Ciao a tutti!
Come promesso, ecco la seconda parte. Vi ha lasciato in
sospeso, vero? Sesshomaru ferito,
gravemente...sfigurato!!! Come andrà a finire?
Buona lettura!!!
Grazie infinite a tutti coloro che leggono e commentano!
CAPITOLO 17
BUIO
Sesshomaru rimase senza conoscenza per vari giorni.
Quando riuscì a riprendere un po’
coscienza del suo corpo, capì soltanto di trovarsi disteso. Forse in un letto. Forse
ancora in quella maledetta radura. Sentiva che qualcuno si muoveva attorno a
lui. Silenzioso. Discreto. Non capiva chi fosse. Forse
un altro demone. Forse Naraku stesso che era tornato
a dargli il colpo di grazia. Sconfitto. Questa volta lo sarebbe stato. Era
totalmente inerme. A stento, riusciva a percepire il suo respiro. Il copro era completamente insensibile.
Chi sei?...
Non riusciva a capirlo. Non
riusciva a distinguere gli odori. Tutto gli arrivava confuso ai sensi.
Distorto. Aveva provato ad aprire gli occhi, ma non ci era riuscito. La
stanchezza, la debolezza e poi…sentiva qualcosa sopra le palpebre. Qualcosa di
fastidioso.
Vagamente, iniziò a rendersi
conto che qualcuno lo stava curando. Forse un ningen,
pensò. Solo loro possono ignorare il fatto che un youkai
non ha bisogno di cure. Che il suo corpo si rigenerare nel giro di poche ore,
al massimo nell’arco di pochi giorni. Sì. Doveva essere un umano. Forse una
sacerdotessa. E non doveva essere passato molto tempo dallo scontro. Al massimo, mezza giornata. Non di più.
Nel delirio della febbre, gli
sembrava di avvertire la presenza di qualcuno accanto a lui. Sensazioni.
Percepiva solo frammenti di sensazioni. Neanche il dolore. Quello gli era
pressoché sconosciuto. Acqua…Qualcuno gli bagnava le labbra riarse. Sapore
amaro in bocca. Disgustoso. Avrebbe voluto allontanare quella scodella.
Rifiutarsi di inghiottire. Ma non ce la faceva. Non ancora.
Oppure, sentiva una sensazione di
fresco sul viso. Come se qualcuno lo accarezzasse. Una mano leggera s’insinuava
nei suoi capelli. Glieli scostava dal viso. Gli sfiorava il volto. Non riusciva
a sentirla, però, quella pelle. La percepiva come filtrata attraverso a
qualcosa. Qualcosa di indefinito.
Aveva momenti di tranquillità
quasi comatosa e momenti di agitazione febbrile, durante i quali percepiva la
difficoltà del curatore di tenerlo fermo. Non riusciva calcolare il tempo. Gli
sembravano trascorrere pochi secondi fra le sensazioni, ma non ne aveva la
certezza.
Avrebbe voluto sapere dove si
trovava. Chi lo stava curando. Forse era Jacken. Si
doveva essere preoccupato del suo ritardo ed era tornato indietro. Scacciò
subito quel pensiero. Il suo servitore sapeva bene che lui non aveva bisogno di
cure. No. Era qualcun altro. Ma chi?
Cinque giorni.
Per cinque giorni Alessandra era
rimasta al capezzale di Sesshomaru. Si era
allontanata solo il tempo necessario a procurarsi erbe e acqua. Ma cercava di
non lasciarlo mai solo. Mai.
Dopo che l’youkai
le era svenuto fra le braccia, la ragazza se lo era caricato in spalla alla meno peggio e aveva iniziato a trascinarlo verso una grotta
intravista in mattinata. Non potevano restare lì. La pioggia stava facendo
scendere velocemente la temperatura corporea, e poi, quel maledetto hanyou avrebbe potuto tornare da
un momento all’altro. No. Doveva portarlo al sicuro. E curarlo.
Aveva raggiunto la grotta, un
piccolo anfratto naturale grande appena il necessario per ospitare loro due e
un fuoco, ma ben riparato da un costone di roccia. Lì difficilmente qualcuno li
avrebbe trovati.
Aveva disteso il demone sul suo futon, sopra a un vecchio letto di foglie. Era fradicio. I
lunghi capelli argentati gocciolavano continuamente, confondendo l’acqua al
sangue. Rivoli sottili che gli lavano il viso. Il kimono zuppo appiccicato al
corpo. Maledizione! Se non fosse versato in quelle condizioni disperate,
Alessandra avrebbe dovuto ammettere il fascino incredibile che emanava. Ma quel
pensiero non la sfiorò nemmeno.
