Ciao a tutti!
Come promesso, eccomi di nuovo qua. e con un nuovo
capitolo su Alessandra e Sesshomaru. Le cose iniziano
a cambiare, anche se poco alla volta; bisognerà aspettare un po' ancora prima
dell'evoluzione completa di Alessandra.
Grazie infinite a chi è sempre così genrile da
leggere e commentare sempre e anche a chi legge soltanto.
Buona lettura!!!
P.S. Lo so di insistere su alcune cose un po' troppo, ma è voluto. si spiegherà tutto con il proseguio
della storia.
CAPITOLO 13
INSEGNAMI
Spade.
Cozzare del metallo. Acciaio. Stridio. Scintille. Suono…Suono secco, di lame
che si scontrano. Suono di duello. Di scontro. Riempie l’aria. Assordante.
Attraente. Un’attrazione pericolosa. Mortale.
Sesshomaru si fermò, osservando con attenzione il suo
avversario. Era affaticato e respirava rumorosamente. Ma non demordeva. Stava
solo rifiatando. Studiandolo. Cercando di cogliere il momento giusto per
attaccarlo. Non da sprovveduto, però. Sembrava cosciente della sua superiorità.
Che non lo avrebbe mai sconfitto. Disarmato. Ma non sembrava che gli
importasse. Vedeva nei suoi occhi scintille di rabbia, di frustrazione.
L’youkai rilassò un po’ il braccio, abbassando la
lama. Un gesto di apparente fine del duello. Un trucco. Perché il sole colpì la
spada mandando un lampo accecante. Una mossa per ottenere la vittoria. Un
trucco, che gli veniva dal passato. Un ricordo della sua infanzia.
Sesshomaru sentì l’avversario imprecare, contrariato.
Abbagliato. Aveva perso. Ora gli sarebbe bastato scattare per finirlo. Un colpo
secco. La sua fine.
Il demone sospirò mentalmente, riprendendo una rilassata posizione eretta. Con
un fruscio lieve, rinfoderò la spada. E restò impassibile ad osservare chi gli
stava di fronte. Non aveva alcuna volontà di ucciderlo.
Alessandra riprese a sua volta la totale posizione eretta. Era sudata e
respirava a fatica, cercando di recuperare tutta l’aria che aveva perso nello
scontro. L’ultimo assalto, poi, lo aveva praticamente portato in apnea, con i
polmoni che le bruciavano per lo sforzo. Le girava un po’ la testa. Piantò la katana nel terreno e le si inginocchiò
accanto. Esausta. Non riusciva a restare in piedi. Il terreno ondeggiava
troppo. E la testa le rimbombava.
Guardò Sesshoamru. Il bel demone era fermo a qualche metro
da lei. Apparentemente tranquillo e rilassato. Sembrava non aver neanche
impugnato la sua arma. Il viso fresco, senza neanche un’ombra di sudore o
affaticamento. Il respiro regolare. Forse, solo appena più accelerato del
solito. Come era possibile? Perché non mostrava alcun segno di sfinimento?
Perché non era ridotto come lei?
Alessandra si lasciò cadere seduta a terra, reclinando la testa e portandosi
una mano agli occhi. Voleva che gli alberi smettessero di girare.
L’aveva battuta. Lo aveva capito. Vinta di nuovo. Per l’ennesima volta. Non
aveva portato l’assalto finale; non l’aveva atterrata né disarmata. Ma lei
sapeva di avere perso. Per via di quella luce. Di quel riflesso accecante. Un
trucco. Semplice. Stupido. E disonesto. Maledettamente disonesto. Anche se
efficace. Perché si era accorta che in quel momento non ci vedeva più, e che
ucciderla sarebbe stato uno scherzo.
“Non dovresti eccedere troppo”.
Le si era avvicinato. Con quel suo passo
impercettibile, nonostante l’armatura che indossava. La voce così vicina, così
inebriante. Perché non riusciva ad ascoltarlo senza lasciarsi avvolgere da quel
tono freddo e seducente? Non le era mai successo. Quelle modulazioni vocali
avevano la capacità di farle perdere il senno, di confonderla.
