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Autore: MaTiSsE    31/05/2012    9 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Piovre sotto pelle by Matisse - Valentina Antignani is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.
Based on a work at http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1089188&i=1.



 

 

"Una piovra? Afferrò il coltello, aperse gli occhi, era un sogno.
La piovra era lì, lo succhiava con le sue ventose: il caldo.
Sudava. Si era addormentato verso l'una,
alle due il caldo l'aveva svegliato,
si era tuffato in un bagno freddo,
poi ricoricato senza asciugarsi;
subito dopo il fuoco s'era rimesso a soffiargli sotto la pelle,
aveva ricominciato a sudare. All'alba si era addormentato,
aveva sognato un incendio; adesso il sole
era certamentegià alto, e Gomez sudava sempre:
sudava senza requie da quarantotto ore.
«Dio buono!» sospirò, passandosi la mano umida sul petto bagnato.
Questo non era calore, era una malattia dell'atmosfera:
l'aria aveva la febbre, l'aria sudava, si sudava nel sudore."

J.P Sartre




 




Roberto Kusterle












Poiché faticavo a comprendere tutto quel suo entusiasmo che mi sapeva un po’ di fanatismo da adolescente, un giorno Romina – la mia migliore amica – si stancò e, decisa a farmi cambiare idea, mi trascinò a La Piovra con l’inganno, promettendo di finire al posto mio la nostra ricerca sul trasformismo politico attuato da Depretis.
Alla fine, per quanto riluttante, mi arrischiai ad accettare il patto: ero troppo impegnata con mille compiti e attività extrascolastiche per perdermi una simile occasione e così mi addentrai in quel luogo sconosciuto in un pomeriggio nuvoloso di metà aprile.
Strano a dirsi, La Piovra non era la discoteca più in voga del momento, né un baretto particolarmente “in” sul lungomare, bensì un umido e decisamente sudicio centro sociale, vero fulcro del fermento giovanile in città: ogni giorno decine di ragazzi si spostavano anche da quartieri molto lontani per raggiungerlo. Non avevamo molti altri luoghi di ritrovo a nostra disposizione e La Piovra sembrava offrire la migliore possibilità per trascorrere il proprio tempo.
Per quel che ne sapevo, La Piovra aveva già alle spalle almeno un annetto di attività. Perlopiù si trattava di produzioni artistiche, mostre d’arte e di fotografia, laboratori creativi di pittura e scultura e concerti e  tanti concerti, dallo ska all’elettronica. Non era quindi un centro sociale particolarmente votato alla politica, sebbene una vistosa falce con martello accogliesse i visitatori all’entrata, chiarendone quasi subito le idee.
 
Per tutto il tempo che fu necessario per arrivarci, Romina non fece altro che  tessermi le lodi del luogo, ripetendomi fino alla nausea quanto quel posto fosse stato figo: il contesto era figo, la gente che c’era lì dentro era figa, gli eventi organizzati era fighi.
Odiavo l’aggettivo “figo”.
 
Appena feci ingresso lì dentro, la prima cosa che notai furono le pareti: apparivano già sporche, invase da manifesti e scritte di varie dimensioni, molto colorate. La tinta preferita era il rosso e lo slogan prediletto qualcosa di molto simile a “we’re underground”.
La trovavo una cosa un po’ scema, ma tant’è.
 
“Non è incredibile?” si ostinava a dire la mia amica, attendendo trepidante una mia reazione spropositata. Reazione che non arrivò poiché mi limitai, piuttosto, ad annuire studiando l’ambiente circostante: i faretti blu posizionati negli angoli, le tubature argentate che scintillavano sfacciate sotto il soffitto, i divanetti logori, una poltrona da dentista affossata e scucita, nascosta dietro un paravento. E poi la gente che andava e veniva, ragazzi dai capelli lunghi e crespi o belle adolescenti con la cresta e troppi tatuaggi sulle braccia. Gente sorridente, impegnata nel sociale, dedita all’arte e… al fancazzismo. Per intenderci: i ragazzi, là dentro, spesso ci stavano soltanto per perdere tempo e fumarsi una canna in santa pace.
In altre parole, prima di dichiararmi entusiasta quanto Romina, decisi di sondare per bene il terreno. E pure se mi fosse piaciuto non avrei sclerato di certo allo stesso modo suo: non ero mai stata tipo da effusioni rumorose in pubblico.