Curarlo. Era la sola cosa che riuscisse a elaborare la sua mente.
Alessandra lo aveva dapprima
osservato attentamente, e poi aveva cercato di visitarlo, tentando di farlo parlare quando sembrava riprendere lucidità. Inutilmente. Sesshomaru era pallido, sotto il rosso del sangue rappreso,
i suoi movimenti erano sconnessi e la sua respirazione irregolare. Passava
continuamente da uno stato di irrequietezza al torpore.
Alessandra non lo aveva mai
sentito lamentarsi per nulla. Né per il freddo né per null’altro. Adesso,
invece, mugugnava per il bruciore procuratogli dalle ferite. Aveva la febbre, e
continui brividi di freddo.
Accese un piccolo fuoco e iniziò
a spogliarlo. Doveva liberarlo dagli abiti bagnati, per cerare di rialzare la
temperatura corporea. Per riuscire a capacitarsi della gravità delle ferite. Sesshomaru non collaborò minimamente. Non si avvide neanche
delle mani che scivolavano lungo il suo corpo, che lo liberavano della corazza
ormai distrutta, della stola fradicia, del kimono gocciolante. Era come in
coma. Articolava suoni sconnessi, quasi ringhi soffocati. Si agitava e si
dimenava.
Alessandra non si lasciò
impressionare. Finì di liberarlo degli abiti e lo avvolse nella coperta del futon. Per fortuna, lo zaino era impermeabile.
Alessandra era tesa in volto.
Aveva paura. Per lui.
Aveva sentito dire da Jacken che i demoni, soprattutto quelli potenti, non
avvertono il dolore, neanche quello più accecante. E che le loro ferite si
rimarginano da sole. In poco tempo. Eppure, in quel momento, Sesshomaru stava soffrendo. Stava combattendo con qualcosa
che sembrava volerlo distruggere.
Aveva attacchi d’ansia e
inquietudine improvvisi e intensi, sudava e chiedeva continuamente acqua. Lui.
Lui che non lo aveva neanche mai visto mangiare. Che più volte aveva rifiutato,
quasi sdegnato, la borraccia che Rin gli porgeva. No.
Non era normale. Qualcosa non andava.
Perché le ferite non si rimarginano? Almeno i graffi
dovrebbero richiudersi in pochissimo tempo…Perché invece continua a sanguinare?...
Scosse la testa. Va bene. Se il
suo corpo non reagiva, lo avrebbe fatto lei al suo
posto. Non lo avrebbe lasciato morire. No. Mai. Non voleva che morisse.
Recuperò un panno e dell’acqua e iniziò a tergergli le ferite. Movimenti lenti
e precisi. Per non fargli male. Gesti che aveva appreso da piccola. Che aveva
visto spesso compiere da sua madre e suo fratello. Che ripeteva meccanicamente.
Sua madre era medico, e Leone
aveva studiato per diventarlo. E lei si divertiva a partecipare alle loro
esercitazioni. Magari facendo l’infortunato. Le piaceva essere cosparsa di quel
colore rosso vischioso e poi vederlo sparire dal suo corpo grazie alle “cure”
del fratello.
Ora, quel gioco le tornava utile.
Anche se non avrebbe mai immaginato la difficoltà che stava provando a evitare
di fargli male. Di sfiorare appena la pelle lacerata.
Sesshomaru era piombato in uno stato di torpore irrequieto e lei, per
confortarlo, gli sussurrava qualche frase. Gli asciugava l’abbondante sudore,
lo faceva bere ogni volta che riusciva. Ogni tanto si voltava verso di lei, con
gli occhi sbarrati. Due gemme d’ambra che naufragavano in un mare rosso. Non la
vedeva. Il suo sguardo l’attraversava.
Gli bendò la ferita al fianco,
gli tampono quelle più superficiali e fu anche costretta ad arroventare la
punta del pugnale sul fuoco, per potergli estrarre i frammenti di corazza che
gli erano penetrati nel corpo. Sospirò e si girò verso di lui. Doveva farlo.
Altrimenti il metallo avrebbe fatto infezione. Gli sfiorò il viso sfigurato con
una carezza.
Forse sentirai dolore…Scusami, ma non so come altro fare…
Alessandra esaminò la ferita per
un attimo, poi incise la carne. Il copro del demone
ebbe uno spasimo, ma lei riuscì ugualmente a tenerlo fermo. L’operazione non
era difficile, ma era dolorosa. Sesshomaru aprì la
bocca come per gridare, ma uscì solo un gorgoglio rauco, mentre la mano si
contorceva artigliando le terra. Dolore. Sentiva
qualcosa di sconosciuto. Di devastante. Quando Alessandra estrasse la scheggia,
lui ebbe un ultimo gemito e svenne.
