Avvertimenti:
Ambientazione storica, AU!
Raiting:
Verde.
Personaggi:
Toris Laurinaitis, Gilbert Beilschmidt.
4. Sotto la pelle.
Gilbert Beilschmidt, nell’anno 1953, era l’unico
bambino che il reparto
pediatrico dell’ospedale di Kalisz ospitava.
Fu quindi una sorpresa, in un giorno di marzo, veder entrare nella sua
piccola
e ingiallita stanza un’infermiera e, dietro di lei, una
figura che le arrivava
alla vita, maschile, e con un viso pallido dove spiccava un occhio blu.
Uno solo.
« Lui è Toris. Da oggi sarà il tuo
compagno di stanza, trattalo bene, mh? »
Lo sapeva chi era, riconosceva quel visetto angelico anche se coperto
da bende
su quasi tutto il lato sinistro. Toris veniva dal suo stesso
orfanatrofio, un
postaccio nascosto tra dei bei giardini in cui i tipi come lui erano i
primi a
venir presi di mira
dagli altri orfani,
quelli più rudi e che venivano picchiati dalle maestre.
Anche Gilbert faceva parte di quel gruppo e anche Gilbert, una volta,
se non
tre o quattro, aveva messo le mani addosso a quell’esserino
dai capelli castani
e quell’unico occhio dallo sguardo timido solo per il piacere
di farlo. Per sfogarsi di ciò che
veniva fatto a lui.
“Toris ha avuto un trauma cranico. Al momento non si ricorda
nulla, quindi non
fare l’idiota come al solito”.
Gli aveva detto l’infermiera, spingendo poi
il ragazzino- dieci anni, più o meno, come lui-
verso quell’unico grande
letto che dovevano condividere.
L’occhio destro di Toris l’aveva guardato come si
guardava uno sconosciuto e
Gilbert, dentro di sé, aveva provato vergogna.
«
Come ti chiami? »
Gli chiese, dopo tre giorni di silenzio imbarazzante e
“Buongiorno” balbettati.
Gilbert lo guardò qualche secondo, il tempo necessario a
ricordare il pugno che
gli aveva dato sullo sterno e sentire la gola seccarsi.
« Hans. Io mi chiamo
Hans. »
Mentì.
Quella fu, però, l’ultima bugia che gli
disse.
Protetto dalla totale assenza di memoria temporanea del castano, i due non tardarono
a diventare
amici.
Toris era una persona gentile, accettava di fare qualunque cosa e
reagiva
lamentandosi e, qualche volta, “picchiandolo” solo
quando gli scherzi del nuovo
amico si facevano esagerati.
Ma, cosa più importante, accettava di giocare solo e
unicamente dentro quella
stanza dalle tende sempre e costantemente chiuse.
Gilbert era nato con i capelli bianchi e gli occhi rossi, stranezze che
però
nessuno gli faceva notare, se metteva tutto bene in chiaro con un paio
di
cazzotti; il vero problema era quella pelle così
sottile da venir corrosa dal sole.
Per questo che era stato spedito dall’orfanatrofio, dove
avevano visto come
una benedizione il liberarsi da un problema simile, in
quell’ospedale scarno
che non poteva dargli altra cura oltre al buio.
Toris, in quei tre mesi in cui rimase
lì,
fu una luce. L’unica e benefica.
«
Per quanto devi rimanere qui, Hans? »
Gli aveva chiesto, una notte in cui non riuscivano a dormire, nel buio della camera.
« Per sempre, credo. Quelle acide delle infermiere non lo
dicono chiaramente.
Sono tutti degli incapaci. »
« Non dire così. »
« Tu non hai problemi, tu potrai uscire, tra poco. »
« Io non voglio uscire. Non voglio tornare lì.
»
Gilbert scattò, volgendo gli occhi rossi, nel buio, su
Toris, nascosto
completamente sotto le coperte.
« Tu…? »
« Non mi hanno picchiato gli altri bambini. Ma non dirlo, per
favore. »
L’albino rimase immobile più tempo, per poi
stendersi nuovamente, la schiena
contro quella dell’altro.
Per un’ora nessuno dei bambini parlò.
« Toris. »
« Sì? »
« Io non mi chiamo Hans. »
« Lo so, Gilbert. »
Toris fu dimesso dopo tre settimane da quel fatto, quando
l’ematoma che prima
le bende coprivano divenne solo una macchietta e entrambi i suoi occhi
blu
tornarono visibili. Che
la sua amnesia
era cessata dopo una sola settimana dentro l’ospedale,
però, solo Gilbert lo
sapeva.