Scosse la testa. La stava rimproverando. Bonariamente. Perché lì era lui
l’esperto. E lei aveva sbagliato. Aveva esagerato. E il risultato era stato
quella sconfitta. Che però non le bruciava neanche. Non era per vincere che gli
aveva chiesto di insegnarle a combattere. Non era per duellare. Ma per tenere
vivo il ricordo di una passione.
Sesshomaru la osservò, distesa a terra. Aveva scosso
la testa al suo rimprovero. Come a volerlo minimizzare. Ma lui sapeva che lo
aveva ascoltato, e che in futuro avrebbe cercato di non ripetere l’errore.
Perché come allieva si stava rivelando brava. Molto brava. Più del previsto.
Più di quanto si sarebbe aspettato da un nigen. Da
una donna umana.
Le sedette accanto. Poggiando la schiena ad un albero. Anche se non lo avrebbe
mai ammesso e non lo dimostrava, quello scontro lo aveva impegnato non poco.
Mai uno sforzo come quello che gli costava un duello contro suo fratello, in
cui si impegnava sia fisicamente sia spiritualmente. Ma sempre uno sforzo.
“Hai barato…”.
Un respiro stentato. Di chi ancora cerca l’aria. Di chi ancora è in debito
d’ossigeno. La sua voce. Gli piaceva sentirla. Cercare di coglierne le
sfumature. Perché da un po’ di tempo quella voce stava cambiando. Era più
calda. Più suadente. Ma all’occorrenza tornava fredda e tagliente. Come la sua.
Come la voce che gli apparteneva. Da sempre.
Sesshomaru piegò un po’ la testa, per vedere in viso
la ragazza. Alessandra era sdraiata accanto a lui,nella
neve fresca; le mani dietro la nuca e gli occhi chiusi.
Aprili…Voglio poterti guardare negli
occhi quando ti parlo…
Attese. Inutilmente. E lo sapeva. Alessandra era troppo stanca per riuscire a
sostenere anche uno scontro di sguardi. E piuttosto che cedere anche in quel
campo, preferiva dribblare abilmente. Precludendogli i suoi frammenti di cielo.
Sospirò, rilassandosi maggiormente contro il tronco nodoso.
“No”. Una sillaba. Si esprimeva spesso così. Ma Alessandra aspettò. Ormai
sembrava aver capito che al bel demone serviva tempo per esprimersi. Per
soppesare le parole. Ma che alla fine le avrebbe fornito una spiegazione.
“Ho usato un trucco, vero. Ma ricordati che in uno scontro tutto è lecito. Lo
scopo finale è solo…”
“Non dirlo!”.
Adesso era seduta davanti a lui. Si era sollevata con un gesto nervoso,
accompagnato da parole dure e secche. Lo aveva fissato negli occhi. In quelle
pozze d’ambra splendente che la confondevano. Che la seducevano. Perché se il
suo viso era sempre freddo, l’oro di quelle iridi era un sole lucente. Capace
di sciogliere il cuore. Soprattutto se vi restava intrappolata un’ombra diversa
da quella di consueta indifferenza. Un’ombra come quella che le attraversava
adesso. Di sorpresa. Per lo scatto improvviso. Per il costante rifiuto di
quella parola.
…uccidere… È questo che non vuoi che
dica…Eppure sai che lo faccio…mi hai visto farlo, davanti ai tuoi occhi…ma non vuoi sentirlo…Stai ancora fuggendo…
Annuì. No. Non lo avrebbe detto. Non le avrebbe fatto del male. Non lo voleva.
Alessandra accennò appena un sorriso di ringraziamento e gli sedette accanto,
togliendo la spada distesa fra loro. Le maniche dei kimoni si
sfioravano mosse dal vento; i loro profumi si confondevano; il muschio di lui
si mescolava con quello fresco di lei. Sesshomaru
non riusciva a definirlo. Perché non era un’essenza da lui conosciuta. Non era
giapponese. Ma gli piaceva. Molto. Gli piaceva potersene cibare. Assaporarla
fino in fondo. Soprattutto in momenti come quello. Quando stavano così vicini.