“Allora, ti spiego un po’ di cose.”

Romy partì  in quarta: lo capivo bene da come mi indicava posti e persone, con l’indice ben puntato e gli occhi scintillanti. Aveva quel faccino da pupazzetto scemo che stonava un po’ troppo con l’abbigliamento metallaro; qualcuno (che non fossi stata io) avrebbe dovuto spiegarle che per essere una tosta non bastava vestirsi in un certo modo.

“Quello lì giù, lo vedi? Quello con la cresta gialla e rossa? E’ Polska. Diciamo che è un po’ il capo, coordina tutte le attività, organizza eventi, gestisce il laboratorio di scultura. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti e tenuto  un sacco di mostre a Berlino, dove ha vissuto per un paio di anni. Insomma,  è uno che ne capisce. Pensa che ha programmato lui l’occupazione di questo posto, tutti gli altri l’hanno soltanto seguito.”
 
Ne parlava come un’innamorata.
Lo era, probabilmente.
Che poi, Polska, che nome era? A guardarlo con quella sua maglia sbrindellata, l’enorme simbolo anarchico tatuato sulla spalla sinistra e le mani ossute non mi sembrava neppure tanto interessante, quanto già visto. Eppure Romina lo guardava come un dio: mi decisi a darle corda.
 
“Polska?”
“Sì, è il suo soprannome.”
“Come si chiama veramente?”
“Fabrizio.”
“E perché Polska?”
Romina diede in un’alzata di spalle, rispondendo con fare ingenuo.
“Non lo so, sarà qualcosa che ha a che fare con la Russia comunista.”
“Uhm…”
“Non mi sembri molto convinta. Non ti piace La Piovra?”
“Ma sì, sì mi piace…” mi affrettai a risponderle non desiderando deludere le sue aspettative “E’ solo che è tutto nuovo, non sono mai stata in un centro sociale prima e devo abituarmi.”
“Meg, questo non è un centro sociale, è il centro sociale e te ne renderai conto presto. Ormai siamo fuori dagli oratori e dalle pesche di beneficenza da catechiste dove ci portavano le nostre mamme. La vita è nostra, la società è nostra. Quest’epoca ci appartiene e noi la stravolgeremo!”
Romina parlò da moderna Lenin, guardando un punto lontano: quando la seguii con lo sguardo compresi che quel punto corrispondeva esattamente all’apice della cresta multicolor di Polska ma non ne feci parola. Tutto sommato era divertente osservarla in questa sua nuova veste.
“Okay, okay, Che Guevara dei poveri. Ho capito. Partiamo dal principio allora, sono curiosa: cosa c’era prima della Piovra, qui?”
“Un edificio comunale in disuso. Ci tenevano la vecchia biblioteca che adesso sta a via Cavour.”
Fu la voce di un ragazzo a rispondermi, prima di infilarmi in mano un volantino color ocra.
“Lo so, lo so, è una tonalità di merda. Giangi si è offerto di stamparli in tipografia dallo zio, dovevano essere gialli e invece li ha fatti venir fuori così…”
 
Ma chi cavolo era sto Giangi?
E che speranze di vita poteva avere un tipo che di nome faceva Giangi?
 
“Steeeena! Ciao!”
Romy si affrettò ad abbracciare il nuovo arrivato con calore, come se si fosse trattato di un amico di vecchia data; in realtà, ero certa non lo conoscesse da più di un mese.
“Ciao Rò! Hai portato un’amica, brava. Io sono Stefano però mi chiamano tutti Stena. Piacere.”
Il tipo in questione mi allungò la mano, ossuta quanto quella del famigerato Polska: con molte probabilità mangiare non rientrava tra le attività predilette dei membri de La Piovra. Guardai curiosa ai suoi lunghi rasta biondi prima di ricambiare.
“Margherita…”
“Puoi chiamarla Meg però, se ti va…”
Fulminai Romina con lo sguardo: da quando dava il permesso agli sconosciuti di entrare in confidenza con me?
“Ma ceeeeeerto! Benvenuta Meg, ti troverai come a casa! Anzi, meglio che a casa visto che se ti fumi una canna qui dentro nessuno ti romperà i coglioni… al massimo ce la passiamo!”
 
