I risultati delle analisi
fecero sobbalzare dalla sedia il
dottor Kermel, che si convinse della veridicità dei miei
sintomi. Mi disse
che i campioni prelevati avrebbero
richiesto uno studio più che approfondito
e che sarei dovuto tornare da lui tra quattordici giorni.
"Due settimane? IO
VOGLIO RISPOSTE, E LE VOGLIO ADESSO!"
"Sia paziente zignor Parker. Come posso fornirle
risposte? Le
assicuro che una settimana
è già un tempo ristretto. Le prometto che
lavorerò sodo solo sul suo caso.
Anche di notte se necessario."
Nulla e nessuno mi
avrebbero smosso. Alternavo
periodi di profonda depressione e
grave crisi, a momenti di incredibile sbalzo ormonale, in cui cercavo
in ogni
modo di fermare quel sovrannaturale rimpicciolimento.
Provavo a fare esercizi di stretching, facevo piegamenti
sulle braccia, trazioni sulla sbarra, arrivai a pensare addirittura che
fosse
il sonno a farmi quell'effetto. Rimasi sveglio per più di 48
ore, alleviando le
mie veglie con lunghi caffè concentrati. Non
cambiò nulla.
La decrescita continuava ineluttabilmente a gravare su di
me.
Avevo paura di misurarmi.
Quasi terrore. E
pensare che fino a poco tempo prima, da
quando avevo solo tredici anni, mi misuravo anche due volte al giorno,
tanto
ero appassionato. E di mese in mese mi vedevo crescere.
Ora di giorno in giorno, stavo subendo
l'effetto contrario.
Me ne rendevo conto anche senza prendere le misure. Bastava
guardare a che altezza mi arrivava il pomello della porta di casa per
rendermene conto. Ogni giorno, quel fottuto pomello era sempre
più alto!
"Sei contenta adesso, eh? Brutta puttana!"
Con un pugno spaccai
il vetro dello sportello dei medicinali e la presi.
La mia mano, grondante di sangue scuro,
stringeva ora tra le dita quel diabolico elisir
che aveva trasformato un sogno soave in un terribile
incubo.
Scagliai il flacone di DreamofGod contro il muro. Il liquido si disperse schizzando dappertutto. Avrei pensato di sentirmi meglio dopo, ma non fu così. Mi sentivo solo incredibilmente stupido.
Non so neppure io quali fossero le mie intenzioni. Forse
avrei sperato di non risvegliarmi più. Era strano, sono
sempre stato un amante
della vita, o meglio, della MIA vita.
Eppure furono una manciata di centimetri a rendermi un
suicida represso. Avevo
tutto e non avevo niente. Fu
in quel preciso istante che me ne
capacitai.
Quello era il grande giorno.
Le prove di selezione per entrare nella squadra di Khalim
Muhared
sarebbero state esattamente
"...Dieci minuti fa..."
Avevo scavato così in profondità nel pantano
dello squallore
che ormai la notizia non mi tangeva minimamente. Una parte di me
tuttavia mi
sussurrava di prendere al volo quella chance.
Mandare all'aria una simile occasione mi avrebbe turbato
psicologicamente per tutta la vita più di qualsiasi altra
cosa, molto più di
quanto avrebbe fatto un fallimento.
Raccolsi gli stracci sudati che avevo usato l'ultima volta
per allenarmi e uscii di casa.
Inutile dire che a entrambi era caduta la mascella dallo
stupore. Eppure mi sentivo incredibilmente spudorato, non temevo di
essere
giudicato dagli altri dal momento che ero sopravvissuto allo spietato
giudizio
di me medesimo, la sera prima. Il
dubitare
della folla aveva poca importanza.
Nulla aveva più importanza ormai, visto che avevo perso il
rispetto che nutrivo per me stesso.
Eppure sia la folla che la giuria sembrava essere ammaliata
dalle prodezze atletiche, che io avrei definito ridicole, di alcuni di
loro.
Quando giunse il mio turno, i dirigenti della compagnia mi
guardavano come se fossi un alieno. I loro sguardi sdegnosi ed
arroganti
sembravano quasi volermi incolpare di un crimine di cui non mi ero mai
macchiato,
ma di cui ero forse colpevole: quello di essere assolutamente al di
sotto delle
loro aspettative.
"E tu chi saresti? Saresti
venuto per le
prove?" chiese
Muhared, e intanto
più di uno nel pubblico sogghignò.
"Il mio nome è Jack Parker"
"Parker? Mi
prendi in giro?" Khalim
gettò un'
occhiataccia glaciale verso l'uomo calvo di cui non mi sono preso la
briga di
segnarmi il nome,
"Mi avevi detto che era un giovane prestante, sopra i
sei piedi e due."