Perché quello era il massimo contatto che c’era fra loro. Quello della stoffa e
del profumo.
…e delle spade… aggiunse nella sua
testa.
Silenzio. Non parlavano quasi mai durante il giorno. Era solo alla sera che
cadevano i muri di ghiaccio e le allusioni nascoste negli sguardi. Perché di
notte parlavano. Sussurravano. O meglio era lei a parlare, se lo voleva. Lui
ascoltava. E basta. Ma spesso trascorrevano anche le ore notturne in silenzio.
Un silenzio carico di significati. Perché riportava alla mente di entrambi
quella sera in riva la lago.
Sesshomaru non riusciva a dimenticarsela. L’aveva
ascoltata sfogarsi. L’aveva ascoltata piangere. Senza toccarla. Senza cercare
di fermarla. L’aveva ascoltata e basta. E alla fine, Alessandra aveva rialzato
il capo. Gli aveva mostrato i suoi occhi. Bui e tristi. Bagnati. Occhi pieni di
dolore. Di un dolore che lui stranamente non sentiva estraneo. Sentiva suo.
Come se lo avesse già provato.
Lo aveva fissato e poi si era alzata. Morbida. Sinuosa. E lui aveva seguito
attento ogni suo movimento. Si era alzato a sua volta, restando però immobile
mentre lei si allontanava. Non voleva sforzarla.
“Da quel giorno…sei il primo, che mi abbia vista
piangere…”. Un sussurro. Una chiosa. La sua forza. Tutta la sua forza. Glielo
aveva detto senza voltarsi. Con gli occhi fissi sulla falce lunare. Perché in
quella falce Alessandra rivedeva perfettamente il ragazzo che aveva alle
spalle. Il ragazzo davanti al quale aveva pianto. Lui. Sesshomaru.
Il primo che ti ha vista piangere…
Sorrise dentro di sé a quel ricordo. Una vittoria che gli dava più
soddisfazione di uno scontro sul campo. Di un trionfo nel sangue. Perché si
trovava a dover ricorrere ad armi nuove per lui. Armi che non aveva mai saputo
di possedere.
Ora però vorrei vederti sorridere… Lo pensava
veramente. Lo voleva. Era l’unica cosa che la sua mente riuscisse
a elaborare, mentre restava seduto accanto a lei. Mentre la guardava. Perché
era quello che stava facendo. Non le staccava gli occhi di dosso. Senza neanche
accorgersene. Continuava ad accarezzarla con lo sguardo. Percorreva l’ovale
perfetto del viso. Dalla fronte scendeva lungo le guance, ancora arrossate per
lo sforzo.
Quando ti vedrò arrossire per l’imbarazzo?...
Un pensiero che lo divertiva. che lo prendeva.
Scendeva ancora, fino al mento, per poi risalire dall’altro lato, fermandosi
all’altezza degli zigomi. Ora era concentrato sulle sue labbra. Rosse. Carnose.
Provò l’impulso di sfiorarle. Di scoprire se anche al tatto erano morbide come
alla vista. Mosse la mano, ma nella mente di nuovo gli risuonò quel sussurro…
“non devi toccarmi…”
D’accordo. Avrebbe aspettato. Le avrebbe chiesto il permesso. Tornò a
concentrarsi sul viso. Avrebbe voluto perdersi nei suoi occhi. Come sempre più
spesso gli capitava. Gli fissava. Senza motivo. E si dimenticava di distogliere
lo sguardo. Che lei gli fosse vicina o lontana, il riuscire a cogliere le
sfumature cangianti di quegli occhi era il suo desiderio più grande. Non si
chiedeva perché. Non si faceva domande. Perché sapeva che altrimenti avrebbe
dovuto trovare le risposte. E poi una soluzione. Finché poteva, preferiva che
tutto restasse così. Indefinito. Sospeso nel tempo. Anche per sempre. Lo
avrebbe voluto davvero.
Alessandra non si muoveva. Aveva visto il suo cenno affermativo ed era tornata
a rilassarsi lungo il tronco, al suo fianco. Nessun contatto però. Per quello
non si sentiva ancora pronta. Almeno ad avere un contatto fisico con lui. Fosse
solo anche uno sfiorarsi involontario. No. Non ancora.
