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Autore: __Stella Swan__    08/06/2012    1 recensioni
Il barista si bloccò davanti a me, fissandomi per qualche strano motivo. Forse per la maledetta somiglianza con le immagini della ragazza che avevano fatto vedere in televisione.
Tirai giù il cappuccio, continuando a bere la mia acqua tonica come se niente fosse. Rimassero tutti sbigottiti quando, al posto della chioma rossa che avevano descritto alla tv, videro un corto taglio corvino. Inarcai le labbra verso il barista, invitandolo a darmi altro da bere.
Meno male che avevo avuto la bella idea di cambiare un po’ il mio aspetto, prima di recarmi a Londra.
Non mi avrebbero trovata facilmente.
{Estratto dal Prologo}
Storia sospesa
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Secondo giorno: Piccadilly Circus.


Svegliarsi tra quelle coperte soffici era una bella sensazione. Qualche debole raggio di sole mi stava scaldando la pelle, perciò mi stiracchiai e sorrisi tra me e me. Quel giorno avrei potuto comportarmi come una perfetta turista nei dintorni di Piccadilly Circus. Rimasi coricata ancora per una mezz’oretta buona, dato che non avevo alcuna fretta.
Quando sollevai la schiena vidi che l’orologio segnava le dieci e mezza del mattino. Mi alzai ancora assonnata ed aprii la finestra: fui investita de un’aria gelida, ma non quanto quella che ero abituata a sopportare a Bistrița, in piena Transilvania. Davanti a me ero solita vedere un’immensa distesa verde di colline, dietro la mia casa – anzi, era più corretto dire il mio castello – c’erano alcune montagne rocciose, dalle punte aspre.
Adesso invece vedevo strade che brulicavano di persone, macchine che andavano e venivano in senso opposto a quanto fossi abituata.
Andai in bagno per lavarmi la faccia e vestirmi: decisi di mettere un paio di jeans blu mare ed una felpa nera. Misi un nuovo paio di lenti a contatto castane e ripresi la parrucca che avevo il giorno prima sistemandola accuratamente, senza che nessun ciuffo scappasse da qualche parte. Per i giorni in cui rimanevo nell’hotel mi conveniva farmi vedere sempre con la stessa acconciatura dalla reception, oppure avrebbero cominciato a farsi delle domande.
Scesi nella sala dove servivano la colazione: di fronte a me c’era un enorme tavolo colmo di cereali, frutta di stagione, prosciutto, uova, pancetta, marmellate varie e fette di pane. Presi un piatto con due fette di pane, marmellata alle fragole e un bicchiere di latte. Dovevo esser leggera, non potevo certo riempirmi la pancia come un pallone. Mi avessero scoperta avrei dovuto correre, e molto velocemente.
Mi sedetti ad un tavolo vicino ad una finestra. La sala era praticamente vuota, c’era solo un uomo di mezza età dalla parte opposta rispetto a dove mi ero sistemata io. Stava mangiando un panino con prosciutto, uova strapazzate e bacon. Il suo sigaro era acceso e sistemato sul posacenere: si sentiva un terribile odore di tabacco e mi dava particolarmente fastidio.
Mi lanciò un’occhiata non molto furtiva, siccome si imbambolò a fissarmi per qualche minuto buono. Le sue guance erano rosse come due pomodori, i capelli troppo lunghi arruffati ed appiccicati al volto come se fosse sudato, gli occhi azzurri come il cielo d’agosto ma così vuoti. Cercai di non badare al suo insistente interesse per me, anche se man mano la mia ira cominciava a ribollirmi nelle vene.
Ero solita attirare l’attenzione delle persone perché, come dire, ero “piuttosto attrezzata”, se vogliamo usare termini che si usano al giorno d’oggi per descrivere una ragazza con le curve al posto giusto.
Anche per questo motivo mio padre era sempre stato fin troppo protettivo nei miei confronti. In realtà, solo pochi mesi fa avevo scoperto il vero motivo della sua ossessione per me.
Finii di mangiare velocemente, per poi alzarmi e tornare in camera mia. Mi lavai i denti e mi truccai attentamente con matita nera e rossetto color champagne. Non ero abituata a truccarmi, ma per mascherarmi ero stata costretta ad imparare anche quello.
Misi un cappotto che arrivava fino alle ginocchia e la sciarpa alta, pronta per uscire dall’hotel.
La ragazza dietro il bancone della reception mi salutò con un sorriso ed il maggiordomo mi aprì la porta, augurandomi buona giornata. Erano così particolarmente gentili le persone di Londra. Molto più che in Transilvania.
