Finalmente, si saprà qualcosa di
definito sul passato di Alessandra, e per bocca della stessa Anche. Ma non
aspettatevi che vi sveli tutti i segreti subito. Zone d'ombra rimangono. Siete avvertiti.
Invece qualcuno cambia, anche se non vuole ammetterlo.
Il Capitolo e un po' lungo (16 pagine), ma non ho voluto dividerlo questa
volta, perchè i fatti sono strettamente legati.
Buona lettura!!!
CAPITOLO 12
CIARDA DI GHIACCIO
Alessandra si svegliò nel cuore
della notte, con echi di grida nella testa, con la fronte imperlata di sudore.
Quel sogno…Quel dannato sogno…Tornava. Sempre. A tormentarla. A costringerla a
ricordare. Perché non erano solo il risultato delle sue paure, quelle visioni.
Erano la realtà. Una realtà che ancora a tre anni di distanza lei non riusciva
ad accettare.
Si strinse nelle coperte. Aveva
freddo. Molto freddo. Anche se era accanto al fuoco. Spaziò con lo sguardo il
piccolo accampamento. Aveva bisogno di distrarsi. Di concentrare la mente su
qualcosa.
Rin, Jacken e Ah-Un
dormivano tranquillamente. Alla fine, era rimasta. Per necessità più che per
scelta. Perché la pericolosità di quel luogo le era stata mostrata nel modo più
brutale che conoscesse. E lo aveva fatto lui. Per aiutarla. Ma davvero lo aveva
fatto per lei?
Alessandra non ci voleva pensare.
Non voleva ricordare la sua figura bianca sporca di sangue. L’odore del sangue.
Perché era stato quello la causa di tutto. Aveva riaperto la sua ferita. E ora
sanguinava; la stava dissanguando. Lentamente. Inesorabilmente.
Una settimana…Ormai era da una
settimana che viaggiava con loro. E che sognava. Incubi. Ricordi. Tutto
confuso. Mescolato. E sensazioni forti. Annichilenti.
Si sollevò a sedere, stringendosi
nel kimono che indossava. Il suo maglione aveva dovuto abbandonarlo. Troppo
impregnato di sangue per poterlo ancora portare. Odore di morte. Nausea e
disgusto. Lo aveva abbandonato. E Jacken le aveva
procurato quel kimono. Caldo e pesante. Prezioso. Come l’altra volta. Come
quello che lei aveva adattato a Rin. Ma stavolta non
lo aveva rifiutato. Non aveva potuto. Lo aveva indossato, tagliandolo però
all’altezza della coscia. Più comodo. Più maschile. Per cercare esteriormente
di ricreare quella protezione andata smarrita.
Sospirò e tornò a sdraiarsi,
girandosi su se stessa per cercare una posizione più comoda. Per dimenticare la
nauseante sensazione di malessere che l’aveva svegliata. Per dimenticare gli
incubi delle sue notti agitate. Un movimento davanti agli occhi ormai
assonnati. Non se ne curò. Forse era lui che rientrava.
Sesshomaru non dormiva. Non lo faceva mai. Non ne aveva bisogno.
Chiudeva gli occhi solo per pensare. E restava così. Immobile e col respiro
regolare e tranquillo. Sembrava davvero dormire, certe volte. Invece, i suoi
sensi erano sempre attenti. Vigili.
Percepì un rumore nella grotta.
Fruscio di stoffa. Discese con eleganza dal ramo, atterrando nella neve. Nessun
rumore. Leggero. La vide. Seduta nel futon, con le
braccia strette al petto. Un disperato tentativo di proteggersi. Calmarsi.
Perché era agitata. Lo sentiva dall’odore. E poi bastava guardarla. Tremava.
Come quella sera. La prima in cui l’avesse vista veramente fragile. Quella sera…sette giorni prima…Quando era stato costretto a
mostrarle davvero chi fosse…Costretto a uccidere…davanti ai suoi occhi.
Era cambiata. Da quel momento era
stato come se fosse entrata in trance.
Si era diretta all’hokora e il giorno dopo non aveva opposto resistenza quando le aveva ordinato di seguirlo. Era stata
docile. Come mai l’aveva vista prima. Neanche quando l’aveva graffiata
afferrandola per il polso aveva reagito così. Adesso, invece, tutto le era
indifferente. Era una marionetta vuota che si muoveva per inerzia.