Per fortuna. Altrimenti la ragazza
non sapeva se sarebbe riuscita a estrargli anche le altre, soprattutto
avvertendo le continue contrazioni dei suoi muscoli. Lui non urlava, ma erano
le sue azioni a farlo al suo posto.
Finì di bendarlo con strisce di
stoffa strappate dai suoi abiti di ricambio, e uscì a gettare l’acqua ormai
rossa. Aveva bisogno di respirare un attimo. Aveva toccato il suo corpo. Senza
inibizioni. Senza imbarazzo. Lo aveva esplorato in ogni sua parte. E aveva
desiderato che il demone la fermasse, le prendesse la mano e la stringesse a
sé. Come quella sera.
Si passò della neve sul viso. La
stanchezza iniziava a giocargli dei brutti scherzi. Sesshomaru
era disteso moribondo alle sue spalle, e lei pensava a quella sera alla pozza.
Stupidaggini! Era a lui che doveva pensare, come aveva fatto fino a quel
momento. Raccolse della nuova neve nella bacinella e si apprestò a rientrare.
Ora veniva la parte più difficile…
Il volto di Sesshomaru
era completamente incrostato di sangue. Tanto che Alessandra non riusciva a
capire se fosse solo sporco o se avesse anche ferite gravi. Bagnò un nuovo
panno e iniziò a passarglielo sul viso, premendo dolcemente. Il sangue si
scioglieva piano, colorando la stoffa. Più la ragazza procedeva nella sua
medicazione, più sentiva le lacrime invaderle gli occhi. Non cercò neanche di fermarle quando le sentì scivolare sul suo viso. Voleva
piangere. Altrimenti non avrebbe retto all’angoscia prodotta da quello che
stava vedendo. Scoprendo.
Sotto il sangue, quel viso
d’avorio era completamente rovinato. La pelle sembrava esser stata aggredita
con rabbia. Aveva come dei piccoli morsi che gliela intaccavano, che gli
deformavano i graffi rosati, la mezzaluna in fronte. Acido. Sembrava l’azione
corrosiva di un acido. Micidiale.
Alessandra trattenne a stento un
gemito d’orrore quando iniziò a togliere le ultime
tracce di sangue rimaste. Attorno agli occhi. Le palpebre erano state intaccate
poco, per fortuna, ma il bulbo oculare forse no.
Perché Alessandra si accorse con orrore che era
proprio dai suoi occhi che sgorgava ancora un po’ di sangue. Finì di pulirlo e
gli applicò due piccoli tamponi sulle cavità oculari, per poi fasciargli quasi
tutto il viso. Tralasciò solo la parte bassa, la bocca e il mento. Scampati
miracolosamente.
Prima di applicare i tamponi, la
ragazza aveva fissato quel volto ormai completamente irriconoscibile. Ma non ne
aveva provato ribrezzo. Avrebbe voluto che lui aprisse i suoi occhi e la
guardasse. Non le importava che sguardo avrebbe potuto rivolgerle. Voleva solo
vedere l’ambra dei suoi occhi. Solo quello.
…Tu guarirai…Te lo prometto…
Passarono tre estenuanti giorni
dalla medicazione.
Alessandra trascurava le sue
esigenze personali come riposarsi o nutrirsi per dedicarsi solo a lui. Dormiva rannicchiata
a terra, pronta a reagire ad ogni suo movimento, a farlo bere
quando riusciva, a cambiargli le bende. Le ferite l’avevano
preoccupata non poco, le zone di pelle erano secche e arrossate. Non
erano ferite normali. Doveva esserci dell’altro. E l’unica cosa che poteva
produrre un effetto simile, per quello che sapeva lei, era il veleno.
…Veleno…Ti hanno avvelenato…
Non sapeva che tipo di veleno
fosse e neanche come fare per scoprirlo, ma doveva essere molto potente. Anche
se Sesshomaru era incredibilmente forte e stava
resistendo, Alessandra si era accorta che ormai aveva perso la sensibilità agli
arti.
Era stata tentata di andare in un
villaggio a chiedere aiuto, ma aveva scartato subito l’idea. Nessuno l’avrebbe
fatta avvicinare. E se anche fosse successo, chi si sarebbe prestato ad aiutare
un demone? No. Piuttosto, lo avrebbero ucciso. Si sarebbero fermati solo alle
apparenze. Non sarebbe importato a nessuno che quel demone freddo e distaccato
aveva anche un cuore, capace di battere. Solo congelato dal dolore.