Camminai per circa cinque minuti, attraversando il centro del Leicester Square: c’erano bambini che giocavano coi genitori, mimi che cercavano di guadagnare qualche spicciolo e semplici persone che passeggiavano. Era autunno ma faceva già piuttosto freddo. Alcune persone avevano già tirato fuori dall’armadio il loro cappotto pesante, le sciarpe alte fin sopra il naso e addirittura i guanti.
Mi diressi poi verso Piccadilly Circus, percorrendo la Regent’s Street.
Molte persone stavano già facendo shopping sebbene fosse ancora mattina: donne con così tante borse tra le mani che non si vedevano nemmeno la punta dei piedi, uomini che strisciavano dietro di loro, già stanchi dopo aver visitato il secondo negozio della giornata. La Piccadilly Street era una delle più famose vie dello shopping di Londra, quindi la cosa mi stupiva fino ad un certo punto.
La vita era diversa rispetto a Bistrița: là non si vedeva certo gente che girava per i negozi a quell’ora del mattino. Le persone lavoravano per poter mangiare. Ovviamente c’era anche la zona della città più “rinomata”, se così potevamo dire. In ogni città del mondo c’era almeno un ricco proprietario di terre e ricchezze. Beh, in quella terra era mio padre.
Arrivai tranquillamente in piena piazza, soffermandomi all’altezza dell’uscita della metro. Tenni una cartina in mano per far finta di essere una turista ed esaminai perfettamente ciò che mi circondava: di fronte a me c’era la Shaftesbury Memorial Fountain, la famosa fontana che rappresenta Eros, l’arco in mano e la freccia già scoccata; sulla mia destra c’era il London Pavilion, nella quale c’erano numerosi negozi ed il Trocadero; a sinistra il Criterion Theatre.  
Infinite macchine passavano sulla strada che costeggiava la zona pedonale: i bellissimi taxi nero lucidi a puntino, i double bus turistici e macchine di lusso.
Mi voltai e puntai verso Leicester Square, siccome ero intenzionata a controllare se ci fossero ancora le guardie davanti casa mia. Mi ero già arresa all’idea che non avrei mai potuto varcare quella soglia – e una persona intelligente non lo avrebbe di sicuro fatto, non con un padre infuriato alle spalle – ma ero curiosa.
Continuai lungo la Piccadilly Street schivando le persone di corsa per circa duecento metri, poi svoltai all’altezza di Sackville Street, controllando che nessuno mi stesse seguendo. Era una precauzione che avevo preso da anni ormai che si era acuita nel momento in cui la mia fuga era cominciata.
Mantenni la destra della strada, camminando sul marciapiede con gli occhi fissi a qualche metro più avanti: potevo vedere dall’inizio della via le due guardie che c’erano già il giorno prima davanti al portone di casa mia. Camminai fino al numero sette e mi fermai davanti all’edificio: il portone in legno era stato coperto da una barriera metallica, utile anche a non far entrare nessuno. All’apparenza era un semplice edificio in mattoni rossi, con piccole finestre bianche che si susseguivano a nemmeno un metro di distanza, il balcone in ferro battuto esattamente sopra il portone d’ingresso.
Le due guardie – che fino a quel momento stavano parlando – si accorsero della mia presenza e si zittirono all’istante. Non era molto sicuro rimanere imbambolata lì davanti a fissare casa mia, ma non riuscivo nemmeno ad andarmene: perché dovevo scappare dall’unico luogo che avrebbe potuto offrirmi riparo?
Semplice: perché lì dentro non ero affatto al sicuro.
La guardia più giovane si avvicinò a me, attraversando la strada dopo aver lasciato passare una macchina. Mi spaventai non appena lo vidi comparire davanti ai miei occhi, ma non diedi alcun segno di tremore. Era il ragazzo dai capelli biondi ed ora riuscivo anche a vedere i suoi occhi: erano ambrati, un colore insolito e dannatamente acceso, caldo. Mi sentivo quasi travolgere da quelle ondate di benessere che emanavano, quasi fosse una sensazione nuova. Non mi accorsi nemmeno della prima domanda che mi fece, talmente tanto mi fossi concentrata su quelle iridi.
«Come, scusi?», chiesi con perfetto accento inglese, ma lasciando intendere che fossi una turista. Strinsi la cartina tra le mani e sorrisi timidamente.