Aveva cercato i suoi occhi in
quella settimana. Per cercare di leggerli, sperando di trovarvi le solite
sfumature cangianti. Non li aveva più incontrati. Più. Alessandra li teneva
sempre bassi; rivolti al suolo. E non parlava. Non le aveva sentito pronunciare
una parola dopo che era rientrata al tempio. Muta. Neanche con Rin si apriva. Le uniche parole che avesse
sentito uscire dalle sue labbra erano sospiri confusi dal sonno. Un nome
ripetuto. Nulla di più. E sempre in stato di incoscienza.
E adesso era lì, sveglia.
Spaventata. Ma sapeva che non avrebbe chiesto aiuto. A nessuno. E meno che mai
a lui. Sesshomaru ne era consapevole. E la ammirava
per questo. In quella settimana, aveva imparato ad ammirarla. A modo suo, vero;
ma non lo poteva negare.
Reggeva un ritmo che avrebbe
sfiancato anche un demone; un ritmo che distruggeva Jacken.
Gli camminava alle spalle, senza mai lamentarsi, fermandosi
quando lui lo decideva, accelerando quando lui faceva altrettanto.
Notevole. Davvero.
Sesshomaru, però, in quel momento, vedendola così, percependo tutto l’angoscia che la pervadeva, si chiese per quanto
ancora sarebbe riuscita a reggere. Non mangiava più. Non dormiva più. Era
cambiata. Era mutata. E lui non riusciva a sopportarlo. Perché lo infastidiva
il fatto che qualcosa accadesse sotto la sua attenzione, senza che lui però
riuscisse a darvi una spiegazione. Una spiegazione esauriente.
La guardò stendersi e rincorrere
il sonno. Agitato. Inquieto. Entrò finalmente nella grotta e le sedette vicino.
Il suo viso. Così pallido. Così provato. Così…asciutto. Sesshomaru
si chiese perché non piangesse. Perché non avesse mai sentito l’odore delle sue
lacrime. Non aveva pianto neanche quella sera. Eppure impressionata lo era
rimasta. Traumatizzata. Ma niente lacrime. Come se il suo corpo avesse
dimenticato come fare a piangerle.
Perché quei pensieri? Perché
quella sensazione verso di lei? Voleva proteggerla. Lo sentiva necessario. E
non lo capiva,
Solo curiosità…
Mentiva. A se stesso.
Soprattutto. Ma la vera ragione non la sapeva neanche lui. Avvicinò la mano al
suo viso. Una carezza…Avrebbe voluto sfiorarla. Per tranquillizzarla. Come
aveva tranquillizzato Rin quando era malata.
Distese le dita. Artigli. Si
fermò. Un sussurro nella memoria…
“Non devi toccarmi…”
Sospirò; e ritrasse la mano.
Forse sì. Forse sapeva cosa lo attraeva di lei. Ma non lo avrebbe mai
accettato. Perché significava provare compassione. Commiserazione.
Autocommiserazione. Perché significava provare sentimenti umani.
Impossibile…
Però, in quella ragazza rivedeva
se stesso. La sua freddezza. Il suo dolore. E il suo interesse nasceva dalla
volontà di salvarla. Di impedirle di diventare come lui.
Alessandra si svegliò che il sole
era già alto. Aveva fatto tardi. Strano che nessuno l’avesse svegliata. Guardò fuori dalla finestra della capanna dove avevano trovato
riparo. Cielo grigio. Cielo che minaccia neve. Aperto in un solo punto, da cui
filtravano raggi. Caldi. Dorati.
Come i suoi occhi…
Scosse la testa. Si sentiva
ubriaca. Delirava. Mal di testa. Il cranio che pulsa. Violento. Doloroso. Aveva
dormito troppo, e male. Sentiva delle voci in lontananza. Risate. Non si mosse.
Rimase stesa, con lo sguardo alla finestra. Non aveva intenzione di alzarsi.
Non ne aveva voglia. Apatia. Era come una malattia. La stava divorando piano. E
la consumava. Assieme a quei sogni terribili.
“ Ale-chan!
Ale-chan! Ben svegliata! Il signor Sesshomaru ha detto che ci fermeremo per un po’. Qui c’è un
lago ghiacciato. Tu mi avevi detto che questi servivano per correre sul
ghiaccio. Mi insegni a farlo?”