Perché continuava a ricordare la sua mano macchiata di sangue. Il godimento
intrappolato nei suoi lineamenti quando aveva ucciso. Continuava a venirle alla
mente. Eppure, non era sufficiente a farle provare paura. Perché lei, del bel
demone, non aveva mai avuto timore. Neanche in quell’occasione.
Eppure continuava a tenerlo a distanza. Anche se meno di prima.
Paradossalmente, infatti, era con lui che aveva stretto il legame più saldo.
Anche se era il più difficile da mantenere. Perché era silenzioso, poggiava su
movimenti appena accennati, su parole pensate e mai pronunciate, su sguardi
rubati a vicenda. Una complicità, una collaborazione che avevano stretto senza
precisa volontà di farlo. Senza neanche rendersene veramente conto.
Alessandra non capiva esattamente cosa la legasse all’youkai.
Forse il suo fascino…il fascino che emanava…Così simile a quello della
luna…perché lui era un figlio della luna…come lei…Anche ei in modo diverso…Non
capiva la natura di quel legame, ma neanche voleva realmente afferrarla. Le
andava bene così. Restare nell’indefinito. Affondare in quelle sfumature
emotive. Senza impegno. Senza essere chiamata in causa alla luce del sole.
Sesshomaru non aveva più cercato di imporsi su di
lei. La spronava, ma in modo diverso da prima. Con una sensibilità che lei non
si sarebbe mai aspettata che il demone avesse. E di cui forse neanche lui era
realmente cosciente.
E tutto da quando lei aveva pianto…aveva deciso di rischiare il tutto per tutto
e si era messa a nudo davanti a lui. Semplicemente. Senza vergogna. Aveva
ripreso a parlare. E non aveva più smesso. Perché la sera era diventata un’abitudine,
andarlo a cercare. Anche solo per godere della sua silenziosa compagnia. E lui
non la scacciava mai.
Lo trovava in luoghi impensati, ma magici e ricchi di
fascino. Come lui. Sdraiato in cima ad un albero, sospeso su un precipizio,
seduto su un masso dalle venature ataviche…Lo cercava senza assillarlo, e se
poteva gli sedeva al fianco. Silenziosa. Non sempre voleva parlare. E lui non
la costringeva. A volte le bastava solo godere della sua presenza.
Rassicurante. Avvolgente. Come l’aveva avvertita quella sera. Perché lui era
rimasto a confortarla senza avere bisogno di nulla. E per la prima volta dopo tanto aveva avuto la sensazione di essere capita. Che Sesshomaru non sentisse estraneo quel dolore.
Gli occhi…La sfumatura racchiusa in fonda a quelle iridi ambrate. Imprigionata.
Il grido soffocato che aveva creduto di leggervi la prima volta che lo aveva
incontrato. Ogni tanto gli tornava alla mente quella sensazione. Ma la
scacciava. Perché se davvero anche lui aveva bisogno di aiuto, Alessandra
sapeva che in quello stato ancora non era in grado di darglielo. Ma che grazie
a lui, un giorno, forse ce l’avrebbe fatta. E allora
sarebbe stata lei ad ascoltare.
Alessandra aveva chiuso gli occhi e sembrava dormire. In realtà, sentiva su di
sé lo sguardo indagatore dell’youkai. Un modo di
guardarla che la metteva a disagio. Perché non era per studiarla che
l’osservava così intensamente. Almeno non per studiarla al solito modo.
Percepiva i suoi occhi soffermarsi su ogni sfumatura le suo
viso, su ogni piega, contorno. Come farebbe un pittore. Un artista. Ma Sesshomaru pittore non lo era di certo. Perché allora quell’insistenza? Perché? C’era almeno un motivo?
Non lo sapeva. Ma non glielo avrebbe neanche chiesto. Perché voleva fidarsi. Di
lui. Voleva provarci. Perché era diverso. Non sembrava nascondere doppi fini.
Altrimenti avrebbe potuto approfittare di lei già da tempo. No. Lui era
diverso. Doveva esserlo. I suoi occhi avranno anche potuto essere freddi e
insensibili, ma lui era buono, aveva un animo buono.