Il ragazzo spezzò la tensione con un sorriso amichevole. «Ha bisogno di aiuto, si è persa?», chiese. La sua voce era così sensuale, maledettamente sensuale. Non sembrava nemmeno umana, ma più appartenente ad una creatura celeste. Scossi la testa più a me che alla sua domanda: non potevo di certo pensare ad un ragazzo, specialmente se incaricato a tenermi lontana da casa mia e – in teoria – costretto a consegnarmi a quel mostro di mio padre.
«In realtà stavo solo curiosando intorno: non voglio perdermi nulla di Londra!», esclamai allegramente.
La guardia mi sorrise e fece un cenno con la mano verso il suo compagno. «Fate bene, è una città magnifica».
Alzai ancora gli occhi sulla mia casa e mi morsi il labbro. «E’ forse successo qualcosa qui?», chiesi innocentemente. Il ragazzo si voltò verso l’edificio e sospirò. «Mi pare strano vedere delle guardie di Scotland Yard davanti ad una casa, in una via secondaria. Spero sia niente di grave».
Si grattò la testa, scompigliandosi i capelli. «No no, non si preoccupi. Dobbiamo assicurarci che non arrivi una persona, tutto qui. Anzi, in realtà speriamo che arrivi».
«Perché, è forse scomparso qualcuno da questa casa?». Piegai la testa su un lato e studiai a fondo quel ragazzo: doveva avere qualche anno in più di me, ma sembrava alle prime armi con quel lavoro. Anzi, forse non aveva nemmeno lui idea del perché si trovasse davanti a quella casa. Dubitavo fortemente che avessero messo a conoscenza questo ragazzo dell’esistenza dei vampiri.
«Da un po’ di tempo è scomparsa una ragazza in Ungheria e si sospetta possa venire qui, siccome è casa sua», spiegò tranquillamente. «Anzi», e tirò fuori una mia foto di qualche anno prima, mostrandomela. «Se vede questa ragazza in giro potrebbe essere gentile da tornare ad avvisarmi? E’ molto urgente».
Annuii continuamente, rivolgendogli un sorriso sincero. «Certamente signore, non si preoccupi».
Il ragazzo riprese la foto e la ritirò in tasca, soffermandosi ad osservarmi. Non riuscii far altro se non sorridere, notando il modo in cui mi stesse squadrando. «E’ la prima volta che viene qui a Londra?», chiese.
«Sì, sto girando tutte le capitali europee. Io sono di New York, ma ho parenti qui in Inghilterra. Mi sono presa qualche settimana per me e così faccio la turista».
«Da sola? Non è il massimo, potrebbe essere pericoloso. E poi in compagnia tutto è più divertente», ridacchiò.
Mi unii alla sua risata, lanciando un’occhiata all’orologio. «Lo so, ma nessuno dei miei amici era intenzionato a vivere alla giornata come faccio io, spostandosi di hotel in hotel». Mi morsi la lingua per aver appena detto una cosa che, effettivamente, facevo. E l’interesse del ragazzo stava aumentando ed evadendo i limiti consentiti per la mia sicurezza. «Mi scusi, ma ora devo andare. E penso che il suo collega possa prendersela con lei per averlo lasciato da solo».
Si voltò ridacchiando divertito, lanciando un saluto ironico all’altra guardia. Questi gli rispose aggrottando le sopracciglia, ma sorridendo. «Si certo, mi scusi se l’ho trattenuta signorina…». Si bloccò in attesa di una risposta.
Oh merda, non ero preparata a questo.
Non mi ero posta il problema che mi chiedesse il nome, per cui non mi ero nemmeno preoccupata di pensare ad una falsa identità. Beh, in realtà ce l’avevo già dal momento in cui avevo messo piede fuori dal mio paese, ma non volevo utilizzarlo anche per banalità del genere.
Per non apparire impacciata e sospettosa, decisi di essere sincera. «Mia». Era il diminutivo che usavano sempre per chiamarmi i miei servi e i pochi amici che avevo a Bistrița. La guardia mi prese la mano e la baciò dolcemente, senza smettere di sorridere.
«Signorina Mia». Dopo avergli lanciato un’ultima occhiata mi dileguai da quella via e dalla vista della guardia di cui non sapevo nemmeno il nome. Uscii dalla Sackville Street e tornai a Piccadilly Circus, concedendomi un’oretta di pausa pranzo all’Aberdeen Steak House.
Mangiai una bistecca di angus argentino con molta calma: avevo tutto il giorno libero davanti, sebbene fossero quasi le due del pomeriggio. Verso le cinque sarei tornata in hotel per un bel bagno caldo e, magari, un po’ di palestra. Dovevo controllare se l’hotel ne disponesse uno, altrimenti sarei andata a cercarne una nei paraggi.