Rin le era corsa incontro, stringendo
nelle mani i suoi pattini. Glieli aveva costruiti lei, con legno, stoffa e le
lame di riserva dei suoi pattini. Lo aveva fatto per impedirsi di pensare. Per
occupare le ore notturne che trascorreva sveglia. A volte si era anche
intestardita a non voler dormire. Per paura di rivedere quelle scene.
Quando glieli aveva consegnati, Rin era stata felicissima. Aveva saltellato per un po’
attorno a Jacken, per nulla tranquillo
dell’inoffensività del dono, e poi aveva cercato di abbracciarla. Alessandra
aveva avuto uno scatto nervoso e si era allontanata, lasciando Rin sorpresa. La bimba era rimasta interdetta per un
attimo, ma poi aveva ripreso a correre. Verso Sesshomaru.
Voleva mostrargli il dono che aveva ricevuto.
L’youkai
l’aveva fissata e le aveva fatto una carezza sulla testa. Un contatto.
Delicato. E poi aveva alzato gli occhi su Alessandra. Una dimostrazione. Che da
Rin non aveva nulla da temere. Perché se aveva già
allontanato lui, non l’aveva mai vista sottrarsi alle mani di Rin. Fino a quel momento.
“Allora, Ale-chan?
Mi insegni?”
Alessandra annuì. Sì. Le avrebbe
insegnato a pattinare. Se non altro, le avrebbe impedito di pensare veramente.
Andò a prendere i suoi pattini e raggiunse Rin vicino
al laghetto. La bambina cercava di capire come si mettessero
quelle strane lame. Non ci riuscì e allora si rivolse alla ragazza. Alessandra
si sedette accanto a lei e le infilò i suoi pattini,
veloce ed elegante.
Rin la osservò attentamente. Sapeva che la sua amica non
avrebbe parlato. Era da tanto che non la sentiva parlare. Neanche il signor Sesshomaru era mai stato in silenzio così a lungo. Rin non sapeva il perché, ma credeva che la causa fosse
lei.
“Ale-chan…
È per colpa di Rin che tu non parli più? Perché sei
arrabbiata con Rin?”
Inginocchiata a terra davanti
alla bambina, intenta a stringere bene i pattini, Alessandra rimase folgorata
da quella domanda. Perché si accorse che la stava facendo soffrire. Per la
prima volta, si accorse che il suo mutismo rendeva triste qualcuno. Si sentì
male. Perché avrebbe voluto abbracciarla e dirle di no, che non era arrabbiata
con lei. Anzi, che le era grata. Perché era da tanto che qualcuno non mostrava
un interesse simile per lei. Un interesse sincero.
Scosse la testa. Con forza.
Guardandola fisso negli occhi.
No. Tu non c’entri. È mia la colpa…
Non parlò. Non ce la faceva. Non
aveva ancora la forza per farlo. Invece, le strinse le mani e la fece entrare
sul ghiaccio. Rin si spaventò un po’ e si aggrappo di
più alle sue braccia. Sapeva che quello era tutto il contatto che poteva avere.
Come sapeva che Alessandra prima le aveva parlato senza usare le parole. Ma le
andava bene lo stesso. Perché non era arrabbiata con lei.
Quel giorno, Rin
imparò che riuscire a stare in piedi sul ghiaccio poteva essere molto facile e
molto difficile allo stesso tempo. Se ci si spinge poco, non ci si muove. Se ci
si spinge forte, si rischia di cadere. Bisogna stare attenti alla lama, a non
frenare con la punta perchè altrimenti si cade. A non muoversi troppo
bruscamente per non perdere l’equilibrio.
Alessandra era orgogliosa di lei.
Dopo solo poche ore, era riuscita a stare in piedi e a muovere i primi passi. E
sempre sorridendo. Nonostante le cadute e i lividi. E nonostante gli urli
angosciati di Jacken ogni volta che Rin scivolava. Perché il demonietto
temeva che il suo padrone l’avrebbe ucciso se Rin si
fosse fatta anche solo una sbucciatura.
L’aveva ricondotta al tronco, e
le aveva regalato gli ultimi biscotti al cioccolato rimastile. Per premio.
Ormai era sera. Rin era esausta, anche se continuava
a ripetere che si era divertita tantissimo e se cercava di convincere Jacken a provare anche lui.
Alessandra sentiva male alla
caviglia sinistra. Dove l’osso si era rotto. Ma non ci diede importanza.
