, Sesshomaru non si meritava il suo aiuto. La sua copertura. Non era stato diverso dai suoi vecchi compagni. Anche lui se ne era andato quando Rn era stata male. Se ne era disinteressato. No. Non si meritava il suo aiuto.

 

Però, non riusciva a negarglielo.

 

 

 

 

“Signor Sesshoamru! Guardi Rin! Sta bene?”

 

La bambina corse in contro all’youkai, fermo nel grande prato coperto di neve. Era felice. Felice di rivederlo. Felice di potergli regalare il suo sorriso. Felice di essere di nuovo all’aria aperta. Accanto a lui.

 

Sesshomaru girò appena il capo, come infastidito dall’interruzione. Ma in fondo era contento di sentire di nuovo la voce allegra della bambina. Di venirne disturbato.

 

Disturbo. Qualcosa lo disturbava. L’abito. Il kimono che Rin indossava era quello che aveva fatto dare all’umana. Perché ora era addosso a Rin? Assottigliò gli occhi. Contrariato. Ma poi accennò appena con la testa, in senso affermativo. Non poteva deluderla. La luce che si accese nello sguardo di Rin gli attraversò il cuore. Era contenta. Per niente. Solo perché lui aveva annuito. Non l’avrebbe mai capita. Come non l’aveva capita quando si ostinava a curarlo un anno prima. Senza paura, solo con un po’ di timore.

 

Paura e timore…Qualcosa che gli occhi della ragazza che usciva dall’hokora non conoscevano.

 

“Domani partiamo”. Rin annuì e corse via, contenta di potersi rotolare nella neve e scherzare con Ah-Un. Sì. Era guarita.

 

Sesshomaru fulminò Jacken appena sopraggiunto. Non gli era piaciuta la sorpresa. Proprio per niente. Il kimono non era per la bambina. Ma per l’umana. Per conquistarne un po’ di gratitudine. Per vedere se si sarebbe ammorbidita.

 

Il demoniatto scosse la testa. Non era colpa sua. Lui ci aveva provato. Era lei ad essere cocciuta: non lo aveva voluto. E adesso sedeva fuori dal tempio avvolta solo dal suo pesante maglione. Nero. Quello di sempre.

 

Non l’aveva più avvicinata. Dopo quella sera in cui l’aveva graffiata, anche se involontariamente, non le si era più accostato. Era tornato all’hokora più di una volta; entrandovi anche. Per vedere Rin. Ma non le aveva più rivolto la parola e sempre lei gli si allontanava come se temesse di scottarsi.

 

Però si erano guardati ancora. Si erano smarriti a vicenda nelle loro iridi. In quegli sguardi freddi e distanti. In quegli sguardi cangianti. Simili e diversi. Inebrianti. L’aveva fissata ancora. E non aveva mai trovato paura. Mai. Quegli occhi gli erano sfuggiti una sola volta. Una sola. L’unica in cui davvero avrebbe voluto poterli guardare.

 

  
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