L'uomo scrollò le spalle
"Ma sì...Lui...era...lui..."
"Ho capito, ho capito. Questo è quello che mi merito
per essermi circondato di insulsi incompetenti yesman.
Questo qui raggiunge a mala pena i sei
piedi"
Muhared si voltò verso di me con occhi ancor più
gelidi e continuò
"Signore" lo interruppe il tipo pelato
"Ma forse...Non vorrebbe vederlo prima giocare?
Io le garantisco che è un autentico fenomeno e..."
"Per favore
signor Hankings, lei ha già fatto abbastanza per oggi. Si
degni solo di tacere,
adesso."
Continuò a parlare, sembrava provasse piacere nell'udire il
suono della sua voce.
Ero rimasto a fissare quel grasso, sgradevole individuo
senza udire una sola parola di ciò che avesse realmente
detto.
"Sono migliore di tutti questi buffoni messi
assieme." Gridai.
Il silenzio che era calato sulla sala ora era rotto dalle
grida di disapprovazione degli amici e parenti di quei buffoni.
"FUORI! FUORI!" gridava
Muhared assieme a quella
folla che ora sembrava quasi essersi coesa e dimenticata chi io fossi. Gente che meno di un mese
prima gridava a
squarciagola il mio nome con gaudio e giubilo, adesso gridava il mio
nome con
odio e disprezzo. Uscii dalla sala accompagnato dai fischi e dagli
improperi.
Così il treno del successo sarebbe partito senza di me, ma
era davvero quello il treno del successo?
"Mi interessava davvero entrare in quella squadra
ridicola?" dissi tra me e me.
Stranamente avevo perso ogni interesse a prestarmi a quella pagliacciata e non mi curavo minimamente di tutta la loro disapprovazione. Se erano quegli imbranati che la gente voleva, ebbene, io non mi sarei certo messo in mezzo. Non avrei provato che disagio ed imbarazzo ad essere accostato a dei tipi come loro. Era un bene che non avesse voluto vedermi, nessuno di quelli era al mio livello.
Fred, Craig e Dan mi correvano dietro.
"Ma...ma sei impazzito? Cosa
t'è preso? Perché
hai insultati tutti in questo modo?.
Quello era il presidente della EAB,
un'associazione con una grande influenza anche sull'NBA."
"Ma...ma che dici, erano dei fenomeni."
"Fenomeni? mi prendi in giro?"
"Che ti prende, Jack?
Sei strano" disse Dan
"Non
rispondi più al telefono, e anche Jane è
preoccupata."
"Che mi prende?! Che mi prende? Guardami
stupido idiota. QUESTO
mi prende! Sto soffrendo di un-un... nanismo
regressivo, e voi invece di aiutarmi continuate i vostri stupidi
allenamenti ed
a parlarmi di voi stessi"
"Noi..."
"Lasciatelo andare" disse
una voce dietro di loro. John.
"Ah è
così che la pensi eh?"
Mi avvicinai a quello che un tempo era un amico sincero, un
compagno inseparabile, un vero fratello.
La differenza di altezza che sussisteva tra me e lui era
rimasta, ma
questa volta ero io a guardarlo dal basso.
"Quando avrò risolto il mio problema, mi
ricorderò di
questo, John."
"SE risolverai il tuo problema" disse con
espressione sarcastica e ghignante. Oltre a non aver adempito ad i
doveri di migliore
amico, mi prendeva anche in giro.
"Sei un bastardo!"
mi basto spintonarlo con una mano per farlo finire col
culo per terra.
Almeno la mia forza era rimasta invariata.
Gli altri del gruppo cercarono di ragionare, ma mi liberai
velocemente della loro amichevole, ipocrita stretta.
"Voi fate pure ciò che credete...Io ho
chiuso." dissi.
"Ma sì, scappa con la coda fra le gambe!
Vattene via, e non farti rivedere!"
strillava e sbraitava John alle mie spalle.
"John, è uno stronzo! E anche tutti gli altri! Mi apprezzavano solo per il mio talento. Ho visto come la gente che poco prima mi idolatrava, ha iniziato ad insultarmi e fischiarmi. Per chi poi? Quei quattro spilungoni che sarebbero capaci di sbagliare persino un tiro libero.
Non sono alla mia altezza! Nessuno è alla mia altezza!"
La rabbia che provavo lentamente evaporò, e senza neppure rendermene conto, un ghigno idiota s'era stampato sul mio volto. Emisi un gemito sordo che sarebbe dovuto essere una risata.