Sentiva il richiamo del ghiaccio. Voleva pattinare. Ancora. Per sfinirsi. E non
avere più la forza neanche di sognare.
Ritornò sul laghetto, fermandosi
al centro. Chiuse gli occhi. Musica…Sentiva nelle orecchie Maurice
Ravel. Tzigane . Un campo minato ,
il cavallo di battaglia dei grandi virtuosi. Il suo cavallo di battaglia. La
sua fatica. Il suo orgoglio. Respirò. Non eseguiva quella danza da due anni. Ma
ricordava tutto. Perfettamente. Lucidamente.
Iniziò a muoversi. Lentamente.
Seguendo una melodia che lei sola sentiva. Ricordando. La cadenza virtuosistica del violino, accompagnata da un’altrettanto
rigogliosa cadenza del pianoforte. Iniziò la danza. Alessandra cominciò a
muoversi, abbandonandosi al ritmo coinvolgente che risuonava solo per lei.
Dapprima lentamente, con scivolate lente e aggraziate, poi sempre più
velocemente, saltando e volteggiando. Spaziando per tutta la pista. Riempiendo
la mente e i movimenti di una musica d’irresistibile fascino.
Rin e Jacken osservavano estasiati Alessandra esibirsi in quella danza. Una ciarda.
La sua migliore interpretazione. Una ciarda di ghiaccio. La notò anche Sesshomaru, in piedi vicino ad un albero. Appena
sopraggiunto. E ne fu conquistato. Si accorse della passione che sprigionava da
ogni movimento, sempre più sinuosi e intriganti. Una danza raffinata, che aveva
calamitato lo sguardo del bel demone, incantato da quell’affascinante
magia e stregato dagli occhi provocanti e determinati di Alessandra.
Dov’era la ragazza che aveva
visto tremare nel futon? Quella che si era
divincolata dalla sua mano, che aveva perso la parola? Non la riconosceva più.
Ne era ammaliato. Sesshomaru non si era mosso, ma
aveva gli occhi spiritati e le labbra lucide e tese. Era immobile, eppure
dentro fremeva ad ogni axel di Alessandra, ad ogni
suo sguardo sempre più intenso. Uno sguardo nuovo. Alessandra non si rendeva
minimamente conto del fascino esuberante che sprigionava da quella vivace danza,
con la sua mente totalmente impegnata nel ricordare la musica e
nell’esecuzione.
Durante la performance,
Alessandra dimenticò tutto. Il dolore, la solitudine, il luogo sconosciuto dove
si trovava…Tutto. C’erano solo lei, la sua musica e la scivolare veloce dei
pattini sul ghiaccio. Un sogno mai concretizzato. La sua occasione dissoltasi.
Durante la performance, Sesshomaru dimenticò tutto. Chi fosse lui. Chi fosse lei.
Restò cosciente solo di quello che provava. Trasposto. Coinvolgimento. Magia.
Alessandra era solo una donna. Quella che avrebbe voluto veder ridere. Quella
di cui avrebbe voluto conoscere il sapore delle labbra.
Quando Alessandra si fermò,
mettendo fine a quel volteggio estatico, terminò anche l’incanto che li aveva
pervasi. Tornarono quelli di sempre: freddo e distaccato lui; smarrita nei suoi
fantasmi lei. Avevano dimenticato l’intraprendenza, le sensazioni provate.
Alessandra scivolò a riva,
rispondendo con un tenue sorriso a Rin, che era stata
letteralmente conquistata da quel ballo. Superò Jacken,
imbambolato, dirigendosi verso la capanna. Aveva bisogno di togliersi il
pattino sinistro. Aveva sforzato troppo la caviglia. Non era più abituata. Lo
vide. Vicino all’edificio. Statuario. Regale. Seducente. Si senti in imbarazzo.
Perché l’aveva vista danzare. Perché aveva eseguito quei gesti davanti ai suoi
occhi. E la cosa la imbarazzava tanto. Troppo. Lo superò cercando di fingere
noncuranza. E sparì nell’edificio.
Sesshomaru non la fermò. La magia era finita, ma lui non era ancora
del tutto padrone di sé. La lasciò andare. Ma la seguì con lo sguardo. Voleva
vederla di nuovo così. Coinvolgente Sensuale. Magnetica. Lo voleva. A tutti i
costi. Ignorando ancora, cocciutamente, il perché.
