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Autore: Kim NaNa    05/06/2012    5 recensioni
"C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…“
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane, rallentando i battiti del mio cuore.
“Non adesso, Gabrielle. Non ancora…“
Questo mi disse.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Vieni con me.
 
Era il primo di Ottobre quando un primario di quel maledetto ospedale pubblico mi dimise.
«Può tornare a casa, signorina Cooper.  In questa settimana non ci sono esami clinici a cui deve sottoporsi, pertanto la mando a casa sua, ma le ricordo che il prossimo lunedì deve effettuare nuovamente il ricovero presso la nostra azienda ospedaliera.»
Mi sorrise quell’uomo dal viso paffuto e i capelli neri, e non capivo cosa avesse da sorridermi.
Casa.
Come se la mia casa fosse il posto più tranquillo e rassicurante della terra!
Io odiavo quella casa, la odiavo perché era mia.
I miei genitori erano troppo impegnati ad occuparsi della situazione finanziaria di famiglia e dell’impresa che gestivano per occuparsi di me.
Erano troppo ciechi per vedermi davvero.
Non s’erano neanche mai accorti che stavo scomparendo, lentamente, poco a poco.
Tornare a casa! Tsè! Solo un idiota come quel medico poteva pensare che la mia casa fosse migliore di una stanza d’ospedale.
E poi c’era Anthony. Non l’avrei più rivisto.
Si fece buio nel mio cuore.
C’era un timido sole quella mattina, quando con una piccola valigia nera  tra le mani, camminai a piedi per ore pur di attardare il mio rientro a casa.
Mi trascinavo lungo la strada, le mie gambe parevano essere trafitte da mille lame, ogni passo si rivelava una vera sofferenza, ma proseguivo in silenzio, nonostante la pesantezza di quei movimenti.
Era il mio cuore ad essere pesante, era lui l’unico fardello che gravava sulle mie spalle.
Ero io che incidevo sul mio essere, erano i miei pensieri ad appesantirmi l’anima.
Suonai il campanello del mio appartamento e cercai di riprenderei fiato.
Subito mi affrettai a fingere di stare bene: mi asciugai la fronte dal sudore, mi pizzicai le guance per colorarle appena e abbozzai un sorriso.
Dovevo fare l’attrice, io!
La storia riprendeva il suo percorso.
«Ciao sorella, sei viva allora?!»
La voce di mio fratello maggiore, Michael, mi attraversò la mente come un fiume in piena.
Detestavo il suo solito sarcasmo.
«Già, sono viva, per tua sfortuna. Io non sono malata, sono i medici a pensarlo.»
Lo superai senza neanche guardarlo, dirigendomi nella mia stanza e proprio mentre chiudevo la porta alle mie spalle gli sentii dire:
«Le tue sono solo manie di protagonismo.»
Chiusi gli occhi e trattenni il fiato. Sentii la rabbia crescere dentro di me e l’assurdo desiderio di prendere a sberle quel ragazzetto viziato di ventisette anni sfiorò i miei pensieri.
Odiavo il cinismo che regnava in quella famiglia. Ma non potevo farci niente, loro erano fatti così ed io dovevo adeguarmi.
I miei giorni a casa non furono migliori delle miei giornate trascorse in ospedale, al contrario.
Passavo il tempo a letto, a leggere decine e decine di libri. Ogni tanto guardavo un po’ di televisione e poi me ne andavo a dormire con tutti i miei pensieri, con tutta la mia solitudine.
Sabato mattina il cielo era limpido, c’era solo un vento freddo a rammentare l’arrivo della stagione autunnale.
Me ne stavo seduta sul mio letto, a guardare il leggero ondeggiare delle foglie d’acero del grande albero che s’ergeva dinanzi alla mia finestra.
Bussò qualcuno alla mia porta.
Era mia madre.
Una donna sulla cinquantina, ancora molto piacente, con qualche filo d’argento sulla capigliatura dorata. Aveva degli occhi piccoli di uno strano marrone, venato da una serie di pagliuzze gialle.
Nessuno avrebbe mai detto fossimo madre e figlia.
Eravamo troppo diverse e non solo esteticamente.
Sono diversa da tutti, io.
«Ti ho preparato la colazione, Gabrielle. Mi raccomando mangiala tutta, non devi aver mangiato cose prelibate in ospedale. Adesso vado, sono in ritardo. Ho un’importante riunione questa mattina.»