Per il resto del pomeriggio mi imposi di non tornare alla mia casa, o la guardia si sarebbe fatta due domande. Beh, da come mi guardava magari poteva pensare che fossi tornata per parlare ancora con lui e, magari, strappargli un appuntamento.
Ma non era il caso, per niente.
Prima di tornare in hotel feci un giro al London Pavillion, al Lillywhites e al Gap. Comprai un vestito nero lungo fino alle ginocchia e le spalline sottili, così avrei potuto vestirmi decentemente in qualche occasione.
Poi decisi di tornare all’hotel e subito il maggiordomi mi aprì cortesemente la porta. La ragazza dietro il balcone mi salutò come al solito ed io cercai immediatamente una palestra all’interno dell’edificio. Con gioia vidi una sala fitness, non molto grande ma adatta a quel che volevo fare: un po’ di corsa ed esercizi per le spalle.
Salii prima in camera per mettermi una tuta e lottai con tutta me stessa per non togliere la parrucca e le lenti a contatto, che ormai iniziavano a dar fastidio.
Scesi con un paio di pantaloni neri lunghi ed una canottiera dello stesso colore, tenendo in una busta le chiavi e portandomi insieme un asciugamano. La saletta fitness era vuota a quell’ora, per cui avrei potuto rilassarmi in pace.
Feci una prima mezz’oretta di corsa sul tapis roulant a velocità media, feci un po’ di affondi e poi mi dedicai alle mie braccia. Non ero assolutamente intenzionata ad aumentare la mia massa muscolare, ma più che altro a mantenere la mia tonicità. Prendere a pugni qualche vampiro richiedeva un po’ di allenamento, o mi sarei spaccata le ossa ogni volta.
Passò circa un’oretta e mezza ed era ora di farsi un bel bagno, per poi cenare. Non appena presi l’asciugamano per tamponarmi il viso entrò nella sala quell’uomo che avevo visto il mattino durante la colazione: aveva una maglietta bianca che seguiva perfettamente le sue “rotondità” su pancia e fianchi, un paio di pantaloncini fino le ginocchia e una bottiglietta in mano.
Subito i suoi occhi azzurri si spostarono incuriositi su di me, soffermandosi sulle zone per lui più interessanti. Presi velocemente la mia roba ed uscii dalla sala, fulminandolo con lo sguardo. Possibile che dovesse osservarmi in quel modo ogni volta che mi incontrasse? Per fortuna stavo in quell’hotel per poco tempo.
Salii in camera ed ordinai la cena in camera: un piatto di pollo e patate in umido ed una fetta di torta al cioccolato. Non era il massimo della dieta, specialmente dopo aver smaltito un po’ di calorie in palestra, ma poco mi importava.
Mentre aspettavo il cibo riempii la vasca d’acqua calda e la profumai con sali da bagno alla rosa, cominciando a distendere i miei muscoli. Non appena entrai in contatto con l’acqua mi sentii rilassata all’istante: un bel bagno era la cosa migliore del mondo, la sera, prima di cena. Tenni ancora la parrucca e le lenti a contatto: le avrei tolte solo dopo aver aperto la porta al cameriere con la mia cena.
Poggiai la testa sul marmo della vasca, concedendomi un po’ di relax ad occhi chiusi.
Ripensai alla guardia dello Scotland Yard che controllava casa mia: quelle iridi continuavano a balzare nel mio cervello, deconcentrandomi dal mio obiettivo. Beh, non che avessi un vero obiettivo, dato che l’unica cosa di cui mi preoccupavo era solo scappare e non farmi trovare o riconoscere da qualcuno. Ma doveva proprio guardarmi in quel modo?
Dopo una ventina di minuti uscii dalla vasca e misi la vestaglia, accendendo la tv. Subito dopo arrivò la mia cena e portai il carrello in camera mia. Congedai il cameriere lasciandogli la mancia e, finalmente, tolsi lenti a contatto e parrucca. Mi sentii un po’ meglio, trovando quelle iridi grigie nello specchio: non mi sentivo quasi me stessa con gli occhi castani. Ma faceva parte del gioco, quindi non potevo tirarmi indietro.
Mi sedetti sulla poltrona e cominciai stancamente a mangiare, guardando un telefilm inglese e controllando il telegiornale. Non diedero nuove notizie sulla mia scomparsa ed il servizio durò pochi minuti al terminare del tg.
Sospirai, avvicinandomi alla finestra ed afferrando le tende. Diedi ancora un’occhiata alla strada sotto di me, per poi chiudere tutto ermeticamente e sprofondare nel letto.
  
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