Di nuovo.
Caldo. Fuoco. Polmoni che bruciano.
Arsura. Acqua. Freddo. Rumori. Tanti. Confusi. Luci. Luci blu. Sensazioni.
Malessere. Annebbiante. Occhi…due occhi…l’ultimo sguardo…
Leone…
Alessandra si passò una mano sul
viso sudato. Ancora. Sempre. Rifaceva continuamente lo steso sogno. Non le
serviva a nulla sfinirsi fisicamente. Appena chiudeva gli occhi la sua mente
ricominciava a giocare con lei. Crudele. Le ripresentava quelle immagini. Una
carrellata continua. Immobile. Si avvicendavano lente e veloci. Esasperando le
emozioni che suscitavano. Accrescendo le sensazioni. Un viaggio onirico nel suo
passato. Un viaggio nell’incubo di quella notte. Sempre. Sempre. Senza
possibilità di scampo.
La luna…la prima falce. Tenue e
sottile. Delicata. Bianca. La luna…la sua protettrice…Leone le raccontava
sempre il mito della bella Selene, la dea greca
dell’astro lunare che si era innamorata del bellissimo pastore Endimione. Ma a lei la storia metteva tristezza, perché
alla fine la dea era stata costretta a rinunciare al suo amore e il pastore era
stato condannato a dormire un sonno eterno.
Ecco perché la luna ha due volti…All’uomo mostra sempre la
faccia luminosa e delicata, quella da cui nasce la luce con cui ogni notte
bacia il suo innamorato; Ma la faccia oscura è quella più autentica, perché cela
il suo dolore, le lacrime che versa e di cui l’uomo ha testimonianza ogni
mattina, nella rugiada…
La sua voce…le risuonava nella
mente come se lui le fosse accanto, come se le stesse parlando. Alzò gli occhi
al firmamento immenso. La via lattea, le costellazioni zodiacali, Polaris…si divertivano a rincorrere con gli occhi le
scintille del cielo…A sfidarsi a riconoscerle, a chi ne ricordava meglio il
mito d’origine…
Le mancava. Terribilmente. Si
strinse le ginocchia al petto e vi affondò la testa. Immobile. Si confondeva
con le ombre degli alberi. Scompariva. Sarebbe stato il suo desiderio. Tornare
da lui…da loro…vederli di nuovo…Vivi…e non nei sogni, nei ricordi angosciosi
della notte…
“Leone…”
Quel nome, pronunciato senza
sfumature. Con voce piatta. Pronunciato da una voce che conosceva. Che la
inebriava. Anche in quel momento. Quando era totalmente sfinita.
Sesshomaru le si avvicinò silenzioso. Le si fermò accanto, ma mantenne una certa distanza. Non
voleva intimorirla. Non voleva che fuggisse. Dal ramo dove stava osservando la
volta stellare l’aveva vista uscire dal capanno e dirigersi verso il lago.
L’aveva vista contemplare le stelle seduta sotto gli
alti alberi. Nascondersi nell’ombra. Venirne
inghiottita. Era sceso con un agile salto e si era incamminato verso di lei.
Aveva deciso. Era stufo di aspettare. Voleva sapere. Voleva capire.
“Leone…”.
Sesshomaru aveva pronunciato quel nome per attirare la sua attenzione,
ma lei era solo sussultata. Impercettibilmente però. Forse stava sbagliando.
Forse non era quello il modo di rivolgersi a qualcuno che sembra
versare in uno stato di come perenne. Forse avrebbe dovuto
sedersi accanto a lei e cercare di distrarla. Sesshomaru
non sapeva come comportarsi. Non si era mai trovato in una situazione simile. E
soprattutto non riusciva (meglio, non voleva) trovare una spiegazione razionale
al perché si preoccupasse tanto di non ferirla ulteriormente con le sue
domande. Non gli era mai successo. Aveva sempre chiesto ciò che lo interessava.
Senza perifrasi. Diretto. Tagliente. A senza mai curarsi dell’effetto delle sue
domande.
Ora invece aveva paura. Paura di
peggiorare le cose. Ma non ce la faceva più. Perchè il mutismo di Alessandra
era uno strazio per lui. Non che prima l’avesse sentita parlare a briglia
sciolta. Questo mai. Ma gli mancavano le sue risposte a tono. Il suo sfidarlo
con lo sguardo. Il suo confrontarsi con lui.