Adesso che aveva ventisei anni, ricordava ancora il modo in cui Toris,
il
giorno in cui l’avevano dimesso, mentre una delle maestre
parlava con la loro
infermiera, gli aveva stretto le mani e aveva sorriso, nonostante
stesse
tremando dalla paura e ogni parte di lui gridasse di non voler andar
via.
Ricordava, soprattutto, la promessa che gli aveva fatto:
“ Tornerò, Gilbert. Ti porterò via
di qui, te lo prometto! “
Lui gli aveva detto di non preoccuparsi, anzi, di pensare prima a
uscire dall'orfanatrofio
che a lui, ma dentro di sé aveva anche accettato quella
promessa.
La speranza era salita
ancora di più
quando, a quindici anni, aveva visto sulla prima pagina di un giornale
un
articolo sulla chiusura immediata del suo vecchio orfanatrofio e
l’arresto dei
docenti, indagati sotto l’accusa di violenze ai minori.
Al centro della pagina, in grande, stava la foto del ragazzo che aveva
denunciato
il fatto: certo, il viso era più squadrato, ma gli occhi
toglievano ogni dubbio.
Teneva ancor quel giornale, invecchiato insieme a lui, che adesso
misurava un
metro e settantacinque di statura e stava stretto nel letto che prima
li
ospitava entrambi. Era magro, tanto che se si stiracchiava, ogni
costola
premeva immediatamente su quella pelle.
Il carattere, però, era rimasto lo stesso, se non
peggiorato, così come le
cicatrici.
Quel giorno gli veniva annunciato da quasi due mesi: nemmeno si
trattasse del
salvatore, un nuovo medico sarebbe arrivato a trattare il suo caso.
L’ennesimo
ciarlatano, pensava lui.
“Ed è pure in ritardo. “
Non fece in tempo a sbuffare, che la sua infermiera, la stessa di
quando era
bambino, ma con più rughe, apparve alla porta; dietro di
lei, stava un camice
bianco di un metro e ottantadue circa.
« Il medico è qui. »
Gilbert, annoiato, non notò il suo sorriso e nemmeno
ascoltò la voce dell’uomo
che ringraziava.
Si accorse che la luce era tornata nel suo studio solo quando un
sorriso e un
paio di occhi azzurri si mostrarono ai suoi.
« Ciao, Gilbert. »
Toris era alto e con i capelli un po’ lunghi, legati in un
codino. Aveva lo
stesso sorriso gentile di sempre, ma sottomano teneva una cartella
medica.
Sentendo gli occhi rossi di Gilbert fissarlo, il giovane
arrossì e, senza
chiedere nulla, forse nel panico o troppo emozionato, prese a parlare
velocemente.
« Ti ricordi…? Beh, sono passati un mucchio di
anni, ma… Sono Toris, il
ragazzino dell’orfanatrofio. Ci sono uscito di lì,
mi hanno adottato.
I miei nuovi genitori sono
di buona
famiglia, quindi ho potuto studiare e mi sono laureato. Medicina,
apparato
tegumentario, malattie della pelle e genetiche.
Ho studiato tanto l’albinismo e… Beh, credo che
riuscirò a curarti, almeno per
ciò che riguarda la tua derma. Agiremo piano piano, tramite
cortisone, e ti
riabituerò al sole… Dovremmo spostarci, partiremo
per Oslo, dove il sole
picchia poco. Vedrai che non dovrai più stare chiuso in una
stanza! »
« … Ti sei ricordato la
promessa. »
Toris arrossì ancora di più e a Gilbert
sembrò tornato il bambino impaurito che
conosceva. Il giovane medico si sedé su quel letto,
sorridendo.
« Non me ne sono mai dimenticato. »
Gilbert rise piano,
nemmeno il lituano avesse detto un
battuta, e posò sulla palma delle mani la guancia. Sentiva
il cuore battere un
poco più forte, dal polso.
Ancora non lo
sapeva bene, ma Toris non avrebbe guarito solo la sua pelle, ma
anche ciò che si trovava sotto essa.
«
Sei rimasto il solito, Toris. Anche se sei cresciuto, hai sempre la
solita
faccia da scemo! »
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... Beh, questo
è diverso dagli altri.
L'ho scritto di fretta e furia con mio padre che russa
-presente, perché sta continuando- ,
chiedo perdono!
Come
sempre ringrazio lettori e commentatori, nella speranza che ce ne siano!
Baci!
Valkyrie.