Un animo buono…Ma cosa significa, poi,
avere un animo buono? Chi lo ha? Chi non fa del male?
Sotto quel punto di vista, il bel demone non era buono. Perché lui uccideva.
Tranquillamente. Eppure non era malvagio.
No…Forse vuol dire agire senza volontà di
inganno…Qualunque sia la scelta da fare…
Ripensò al trucco che aveva usato prima. Quello era un inganno, o no? Lo poteva
definire tale?
Lui gli aveva detto di no, che era qualcosa che ci si deve aspettare. E lei lo
sapeva. Gli dava ragione. Perché quella era una lezione che già suo fratello
gli aveva dato.
Sesshomaru non capiva se stesse dormendo davvero o se
solo facesse finta. Non riusciva a capirlo. Se stava fingendo, lo faceva
proprio bene. Il respiro calmo, regolare. Il viso rilassato. Acconsentì. Che lo
stesse ingannando o meno, non gli importava. Sviò a
malincuore lo sguardo e si concentrò sul cielo. Azzurro. Lucente.
Come i suoi occhi in questi giorni… Scosse piano la testa, facendo
ondeggiare i lunghi capelli. Possibile che ogni suo pensiero lo dovesse
riportare a lei? Non era più in grado di separare le sue riflessioni. Tutto
ruotava attorno a quella ragazza. Tutto.
Sorrise. Lei non lo poteva vedere. Ma quel sorriso, quella linea sottile che
aveva fatto piegare le labbra a Sesshomaru era stata
lei a produrlo. Una delle poche persone che lo avesse fatto sorridere a quel
modo. Dolcemente. Quasi con malinconica sorpresa.
E tutto grazie ad una spada…
Era iniziato tutto per caso. Una sera in cui aveva fatto più tardi del solito.
E in cui forse Alessandra aveva bisogno di vederlo più degli altri giorni. Di
parlargli.
Quel giorno, infatti, Rin le aveva narrato la sua
storia. Come ci fosse arrivata Alessandra non lo sapeva. La bambina spesso
iniziava a parlare senza motivo, perché detestava il silenzio troppo
prolungato. E perché sapeva che il suo ciarlare allegro non dava fastidio più
di tanto.
Aveva iniziato a parlale, e poi le aveva posto quella
domanda.
“Ale-chan! Tu hai fratelli? Io ne avevo uno, ma è
morto con i miei genitori. È stato ucciso dai briganti e…”. Alessandra non era
più riuscita ad ascoltare indifferente. Aveva sentito ogni parola. Pugnalate al
cuore. La stessa esperienza. O almeno un’esperienza molto simile. Eppure Rin ne parlava col sorriso sulle labbra. Senza farsi prendere
dallo sconforto. Senza deprimersi.
La ragazza si era chiesta quale fosse il suo segreto.
E l’aveva invidiata. Tanto.
Sesshomaru si stava allenando. E aveva totalmente
perso la cognizione del tempo. La luna ormai era già sorta da molto quando aveva deciso di fermarsi a rifiatare.
Solo allora l’aveva vista. Lo stava fissando dal limitare della radura.
Immobile. Sesshomaru non sapeva da quanto fosse lì. Non l’aveva sentita arrivare. Troppo concentrato.
Notò i suoi occhi inquieti fissare la sua mano, e in modo particolare la katana. Un brivido gli percorse la
schiena. Non avrebbe voluto che lo vedesse con Tokijin
in mano, mentre provava la sua forza. Mentre ne saggiava il filo. Con un gesto
aggraziato, rinfoderò la spada. Ma dentro di sé Sesshomaru
sorrise amaramente. Perché anche senza la katana in
mano, lui non poteva evitare di ricordarle l’omicidio che aveva compiuto
davanti ai suoi occhi. Perché in lui tutto richiamava la morte. L’armatura, la
mano artigliata, il nome…Perfino quel nome di cui era sempre andato
fiero, adesso temeva che potesse spaventare quella ragazza.