Ma, soprattutto, da quando
l’aveva vista pattinare quel pomeriggio, era stato rapito dalla sua espressione
estatica. Perché, in quel momento, forse senza neanche rendersene conto,
Alessandra aveva sorriso. Di riflesso. Seguendo forse un ricordo. Un pensiero.
Ma lui quel sorriso lo aveva
visto, e gli era rimasto intrappolato nella memoria. Fisso. Indelebile. E
adesso lo voleva vedere ancora. Sempre.
“Lo hai pronunciato nel sonno”
Fingere indifferenza.
Disinteresse. Per non scoprirsi. Perché quello non lo avrebbe mai fatto. Non
voleva farle sapere come lo coinvolgeva. Quanto lo scombussolava. Perché quella
ragazza c’era riuscita. Aveva incrinato la sua corazza di ghiaccio. La stava
facendo evaporare. E lui non lo riusciva ad ammettere. Soprattutto con se
stesso.
“Chi è?”
Silenzio.
“Il tuo uomo?”
Ancora silenzio. Sesshomaru attendeva. Agitato. Temeva che gli dicesse di
sì, che era il suo uomo. Che la stava spettando a casa, che lei voleva
andarsene. Temeva di perderla.
Attendeva…Con la mente vuota e il
cuore pieno di domande che la testa ignorava volutamente. Cocciutamente.
Alessandra non rispose. Mai. A
nessuna domanda. Perché gliele stava facendo? Cosa voleva da lei? Forse non si
era accorto che soffriva, che il sentire quel nome su labbra estranee, nelle
orecchie, le dilaniava l’anima? No. Sesshomaru lo
sapeva. Lo stava facendo apposta. Per ferirla. Per vincere. Perché solo di
quello gli importava. Vincere.
“Lasciami in pace”. Un sussurro
strozzato. “Ti prego…”
Sesshomaru si voltò. Odore di sale. Aveva percepito l’odore delle
lacrime. Delle sue lacrime. Stava piangendo. E gli stava dicendo di andarsene.
Che non voleva la sua vicinanza. Forse la sua compassione. Lo stava pregando.
Aveva vinto. Lei aveva chinato il
capo. Aveva riconosciuto la sua superiorità. Aveva vinto. Ma non ne era contento.
Per nulla. Aveva sempre gioito per una vittoria. Quella realizzò in quel
momento di non volerla. Voleva solo il suo sorriso.
“Perché?”
Voce incrinata. Alessandra
percepì una strana inflessione nella voce dell’youkai.
La prima che gli sentisse. Dolore. Sorpresa. Rimpianto. Aveva una sfumatura
strana, che racchiudeva mille domande.
“Perché mi stai facendo male”.
La verità. Nuda. Cruda.
Sbattutagli in faccia. Forte. Come uno schiaffo. Aveva risposto con sincerità,
non aveva cercato scuse. Aveva ammesso in quel momento di essere debole. E Sesshomaru si accorse invece di quanta forza sprigionasse
il suo corpo rannicchiato vicino a quel tronco. La forza di ammettere se
stessi. Le proprie debolezze. Le proprie paure. Candidamente. Senza timore di
mostrarsi deboli. Perché dalla consapevolezza della sua debolezza Alessandra
traeva la sua forza. E non se ne accorgeva neanche.
Ma lui sì. Lui se ne accorse.
Lui. Sesshomaru. La sentì la sua forza. Quella che
l’aveva spinta a tornare a parlare. Pur di difendersi. Quella che le aveva dato
il coraggio folle di rispondergli a quel modo. Di pregarlo. Di regalargli una
vittoria che lei avrebbe potuto tenere per sé.
Si inginocchiò davanti a lei. Non
riusciva a vedere il suo viso, ma distingueva chiare le scie delle sue lacrime.
Argento sotto la pallida luce lunare. Respiro spezzato da singhiozzi soffocati.
Avrebbe voluto asciugare quelle lacrime, stringersela al petto per
tranquillizzarla. Non si riconosceva più.
Stanotte non riesco più a ragionare…Ma
per una notte, posso anche accettarlo…Un gesto sconsiderato…Solo per una notte…
Alessandra cercò di alzarsi, ma
lui le impedì il movimento. Non la toccò, ma fissò la sua mano sul tronco,
sopra di lei. Non poteva più alzarsi.