Rise. Pensava di apparire divertente.
Alzai il sopracciglio destro con aria diffidente.
 
“Allora, programma della settimana…”
Non si perse d’animo, il ragazzo, davanti alla mia tiepida reazione. Piuttosto, piantò l’indice sul manifesto che mi aveva infilato tra le mani, troppo preso dalla sua spiegazione.
“Sabato sera c’è un graaaaandioso reggae party!” calcò molto sull’aggettivo grandioso, lasciando intendere che fosse qualcosa cui certamente fosse un’eresia mancare.
“Reggae party?”
“Già! Hai presente? Dub, reggae, se ci riesce anche un po’ di ska e…”
“No, no, no! Questo l’avevo capito. Intendevo: ero certa che qui passasse solo musica elettronica, da come avete decorato l’ambiente pensavo la facesse da padrone. Che c’entra ora il reggae?”
“Ma no! Qua siamo tutti fratelli, Meg, si accontentano i gusti di ognuno di noi…”
 
Tutti fratelli?
Ma chi ti conosce?
 
“Ogni giorno della settimana una festa diversa! Così non si scontenta nessuno!”
“Ma voi non studiate mai?” risposi di rimando.
Romina mi tirò per la manica della camicia, già pronta a prendermi da parte e rimproverarmi la mia solita acidità. Non le andava di far cattiva figura portandosi a spasso un’amica poco disposta alla chiacchiera o alla carineria ma io non ero di quelle che le mandavano a dire e trovavo giusto esprimere sinceramente le mie opinioni. Del resto, i centri sociali non servivano forse anche a questo?
In ogni caso Stefano, Stena o come cazzo si chiamava lui, non sembrò offendersi e piuttosto continuò ancora a parlare con interesse. A voler essere gentili era un chiacchierone; a dirla in maniera infima non sputava per terra un minuto.
“Ah ma allora sei tipo una letterata te! Ho quello che fa al caso tuo: una mostra fotografica, domani pomeriggio! Che dici?”
Evitai di fargli presente che tra la letteratura e la fotografia c’era una sottile differenza.
“Ecco…”
“Chi è il fotografo?”
“Il Genio.”
Romina fece una faccia sorpresa.
“No! Non ci credo, l’avete convinto? Sarà una mostra fighissima…”
 
Fighissima. Di nuovo.
 
“…Genio è un talento nato!”
“Lo penso anche io! Vedi…”
Stefano riprese a parlare e io mi tappai le orecchie quasi subito: era fin troppo logorroico per i miei gusti. Avrebbe anche potuto dirmi di scappare perché c’era una bomba nell’edificio: non l’avrei ascoltato in ogni caso, in quel momento.
Mi voltai attorno, quindi, un po’ annoiata e senza sapere esattamente cosa fare ma con l’assoluta necessità di staccare dalla voce entusiasta e fastidiosa di Stena. Non vedevo l’ora di tornare a casa; quel posto, per quanto mi riguardava, brulicava di pazzi.
Fu così che lo trovai, mentre scandagliavo l’ambiente circostante: poggiato a una colonna grigiastra e ammuffita, intento a fumare una sigaretta. La cresta viola, non molto alta, i jeans stretti e neri, un paio di anfibi quasi troppo grandi e le braccia nude e tatuate. Tatuaggi di ogni forma e misura, tutti colorati: il massimo che mi riuscì di individuare tra essi fu un teschio e un’ancora che spuntava tra due rose rosse.
Niente di sobrio, lo ammetto, eppure tutti quei ghirigori sulla pelle possedevano un fascino particolare.
Non avrei saputo dire con precisione cosa mi avesse colpito di lui (perché qualcosa mi aveva colpito, era chiaro). Non vestiva in maniera differente da tutti gli altri, per quanto non risultasse in ogni caso per nulla convenzionale. Ma stava proprio qui il problema: la stravaganza ostentata, l’eccesso mostrato sotto forma di piercing e chiome colorate, tutto di quella gente diceva “guardatemi, io esisto e sono qui”, come se per essere parte di quello e di tutti gli altri centri sociali del mondo fosse indispensabile indossare un certo tipo di abiti. Seguire uno standard che per me aveva del ridicolo.
Tuttavia su di lui né la canotta scura e scucita, né tutto quel metallo né il colore atipico dei capelli sembravano stonare. Non lo rendevano un tipo stravagante come gli altri ma, paradossalmente, un individuo quasi anonimo. Sembrava usasse quei vestiti per mimetizzarsi e nascondersi tra decine di persone conciate allo stesso modo ed era chiaro che attirare l’attenzione non rientrasse nelle sue necessità: non si guardava attorno, lo sguardo vagava da una parte all’altra senza cercare riscontro e aveva proprio l’aria di qualcuno che si stava annoiando. Che si stava davvero annoiando.
Sì, forse fu proprio  questo a colpirmi: il suo disinteresse. Ma non solo: quel tipo mai visto prima aveva un’aria terribilmente familiare. Come se nella nostra totale estraneità avessimo condiviso giorni pieni di parole. Non seppi dire come questo fosse possibile.
Quando si girò, squadrandomi con due occhi grigi e inquietanti, mi voltai subito imbarazzata, convinta di esser stata colta nel momento vergognoso in cui lo guardavo a bocca spalancata. In realtà, dopo una frazione di secondo, compresi bene che il giovanotto in questione neppure avesse fatto caso a me. Ruotò lo sguardo sull’intera sala prima di tornare a fissare il vuoto.
 