Alessandra lo vide rinfoderare la spada e avvicinarsi a lei. Negli occhi d’oro parole che non avrebbe mai pronunciato. Con quel gesto
le voleva forse chiedere scusa per averle nuovamente ricordato quello di cui
era capace? Perché aveva smesso di danzare con quella lama in mano? Perché?
Alessandra avrebbe voluto poterlo guardare ancora.
“Insegnami…”.
Sesshomaru udì la richiesta uscirle dalle labbra con
l’inflessione di una supplica. Ne rimase sorpreso. Assottigliò lo sguardo,
riducendo le pupille a due sottili linee nere che naufragavano nell’ambra. Non
capiva perché quella ragazza volesse imparare ad usare una spada. Era certo
che, anche in caso di bisogno, non avrebbe avuto la forza di usarla. Eppure nei
suoi occhi leggeva una determinazione che aveva scorto una sola altra volta:
quando l’aveva vista pattinare.
Non le aveva chiesto niente, né le aveva risposto. Ma il giorno dopo l’aveva chiamata, lanciandole la guaina di una katana. Se insegnarle a usarla sarebbe
servito a farla sorridere, allora gli andava bene. Glielo avrebbe insegnato.
Aveva estratto la sua spada, deponendo a terra Tenseiga,
e l’aveva invitata a sfoderare anche lei l’arma. Alessandra aveva seguito i suoi movimenti leggermente sorpresa. Non credeva che
avrebbe accettato.
Aveva snudato la katana, soppesandola in mano.
Lucente, affilata. Dal taglio sottile e un po’ ricurva verso la punta.
Bellissima e letale. Come il demone che aveva di fronte. Ammaliatore.
Sorprendente.
Sesshomaru era rimasto sorpreso. Piacevolmente. Aveva
una buona impugnatura, e sembrava anche possedere qualche rudimento di scherma.
Si era aspettato di trovarsi davanti una ragazza totalmente incapace anche solo
di impugnare correttamente l’arma. Aveva previsto solo quel pomeriggio per
fargliela bilanciare bene, con una mano sola. Invece…Invece Alessandra gli
stava di fronte con gli occhi concentrati e con la spada leggermente protesa in
avanti. Un invito. Una sfida.
Aveva sorriso. Compiaciuto. E aveva iniziato a duellare. A danzare. Perché
quella era una danza molto simile alla ciarda della ragazza. Una danza
d’acciaio. In cui per la prima volta dopo tanto non era solo a eseguirla.
Non era stato uno scontro vero e proprio. Solo un allenamento, per saggiarne
l’esperienza. La bravura. E brava lo era. Lo aveva dovuto ammettere. Non era
ricorso al suo youki. Non lo avrebbe mai fatto
neanche in seguito. Era solo un confronto fisico. Ma era stata in grado
comunque di sorprenderlo. Anche se lui la superava di molto per agilità e
potenza. Solo in resistenza avrebbero potuto eguagliarsi.
Alla fine, l’aveva disarmata. Prevedibile. Scontato. Ma Alessandra non se l’era
presa. Aveva raccolto la katana, visibilmente
soddisfatta.
Come si può gioire di una sconfitta?
C’erano volte, come quella, in cui il bel demone non la comprendeva proprio.
Per lui, una sconfitta era una sconfitta. Nulla di cui essere soddisfatti.
Anche se ci si fosse impegnati con tutte le proprie
forze. Una sconfitta restava sempre una sconfitta. E lei aveva perso. Ma era
soddisfatta.
Le si era avvicinato, sostituendo la sua mano alla
mano di lei, mentre cercava di agganciare il fodero alla cintura che portava in
vita. Sempre attento a non toccarla, a non sfiorarla neanche inavvertitamente.
Chiedendole con lo sguardo il permesso. Alessandra lo aveva lasciato fare,
inebriandosi del profumo di muschio che emanava il suo corpo. Un corpo saldo.
Muscoloso. Guizzante. Lo aveva visto danzare. Con quella lama argentea in mano.
Muoversi seguendo una musica invisibile. Fatta di sibili acuti come trilli di
pianoforti, di fendenti rapidi come scale di violino. Lo aveva visto eseguire
una danza mortale.