Alessandra conosceva le erbe, e
in un bosco non avrebbe avuto difficoltà a trovarne, ma non sarebbe stata in
grado di preparare un antidoto. Non senza sapere esattamente cosa lo stava
avvelenando. Però, aveva un’arma segreta. E per fortuna era riuscita a
procurarsene a sufficienza intrufolandosi in un tempio vicino: aceto.
Doveva fargliene bere in grande
quantità. Sarebbe stato un problema farglielo ingurgitare, ma doveva riuscirci.
Ne andava della sua vita. Lo metteva a sedere, ma Sesshomaru faticava sempre a bere i bicchieri acidi. Il suo
gusto sensibile gli faceva esplodere in bocca il sapore pungente. La prima
volta, Alessandra non ne aveva tenuto conto e il demone era stato colto da
conati di vomito che lo avevano indotto a rigurgitare.
In seguito, Alessandra lo aveva
fatto adagiare puntellandogli però dietro la schiena la stola di pelliccia,
facendogli assumere una posizione semisdraiata. Sesshomaru,
con quello stratagemma, era rimasto calmo. E ingoiava anche con minor fatica
gli altri infusi cui la ragazza aveva aggiunto un po’ di miele per attenuarne
il sapore altrimenti troppo sgradevole. In più, alla
sera gli frizionava e massaggiava il corpo con pezze di cotone imbevuto di un
decotto che ne doveva mantenere viva la circolazione.
Sesshomaru non si era ripreso ancora, ma le cure sembravano almeno
lenire le sue sofferenze.
Sesshomaru si svegliò completamente dopo circa una settimana.
In quel tempo, le sue percezioni
erano state confuse e si riprese completamente solo quando
avvertì qualcosa muoversi accanto a lui.
Alessandra si destò appena
percepì il movimenti del demone e si accorse che era
cosciente. Aveva imparato a interpretare ogni suo movimento in quei giorni
trascorsi al suo fianco, mentre lui lottava fra la vita e la morte.
“Ben svegliato” disse
gentilmente, avvicinandosi a lui per aiutarlo. Sesshomaru infatti cercava di sollevarsi a sedere, ma fitte di dolore
gli strapparono un gemito. Sorpresa. Lui non aveva mai provato dolore. Non era
da demoni provarlo. L’unica cosa simile al dolore era stato il senso di vuoto e
abbandono avvertito quando suo padre aveva incontrato quella maledetta donna
umana. Poi, mai più. In quel momento, tuttavia, si sentiva indolenzito in ogni
parte del corpo.
Avvertì le mani di Alessandra
afferrarlo con perizia e aiutarlo a sedersi. Sesshomaru
non potè però vedere il leggero colorito che imporporò
le guance di Alessandra. Si sentiva in imbarazza. In
quei giorni, lo aveva toccato, accarezzato e medicato senza mai arrossire. Ma
lui era incosciente. Ora, invece, le sembrava di percepire il suo sguardo. I
suoi occhi che la fissavano. Anche se sapeva benissimo che in volto aveva una
benda. Ma era il modo in cui piegava la testa, in cui teneva fermo il viso.
La sentì allontanarsi e
armeggiare con qualcosa. Allora, si concentrò, cercando di riprendere pieno
controllo del suo corpo. Era pieno di lividi e ferite di
tutte le dimensioni sparsi un po’ dappertutto. Gli faceva male un
fianco, e soprattutto il volto. Vi passò una mano. Lino. Bende. Attorno ai suoi
occhi. Già…gli avevano gettato qualcosa, addosso…Qualcosa di fresco…Non
ricordava…Era tutto così confuso…Anche il combattimento. Dopo che aveva sentito
quello schiocco secco, che aveva visto Naraku
piegarsi sulla ragazza con quel sorriso disgustoso, la sua mente non aveva più
ragionato. Avrebbe ricordato, ne era sicuro; ma ci sarebbe voluto un po’ di
tempo.
“Mangia qualcosa” lo esortò
Alessandra avvicinandogli al viso una scodella fumante. L’youkai
avvertì un profumo strano, gradevole, ma respinse il contenitore con la mano.
Piano. Anche quel semplice gesto gli costava una grande fatica. Lui non
mangiava cibo umano. Non gli si confaceva.
“Quanto sono stato privo di
conoscenza, esattamente?”
Si aspettava una risposta sola:
poche ore, al massimo un giorno. Come quando era stato “curato” da Rin. E poi, voleva togliersi quelle bende. A lui non
servivano. Erano una cosa inutile. La ragazza si era affannata inutilmente.
Sorrise dentro di sé. Chissà come doveva essersi sorpresa della capacità di
rigenerazione del suo corpo.