“Allora ci vediamo?”
“Eh?”
“Ehi! L’ambiente ti ha distratto, vero? Lo so, lo so, questo posto incanta! Beh, ragazze adesso vado, ho un po’ di sana propaganda da fare. Mi raccomando, conto sulla vostra presenza!”
Guardai Stena allontanarsi, inebetita: non ci aveva dato neppure tempo di salutarlo, nella furia di andare a riempire di chiacchiere la testa altrui. Stravolta mi voltai di nuovo verso la colonna alle mie spalle: lui non c’era più. Faticai non poco per ritrovare la concentrazione e tornare a guardare la mia amica.
“Che… che ha detto?”
“Chi?”
“Il tipo lì…”
“Ah, Stena? Dice che ci aspetta per domani, pare che le foto siano sensazionali.”
“Uhmm” risposi poco convinta.
“Tu che hai, piuttosto? Ti vedo pensierosa…”
“Stavo guardando…” troncai la frase sul nascere. Temevo le reazioni di Romina: se le avessi parlato o chiesto qualsiasi informazione riguardo al tipo strano visto soltanto pochi minuti prima avrebbe potuto fraintendere. Avrebbe potuto credere che quel centro sociale avesse destato il mio interesse in un qualsiasi modo. Avrebbe potuto… ooh al diavolo!
Romina era la mia migliore amica da molto tempo: quattro onorati anni di telefonate, risate, pianti, sabati sera passati a mangiare patatine San Carlo davanti alla tv, pizzate di classe e litigi per contendersi l’attore del cuore. Mi sopportava da troppo tempo, me, le mie paranoie, e tutte le volte che non… Oh, insomma! Avrebbe significato pur qualcosa tutto questo, no? Dovevo imparare a fidarmi di più, ecco.
 
“Che c’è?” incalzò allora.
“Non lo vedo adesso in giro…” mormorai.
“Ma chi?!”
 
D’improvviso scorsi di nuovo la sua figura esile  aggirarsi rapida e nervosa dietro altre colonne, alle spalle di alcuni visitatori del centro.
Alle spalle di Romina.
Presi coraggio e mi decisi.
Lui. Chi è lui?”
Lo indicai stando bene attenta a non farmi notare, giusto in tempo perché anche Romina potesse vederlo prima che sparisse di nuovo, inghiottito dai corridoi della Piovra.
“Ah, Andrea! Ti piace?”
 
Ecco, subito. Neanche tempo di parlare.
Decisamente avrei continuato a non fidarmi ancora per molti anni.
 
“Non saltare a conclusioni affrettati, Romy! Ti ho chiesto solo chi sia, stop.”
Romina sorrise furbetta, lo sguardo compiaciuto di chi sappia più del dovuto. In realtà non sapeva un cazzo.
“Andrea Zenovi detto Zeno.”
“Ma qui se non vi affibbiate un soprannome non campate sereni?”
“Mamma mia, non essere pesante! Ci riconosciamo più facilmente! Sai quanti Andrea e Stefano ci sono in giro?”
“Vabbè, come non detto.”
“Un tipo interessante, vero?”
“Mmh.”
“Non rispondermi con questi mugolii indifferenti.  Se non ti piacesse non avresti chiesto.”
Sbuffai.
“Okay, è interessante. Va bene così?”
Annuì soddisfatta.
 