"nessuno...è...alla mia altezza" incominciai a ridere pervaso da una follia senza nome , poi scoppiai in una fragorosa risata. "NESSUNO E' ALLA MIA ALTEZZA!" La stanza intorno a me girava, assieme a tutta la mobilia, mentre, senza neppure ricordarmi di essemi alzato in piedi, incominciai a roteare su me stesso assieme ad essa sghignazzando a squarciagola.
E mentre distruggevo
ciò che era rimasto integro lì dentro,
questa volta guidato da lucida follia e non più dalla
rabbia, udii qualcuno bussare
alla mia porta.
Ci misi qualche minuto per tornare in me. "E'
John" pensai "E'
venuto qui
per chiedermi scusa".
Aprii la porta e vidi Jane.
"Oh, sei solo tu"
Lei mi guardò con uno stupore tale che probabilmente si
sarebbe aspettata che mi uscisse un cucù dalla fronte.
"Solo...io?"
ripeté.
"Entra" le
dissi, camminando
tra i frammenti di
vasi distrutti e lampade in frantumi.
Trovò una sedia su cui sedersi ed incominciammo a
parlare. Non
ricordo bene cosa mi disse,
né voglio prendermi la briga di sforzarmi e ricordare.
Passò del
tempo, che a me parve un'eternità, in cui parlava
quasi sempre e solo lei. Quella mia ultima scenata da pazzo mi si
ritorse
contro e servì solo a darle un'altra giustificazione per
lasciarmi... per
tradirmi.
Già, come se non lo avesse già in programma nel
momento in
cui persi l'occasione della mia vita.
Quella puttana era interessata al mio denaro, al mio
successo, non a me.
La presi con filosofia.
Restai in
spartano silenzio a
fissare un punto fisso davanti a me anche molto tempo dopo che Jane
lasciò la stanza
e la casa.
Prima ero cieco, ora vedevo.
Sotto la doccia notai che il mio fisico era divenuto più
tonico e definito che mai, ma ormai che senso aveva?
La mia felicità si fondava su delle false illusioni. Si
radicava sulla mia ingenuità. Sul raggiungimento del mero
piacere fisico e il
più superficiale appagamento mentale.
Sì, perché se davvero il mio scopo
era essere amato e stimato da tutti
per quale motivo avevo fatto in modo che la gente amasse l'etichetta
che avevo
dato di me?
Avevo dato loro modo di
amare un mio Uno dei centomila volti
che in realtà sapevo di possedere.
Un
Uno che ora stava morendo, e d'ora di me non era rimasto che un nessuno.
Loro amavano una maschera che non mi rappresentava, e
maledetto me che non me ne sono mai reso conto.
Il risultato di quella scoperta mi arrecò
più sofferenza di quanta avrei
potuta provarne se avessi incominciato a ragionare in quel modo tempo
prima.
Ma ora BASTA. Ero
stufo delle illusioni, stufo degli inganni.
Perché mentire a me stesso? Perché
vivere così?
Mi feci coraggio e mi misurai.
"Uno e settantanove" Mantenni la calma, grazie al mio rinnovato senso di responsabilità e di ironia, ma questo non servì a frenare il mio stupore.
"Allucinante. Sto
perdendo diversi centimetri ogni giorno... Spero che il dottor Kermel
abbia
trovato una soluzione. Manca
ancora una
settimana e poi potrò passare da lui. Inutile farmi prendere
dal panico e
recarmi da lui prima.
Ma se non mi da delle risposte soddisfacenti sono pronto ad ucciderlo,
quel maledetto...Prima di suicidarmi"
Incominciai a studiare morbosamente il mio corpo per vedere cosa non andasse e dove avevo perso i centimetri, se avevo le gambe più corte, o il collo, o il busto. Nulla. Mi trovavo sempre uguale, ben proporzionato e, paradossalmente, più in forma che mai. Insomma, se non vedessi il mondo attorno a me ingigantirsi, non avrei mai neppure detto di essermi rimpicciolito. Ma purtroppo è tutto relativo, e quel relativo che era accessibile al vecchio me, stava diventando decisamente troppo irraggiungibile per il nuovo.
Incominciavo addirittura a sospettare che fossi stato maledetto, che quello fosse stato il risultato di un anatema lanciatomi contro da una qualche zingara a cui non avevo dato i miei spiccioli.
Poi la razionalità prese il sopravvento.
"No... Questi sono gli effetti di quella droga, ed ora mi ritrovo a raccogliere quel che ho seminato..."
Manlets: è la denominazione che danno i giovani americani per sbeffeggiare gli uomini che non superano i 6 piedi d'altezza (6 piedi= 180 centimetri) detta anche Sindrome di Napoleone. Letteralmente racchiude i termini Man (uomo) e Less (meno).
Muggsy Bogues: con i suoi 158 centimetri fu il più basso giocatore nella storia dell'Nba
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