“Perché?”
Sesshomaru si era trovato a pochi centimetri da lei.
Dal suo volto. E aveva sussurrato. Una domanda. Per cercare di sciogliere un
po’ l’arcano dei suoi occhi cangianti. Una domanda. Con mille implicazioni. Con
mille riferimenti.
“Mio fratello era appassionato di scherma. Mi ha insegnato lui le mosse base”. Alessandra si era allontanata. Sesshomaru le era venuto troppo vicino per i suoi gusti.
Per la sua protezione. Si era allontanata, ma non perché ne avesse timore. Solo
perché ancora non si sentiva pronta a lasciarlo avvicinare.
“Riuscire a maneggiare una spada è un modo per non far morire il suo ricordo. E
per non esserne soffocata”.
Glielo aveva spigato dandogli le spalle. Rincorrendo parole lontane. Con voce
calma. Tranquilla. Solo un po’ malinconica. Solo poco. Sesshomaru
ne era stato soddisfatto. Una risposta essenziale, ma che conteneva tutto
l’indispensabile. E con una voce nuova. Quella che lui le voleva sentire.
“Guarda…”
La voce di Alessandra lo riscosse. Si era smarrito nei suoi pensieri. Con gli
occhi chiusi. Si era abbandonato ad un sonno strano, fatto di rievocazioni e
sensazioni. Non aveva dormito. E questo la ragazza lo aveva capito. Aveva
capito che i demoni non dormono quasi mai. Che non ne hanno bisogno. E allora
lo aveva chiamato. Con un sussurro. Mentre si rimetteva a sedere.
Sesshomaru seguì l’indice della ragazza, trovandosi
ad osservare un piccolo uccellino. Un pettirosso. Un batuffolo di piume
saltellante nella neve fresca.
Non capì. Cos’aveva quell’uccello di particolare?
Nulla. Era uguale a molti altri che abitano una
foresta. Si volse ad Alessandra. Ma le parole gli morirono in gola. Occhi che
sorridono. Gli occhi di Alessandra stavano sorridendo. In quei cieli azzurri in
cui le uniche stelle che aveva visto erano state quelle delle lacrime, ora
risplendeva una luce. Una luce dolce e delicata. Di commozione estatica.
Stai sorridendo…e tutto solo per un
uccello?
“È bello, vero?”. Cercava la sua approvazione. Cercava di coinvolgerlo. Ma lui
non vedeva nulla di strano. Nulla. Uccelli ne aveva visti molti. Ne vedeva ogni
giorno. Di molte specie. E anche lei. E allora perché in quel momento veniva rapita da uno di loro? Cos’aveva di così bello?
Sesshomaru non capiva.
“Non lo so…”. Non le volle neanche mentire. Si scoprì anche lui. Lui ammetteva
di non capire. Come non aveva mai capito la felicità di Rin
ad un suo semplice accenno, ad un suo movimento. Cosa possedeva il mondo che lo
circondava da essere capace di smuovere persino l’animo tormentato di
Alessandra.
La ragazza si voltò verso di lui. Non era sorpresa. Solo dispiaciuta. Che lui
non capisse. Che lui non desse importanza a quell’uccellino
solo perché era piccolo e fragile. Solo perché era diverso da lui. Non gli
disse nulla. Avrebbe voluto che lui capisse la magia di un passerotto su un
tappeto di neve. La magia della semplicità. Perché sentiva che quel ragazzo ne
era dispiaciuto. Dispiaciuto di non riuscire a provare nulla. Di essere freddo.
Si sentì osservato e voltò il viso. Ambra nello zaffiro. I loro occhi si
parlarono. Si capirono. Più di quanto le loro menti
volessero.
Sesshomaru si perse nello sguardo di Alessandra. Si
smarrì come gli era successo quando pattinava. La vide
dispiaciuta. Per lui. Triste perché non riusciva a comprendere. A gustare
quella cosa semplicissima che era capace di scaldarle il cuore. Percepì il suo
dispiacere. E ne fu colpito. Tanto che lui stesso si sorprese del sussurro che
gli usci dalle labbra.
“Insegnami…”