“E’ piuttosto ambito, piace davvero a un casino di ragazze qui dentro. Per esempio, c’è Luna…”
“Oh, per favore, non m’interessano le sue conquiste. A stento ne conosco il nome. Magari è pure il solito belloccio senza cervello…”
“Macché! Lui è il Genio!”
“Chi?”
“Oh, ma lo stavi ascoltando Stena prima oppure no?”
“Mica tanto. Parlava a raffica, a un certo punto ho sconnesso…”
 
Romina sbuffò, ridendo tuttavia sotto i baffi.
Sapeva che avevo ragione.
 
“Genio, il Genio. Domani tiene qui dentro la sua mostra fotografica…”
“Ah, sì, questo l’ho sentito! Ma non si chiamava Zeno?”
“Oh beh, sì, sarebbe Zeno, in principio l’idea era quella. Poi però una sera Caspio… lo conosci Caspio?”
Alzai gli occhi al cielo, spazientita.
“No, chi cavolo è adesso sto Caspio?”
“Alberto Casperini detto Caspio. Vabbè, comunque sia… una sera stavamo tutti qui, me compresa” calcò molto sulle ultime parole, fiera di poter mostrare di essere ormai parte della combriccola “e avevamo bevuto e pure un po’ fumato. Caspio stava strafattissimo, non avrebbe saputo dire manco il suo nome, per cui pronunciò Zenio anziché Zeno. E poi Zenio è diventato automaticamente Genio, in onore del suo cervello enorme e del suo talento artistico. Quindi puoi chiamarlo un po’ come ti pare, Andrea, Zeno, Genio. Io so soltanto che  fottutamente figo e che dovresti provarci.”
Toccò a me sbuffare stavolta. Ero anche piuttosto seria.
“Non ho intenzione di provarci proprio con nessuno, Romy. Smettila di vedere storie d’amore dove non ci sono. Neanche lo conosco.”
“Ma sei così bella! Se ti conoscesse non potrebbe mai dirti di no!” rispose convinta salutando un tipo poco distante, un ragazzetto dai capelli bruni e le braccia, manco a dirlo, cariche di volantini e cartelloni. Sembrava che le attività di propaganda e promozione fossero assolutamente vitali per quel centro sociale.
“Romina, basta guardare film romantici da quattro soldi! E riportami a casa adesso, per favore. Alle sei ho i ragazzi del doposcuola da seguire.”
“Ma ci verrai?”
“Dove?”
“Alla mostra!”
“No.”
“E daaaai! Ti prego! Ti prego, ti prego, ti prego!”

Sbuffai, alzando le spalle. La voglia di vedere più da vicino Andrea detto il Genio c’era e anche il desiderio di conoscere le sue foto, scoprire chi si celava dietro quella faccia da bello e dannato della situazione. La voglia di compiacere Romina un po’ meno. Ma non mi andava neppure di sentirla piagnucolare per tutto il tempo soltanto per cercare di convincermi. Di conseguenza acconsentii a una risposta diplomatica.
“Vedremo…” borbottai poco convinta, prima di incamminarmi verso l’uscita.
 
 
 