Andò via così, senza neanche voltarsi a salutarmi, senza neanche accorgersi che non avevo staccato gli occhi dalle foglie d’acero.
Guardai il vassoio che mi aveva poggiato sulle gambe.
Lo afferrai e lo misi sotto il letto, coprendolo meticolosamente.
Il mio quarto giorno di digiuno era appena iniziato.
Perché non mangiavo?
Al mio rientro a casa mi scoprii con un tale appetito da rimanerne io stessa sorpresa.
Mangiavo regolarmente ai pasti, assaporando il gusto dei cibi, senza avvertire quegli spiacevoli malesseri che influenzavano le miei giornate.
Ma il martedì sera, Michael, mi offrì una coca-cola e fu come se il mio stomaco si fosse offeso.
A me non piace la coca-cola, solo Anthony poteva offrirmela. La sua aveva un sapore diverso.
Ma non l’avrei più assaggiata. Non l’avrei più rivisto, almeno credevo.
È così la vita.
Tu prosegui i tuoi giorni come se nulla dovesse cambiare, ma un giorno ella si sveglia, scuote la tua anima e ti scombina ogni cosa, lasciando a te l’ardua impresa del ricominciare.
È un continuo inizio la vita.
Non la mia, però. La mia è sempre stata una fine. Ho sempre avuto l’impressione che qualunque cosa mi riguardasse sarebbe cominciata dalla fine, l’avrei vista cadere e morire in fretta, qualunque cosa fosse.
Uno strano picchiettio ruppe il rumoreggiare dei miei pensieri.
Mi guardai intorno senza capire cosa fosse.
Poi di nuovo e poi ancora.
Qualcosa urtava contro la mia finestra.
Alzarmi dal letto fu complicato. Non avevo le forze necessarie per mettermi in piedi, ma spinsi le braccia contro il materasso e mi misi in piedi.
Guardai fuori dalla mia finestra e, dopo giorni di silenzio e inespressività, sorrisi.
Anthony Sky, con indosso una tuta da ginnastica blu, lanciava sassolini contro la mia finestra per attirare la mia attenzione.
Aprii le imposte e mi affacciai sul davanzale salutandolo con una mano.
Quello strano fattorino, venuto dal nulla con la sua coca-cola, non si era affatto dimenticato di me.
«Buongiorno, Gabrielle!» Disse, sorridendomi.
Quel sorriso! Quanto mi era mancato.
Il cuore mi batteva forte, le mani mi sudavano. Come diavolo aveva fatto a scoprire dove abitavo?!
«Come hai fatto a trovarmi? …Dico, come hai scoperto il mio indirizzo?» Ero curiosa, ma ero felice.
Lui sorrise ancora. E come mi sorrise!
Mi sorrise con le labbra, mi sorrise con gli occhi, mi sorrise col cuore.
«Che importa?! L’importante è averti trovata! Su, dai. Scendi.»
Mi aveva trovata.
Non so perché, ma quelle parole mi fecero tremare le gambe. Mi tenni stretta al davanzale e continuai.
«Scendere? Ma sei pazzo? E per andare dove, poi?»
Mise il cappuccio della sua felpa blu sui capelli corvini e protese un braccio verso la mia finestra.
«Vieni con me.» Disse.
Quegli occhi… quella voce, quella mano, stavano chiamando proprio me.
Mi sentii un po’ come la Giulietta di William Shakespeare; dal mio balcone parlavo con un giovane affascinante.
Il pensiero mi fece sorridere e accennai un segno di conferma col capo prima di tornare nella mia stanza e di spogliarmi del mio pigiama.
Quando gli fui di fronte, dopo lunghissimi giorni, finalmente lo risentii.
Il suo profumo.
Quell’odore di pioggia che aveva solo lui.
E quegli occhi così misteriosi, perché mi guardavano in quel modo?
Afferrai la mano che lui mi aveva offerto e cominciò a correre.
«Aspetta. Aspetta. Fermati Tony, non correre così… sono troppo stanca.»
Dapprima si voltò a guardarmi, col sorriso stampato, intimandomi di continuare a correre, poi si fermò e, prima che potessi accorgermi di quanto stesse accadendo, mi ritrovai a cavalcioni sulla sua schiena.
«Ma che fai? Sei impazzito? Fammi scendere!» Gli urlai.