“Non andare…”.
Alessandra sentì la sua voce
vicina. Molto vicina. Così calda. Così sensuale. Non voleva alzare la testa, ma
poteva vedere il suo petto, il kimono bianco ricoperto dai capelli d’argento.
Perché gli era venuto così vicino? Cosa voleva?
“Guardami…”
Sesshomaru aveva sporto un po’ il viso verso di lei. Una supplica. Un
ordine che aveva le sfumature dell’invito. Un ordine che non voleva essere
tale. Un tono mai sentito da lui.
“No…Non riesco a smettere di
piangere…”
“Non importa…”
Davvero. Non gli importava che lei
si mostrasse debole. Non gli importava. Voleva solo vedere i suoi occhi. Solo
quello. Alessandra si sorprese della risposta. Da quando ad un demone non danno
fastidio le lacrime? Da quando non danno fastidio a lui?
“Sei sleale…”.
Alessandra sorrise, un sorriso un
po’ triste, ma che dissipò le rughe sulla fronte. Il magone in gola. Sesshomaru non rispose. Si limitò a sedersi accanto a lei.
E ad alzare gli occhi al cielo. Ambra screziata di blu. Stelle nell’oro del suo
sguardo.
Alessandra apprezzò il suo
silenzio. Il suo limitarsi alle parole. Nessun contatto. Come aveva detto lei.
“Chi è Leone?”
Quella domanda. Di nuovo.
Alessandra sospirò.
“Un fantasma…”
“I fantasmi non tolgono il
sonno”.
Aveva ragione. Dannazione! Aveva
maledettamente ragione. E lei lo sapeva.
“Allora è un ricordo”. Si fermò.
Esitò un istante. “Un ricordo doloroso”
Va bene. Aveva deciso. Glielo
avrebbe detto. Gli avrebbe spiegato i suoi sogni. Gli avrebbe detto tutto.
Tutto.
“Leone è…era…mio fratello”.
Sesshomaru non commentò. Si limitò a chiudere gli occhi. Era come se
Alessandra parlasse a se stessa. Ma sapeva che il bel demone la stava
ascoltando. Sorbiva ogni sua sillaba fino in fondo.
“È morto…Un incidente
automobilistico”. Si fermò di nuovo, un sorriso tirato. “Già…Adesso ti
chiederai cosa vuol dire automobilistico…”.Sesshomaru
di nuovo non rispose. Non voleva bloccarla. Confonderla. Non gli importava la
parola. Voleva solo che lei si sfogasse.
“Due anni fa…Noi due, con i
nostri genitori, stavamo facendo un viaggio…mi stavano accompagnando…Dovevo
partecipare ad una gara…Una gara di pattinaggio…Erano venuti per
incoraggiarmi…Perché era la mia grande occasione…Poi…”. La voce le morì in gola
e gli occhi si riempirono di nuove lacrime.
“Successe tutto in fretta…Un
incidente…La nostra macchina prese fuoco…Non so perché…Non ho
mai voluto saperlo…Ricordo l’odore della benzina, del fumo acre…Il
caldo…Poi l’acqua e qualcuno che mi portò in salvo; l’ambulanza…Le luci
intermittenti…E due occhi…Azzurri…Quelli di Leone…Ricordo il suo sguardo…Un
incoraggiamento…Mi svegliai in un letto d’ospedale, due mesi dopo. Avevo
riportato una commozione cerebrale e varie fratture, fra cui quella alla
caviglia sinistra. Non avrei più potuto pattinare, almeno non come prima. Ma
non mi importava…Volevo i miei genitori, mio fratello…Nessuno volle dirmi la
verità…La dovetti scoprire da sola…Un necrologio sul giornale…Trovato per
caso…Morti…Erano tutti morti…Mi avevano lasciata sola…”
Alessandra tuffò il viso nelle
ginocchia. Pianse. Pianse come non aveva mai fatto. Pianse tutte le lacrime che
in due anni aveva tenuto dentro di sé. Accanto a lei, Sesshomaru
non commentò. Non disse nulla. Né cercò di abbracciarla. Sapeva che sarebbe
stato inutile. Gli sembrava anche ipocrita. Cinico. La lasciò sfogare.
Confortandola solo con la sua presenza. Nulla di più. Rimase seduto lì. Per
farle capire che sola non lo era più.