 
“Sei così bella, non potrebbe mai dirti di no”.
Ecco cosa pensava Romina di me. Mi guardava come se fossi stata una principessa delle favole, mi aveva sempre guardata in quel modo e dava per scontato da tempo immemore che l’intero universo maschile che ci conosceva cascasse ai miei piedi. Ancora faticavo a comprendere il perché di quella convinzione.
In realtà di bello e particolare, per ciò che mi riguardava, non avevo proprio nulla: insipidi capelli castani contornavano un visetto magro dagli insipidi occhi castani. Trovavo il mio labbro superiore così sottile da risultare irritante e mi deprimeva terribilmente il rotolino di ciccia al punto vita. Andavo in giro con una cartella in cuoio, acquistata per pochi spiccioli al mercato delle pulci, zeppa di taccuini di appunti in pelle e quaderni dalle copertine a fiori un po’ retrò, perché mi piaceva scrivere di tutto, dal romanzetto alla lista per la spesa, e avevo bisogno di tener sempre sottomano l’occorrente per farlo. Insomma, non ero proprio tipo da centro sociale. Non ero tipo da Piovra, soprattutto: il cyberpunk e il mio orologino da polso in finta pelle nera sarebbero andati poco d’accordo.
Certo, spiegarlo a Romina non sarebbe stato altrettanto facile. Per lei ero l’amichetta con cui aveva condiviso l’adolescenza, la sorellina acquisita bella a prescindere e senza un perché. Che poi fosse lei la fanciullina fortunata con gli occhioni blu e le labbra a cuore era un’altra storia.
Tra le due, io ero anche quella saggia. Molto studiosa, un po’ intellettuale… la più noiosa, in altre parole. Quella che disegnava per sfogare su di un foglio i periodi bui, quella che dava forma a strani volti dagli occhi privi di pupille e corpi sformati; mia madre, quando guardava le mie creazioni, lasciava la stanza sempre un po’ rammaricata, preoccupata del mio stato mentale e del fatto che potessi attirare influenze negative dall’etere. Ed ero anche quella ascoltava la musica più strana e sognava un futuro in cui diventava una scrittrice affermata: sognare, per l’appunto. Al massimo avrei fatto l’insegnante sempre se mio padre me l’avesse concesso.
Cosa ci trovasse di tanto speciale in me Romina stentavo ancora a comprenderlo. Poi mi dicevo che fosse tutta una questione di affetto e non ci badavo più di tanto. Ma certamente non avrebbe dovuto accostarmi ad un tipo come Andrea (Zeno o Genio che si chiamasse): era troppo stravagante per me. Senza contare il fatto che fosse un emerito sconosciuto.
 
In ogni caso, il giorno successivo, alla mostra organizzata a La Piovra ci andai per davvero, da sola e senza avvisare Romina. Un pochino appassionata di fotografia lo ero – benché fossi assolutamente incapace di scatti da maestro mi piaceva molto guardare – e non mi mancava la curiosità di vedere che tipo si celasse dietro l’abbigliamento da punk strafottente di quel fantomatico “Genio”.
Così, armata di santa pazienza, mi arrischiai sul bus 480.
“Arrischiarsi” era il termine perfetto da usare in questo caso, considerando che la prima fermata dell’autobus era nei pressi di una vecchia clinica psichiatrica e la seconda all’angolo del mercato del pesce del quartiere San Cristoforo. Indi per cui, il tragitto di andata lo condivisi con un tipo che, seduto accanto a me, continuava a battere il suo ombrello a manico lungo contro sedie, linoleum, corrimani e quant’altro, in maniera sempre più convulsa e grugnendo a intervalli di tempo regolari. Quando qualche santo in paradiso decise di liberarmi da suddetto soggetto da manicomio criminale, quel che ottenni in cambio fu una vecchietta con le buste della spesa piene di pesce fresco. Pesce freschissimo, anzi: si vantava con un’amica di averlo pagato a buon prezzo, mentre io mi tenevo la bocca nello sforzo di non vomitare quando l’odore di merluzzo e cernia mi raggiungeva a ondate.
Quando uscii dall’autobus aspirai l’aria a pieni polmoni, manco mi fossi trovata in aperta campagna: per quanto inquinata potesse essere, la preferivo mille volte alla puzza insopportabile dell’autobus. Dopodiché mi avviai verso La Piovra – l’edificio si trovava esattamente a pochi metri sulla sinistra, una volta svoltato l’angolo – pregando di riappropriarmi il prima possibile del mio profumo di shampoo alla pesca.
La Piovra era incredibilmente affollata quel giorno, molto più del pomeriggio precedente. La pubblicità fatta da Stena aveva certamente ottenuto i risultati sperati perché davvero non avevo mai visto tanta gente strana tutta insieme, neppure ai concerti rock dove mi piaceva andare trascinandomi dietro Romina. Forse proprio grazie a quella folla riuscii a bypassare la mia amica, evitando di attirare la sua attenzione: se ne stava in un angolo, parlottando serena con qualcuno di sconosciuto e gesticolando in modo fin troppo evidente e io cercai di scivolare via dal suo raggio d’azione più velocemente possibile.
L’intero locale era tappezzato di fotografie. Pensavo fossero disposte su pannelli appropriati e invece, soltanto quando andai a sbattere contro una parete nel tentativo di non urtare un paio di visitatori, mi resi conto che erano disseminate ovunque, quasi senza cura ma secondo uno schema interessante. Mi ritrovai proprio di fianco a una cornice molto grande che ospitava una foto in bianco e nero, come tutte le altre esposte alla mostra e fu proprio quella la prima foto che guardai: il sorriso di una madre. Un sorriso grande, un po’ imperfetto ma luminoso. Solo la bocca era ritratta, mentre la donna stringeva tra le braccia un bambino appena nato di cui si poteva ammirare appena la testina piccola e tonda. Il bianco e il nero giocavano sulle forme, le mettevano in risalto, comunicavano una gioia difficile da descriversi. Era una bella, bellissima foto.
Timida, continuai a muovermi lungo la parete mentre la gente intorno a me ciarlava e un po’ mi toglieva l’aria. I ragazzi del collettivo studentesco, quelli della Facoltà di Lettere dove mi sarei iscritta dopo il diploma, stavano lì con i loro occhialoni da nerd studiando allo stesso modo le fotografie e chiacchierandone al riguardo. Dicevano: “avrà usato una Reflex? Sono molto nitide” e “trovo sia meraviglioso l’indicibile senso di amore e solitudine che riesce a tirar fuori”, così come tante altre stronzate. Ne parlavano come i critici d’arte parlano dei grandi quadri di Caravaggio e Van Gogh senza capirci un’acca, vedendoci cose che manco loro sapevano di voler comunicare. Era per questo che li odiavo: mettevano il naso in questioni che ignoravano e pretendevano pure di avere ragione senza neppure sapere, come tutti i grandi sapientoni/intellettualoidi del mondo. Non mi sarei comportata mai come loro.
 