Ma lui proseguì la sua corsa e sghignazzando aggiunse:
«Non ancora. Reggiti forte, non è lontano dove devo portarti.»
Corremmo in quell’assurdo modo per una decina di minuti, poi, nei pressi di un luminoso campo di grano lui si fermò.
Con estrema cautela mi fece scendere, e con il viso illuminato dal sole, mi disse:
«Ti ho portata in paradiso!»
Mi guardai intorno. V’era solo luce, pace e quiete attorno a me.
Un vero giardino dell’Eden.
Anthony mi prese per mano, spezzò una piccola spiga di grano e si mise lo stelo in bocca.
«Vieni con me, ho portato qualcosa che voglio fare con te.»
Lo guardai senza riuscire a proferir parola, il suo sguardo era troppo serio per poter violare l’intensità di quel momento.
Mi portò sotto un grande albero di Platano e scorsi due biciclette appoggiate al robusto tronco.
«Non vorrai farmi salire su quella spero?!» Dissi indicando una delle due biciclette.
«E invece sì! Coraggio.»
Andò verso la bicicletta di colore verde e si mise in sella. Il sole, tra le verdi e gialle foglie di Platano, filtrava la sua luce rischiarando quegli occhi angelici che tanto mi rapivano.
Incrociai le braccia sul petto e assunsi un’espressione accigliata.
«Scordatelo! Io non salirò mai su quell’affare!»
Mi guardò con un' aria un po’ sorpresa, come se avesse appena appreso qualcosa di nuovo.
Scese dalla sua bici, mollandola sul prato e mi afferrò per un braccio spingendomi verso la bicicletta azzurra.
«Ti insegnerò io, Gabrielle. La vita è un continuo imparare, un crescente scoprire… ma non c’è nulla che non si possa fare.»
E mi guardò di nuovo con quegli occhi ai quali non ero mai in grado di dire no.
Ci provai.
Salii in sella a quell’odiosa bicicletta e provai a guidarla.
Caddi subito, ma Tony mi aiutò, tempestivamente, a rialzarmi. Caddi ancora e poi ancora. E poi di nuovo.
Era un continuo cadere, ma Anthony non mi aiutava più.
«Devi alzarti da sola, Gabrielle. Nella vita non è detto ci sia sempre qualcuno disposto ad aiutarti. Devi essere tu stessa la tua più grande amica!» Questo mi urlava.
Ero stanchissima.
Il vento si era fatto più pungente. Lo sforzo mi aveva arrossato le guance e il fiato mi mancava.
Tony se ne stava lì, in piedi, appoggiato contro quel Platano che sembrava essere il perfetto sfondo di quel misterioso ragazzo.
Mi guardava, mi scrutava, mi capiva.
Ero caduta ancora una volta, mi dolevano le gambe, ma spinta da una strana forza di volontà, mi alzai da sola senza che lui mi dicesse nulla.
Salii in sella alla mia bici e spinsi i pedali con tutta la forza che mi restava in corpo.
Pedalai. E pedalai.
Passeggiai tra le alte e dorate spighe di grano. Lasciai che il vento mi scompigliasse i capelli, permisi al sole di baciarmi il viso.
Ce l’avevo fatta.
Stavo pedalando.
Mi diressi verso Anthony volgendogli il mio miglior sorriso. Feci un giro intorno al grande Platano e poi mi fermai, proprio davanti a lui.
Non sorrideva.
Mi guardava serio, con una strana luce negli occhi, quella luce che aveva ogni qual volta osservava il cielo piangere le sue lacrime di pioggia.
«Potrai anche cadere cento volte nella tua vita, ma altre tante cento volte potrai rialzarti. E non importa se il dolore della caduta ti farà desiderare la rinuncia, tu rialzati e ricomincia. Non c’è nulla che non si possa fare in questa vita. Devi volerlo, Gabrielle, volerlo davvero.»
Mi poggiò una calda mano su una guancia continuando a guardarmi con quell'inspiegabile luce che riflettevano le sue iridi.
Mi penetrò l’anima. Mi gelò il cuore.
Cominciò a piovere e poi, i suoi occhi si persero, nell’infinito di quel cielo funesto.


NdA: questo capitolo lo dedico alla mia Unnie, perchè, mentre lo rileggevo per apportarne qualche modifica, ho pensato a lei.
Al prossimo aggiornamento.


Nanà-sshì
   
 
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