Mi muovevo così, tra facce di bambini, porte illuminate su pareti scure e buie, tramonti su fiumi sporchi e mezzi prosciugati, primi piani su Converse rotte e sfilacciate e cani dal muso umido finché non la vidi.
Una foto, la foto.
Quella finestra stretta e lunga che affacciava su di un vicolo buio. Doveva essere una strada maleodorante, dai mattoncini probabilmente rossi o ocra, i gatti sul bidone della spazzatura - quei bidoni in latta che si vedono nei cartoni animati o nei film americani da quattro soldi - e un barbone che dormiva in fondo alla via. Ma c’era un vasetto di fiori su quella finestra e la tendina di pizzo da cinque euro che sventolava un po’ fuori e la strada terminava con un arco di mattoni tra i due palazzi adiacenti tanto pittoresco quanto inutile che… sì, dava proprio idea che potesse esserci una speranza. Perché qualcosa di bello da ammirare c’era pure in un posto di merda come quello.
 
Un posto che io conoscevo.
Ero certa, l’avevo vista.
Ma dove? Dove si trovava? E quando c’ero stata?
Prima di battere la testa?
Prima di…
 
 
Ricordi?
Le urla e poi il silenzio.
E il nero, buio a fondo.
Dopo, i tasselli non si sono più
incastrati come prima
.
 
 
“Grazie…”
 
Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto.
 
“Grazie di cosa?” sillabai piano, quasi disperata.
Andrea mi sorrise. Sorriso imperfetto e affascinante.
Aveva davvero gli occhi grigi.
 
“Grazie perché stai guardando le mie foto. Le stai guardando veramente.”
 
 























Eccomi qui, sempre a scocciare con una storia nuova! xD
Ho poco da dirvi a riguardo, a parte il fatto che La Piovra è liberamente ispirata a un centro sociale  esistito per davvero, dove passavo sempre da piccina quando andavo a far visita alla nonna. Il nome non è ovviamente "La Piovra" ma ho scelto questo perché una mia amica, parlando qualche anno fa di suddetto centro sociale, si confuse e lo chiamò in questo modo, la Piovra per l'appunto...Per cui, eccoci qui! ;)
Per questo capitolo voglio ringraziare immensamente la mia bellissima Giulia (Butterphil) che, anzitutto, mi ha convinto a pubblicare visto l'entusiasmo con cui ha accolto la storia. In secondo luogo mi ha aiutato con citazioni e immagini... quindi, grazie di cuore.
 Niente, spero leggerete e mi lascerete un parere a riguardo. Grazie a tutti voi se passerete di qui!
Matisse :)
   
 
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