“Una settimana”. Alessandra non
aveva insistito nell’immediato. Aveva assecondato il suo rifiuto e risposto
alla sua domanda. Ma non aveva intenzione di farlo digiunare. “Adesso mangia,
per favore”.
…una settimana…Impossibile…
Sesshomaru aveva sussultato impercettibilmente. Mai nessuna ferita lo
aveva costretto a letto così a lungo. Neanche il più debole degli hanyou impiega così tanto a rimettersi. Perché allora il
suo corpo non aveva reagito come al solito? Che era
accaduto per impedirlo?
Aprì la bocca per chiedere
ancora. Per assicurarsi che non lo stesse prendendo in giro. Non riuscì a
parlare. Alessandra ne aveva approfittato per avvicinargli la scodella e
infilargliela in bocca appena gli aveva visto dischiudere le labbra. Il demone
fu costretto ad inghiottire per non soffocare. La minestra era buona, ma dopo
poco davvero il suo stomaco non riuscì ad accettare oltre alla metà della
porzione. Alessandra non lo sforzò oltre e allontanò la ciotola. Sapeva che il
suo stomaco doveva riabituarsi alla consistenza del cibo, dato che negli ultimi
giorni aveva ingerito solo liquidi.
“Non…riprovarci…”. Lo aveva
costretto a ingoiare cibo umano. A sentire qualcosa di strano. Forse quello che
era il sapore. Lo aveva trattato come un bambino. E a lui non piaceva quel suo
atteggiamento. Ma sapeva anche di essere ancora troppo spossato per riuscire a
reagire come avrebbe voluto.
Sbuffò scocciato, rilassandosi
sulla stola che fungeva da cuscino. Avvertì Alessandra avvicinarsi di nuovo e
alzare le coperte. Non trattenne uno scarto improvviso quando
percepì le mani della ragazza sul suo corpo. Un movimento brusco. Che lo fece
contorcere.
“Stai fermo!”.
Si ritrovò le sue braccia attorno
alle spalle. Le era pressoché caduto contro. Alla cieca, senza la possibilità
di capire esattamente dove lei fosse, aveva solo reagito d’istinto per
sottrarsi alle sue mani.
Fu investito dal suo profumo.
Buono. Fresco e inebriante. L’odore della sua pelle. Quello della sera alla
pozza. Sentì la mano della ragazza insinuarsi nei suoi capelli, carezzargli la
testa in modo materno. E dannatamente sensuale.
“Stai fermo…Altrimenti le ferite
si riaprono…” ripetè in tono più sommesso. Quello di
prima era stato un grido allarmato; adesso era una voce lieve che gli sussurrava
all’orecchio. Lo fece adagiare di nuovo e constatò con soddisfazione che quel
movimento improvviso non aveva provocato nessun effetto indesiderato.
“Tutto a posto”
Lo ricoprì e si sedette accanto a
lui. Era contenta: che si stesse riprendendo; che avesse ripreso conoscenza. Ma
non sapeva neanche lei come spiegare quella sensazione. Dirgli che era contenta
e che la felicità derivava dalla semplice presenza di lui, sarebbe stato
difficile. Illuminato dal riverbero del fuoco, Sesshomaru
le appariva più seducente che mai. Sembrava essersi assopito, ma lei sapeva
benissimo che stava semplicemente pensando. Cercando di riordinare i ricordi
confusi del duello e degli ultimi giorni. Forse, le sensazioni provate.
“Recupererai presto le forze”
Alessandra aveva attirato le
ginocchia al petto e adesso stava osservando il fuoco. Era strano sentirla
parlare così. Il bel demone finora l’aveva sentita perlopiù raccontare, ma
comunque poco. Di solito, si nutrivano dei rispettivi silenzi. Dei loro
sguardi. Invece, adesso, era lei ad aver iniziato una conversazione. Senza
particolari argomenti. Dicendo un’ovvietà. Come se non riuscisse a sopportare
il suo silenzio. Sesshomaru girò appena la testa
verso di lei, sulle labbra un sorriso di commiserazione. Per la sua affermazione.
Che stupida! Una frase più banale non la potevo trovare!
Ma non le importò. Voleva
parlare. E sentire anche la sua voce. Quando lo aveva
visto riverso a terra, aveva creduto che fosse morto. E si era sentita morire
anche lei. Aveva percepito benissimo un senso di vuoto e dolore invaderla; la
disperazione che le attanagliava lo stomaco mentre lo
medicava. Quelle ore trascorse accanto a lui, con lui in stato
d’incoscienza…Sospeso fra la vita e la morte…Una tensione febbrile che la
portava ad allarmarsi ad ogni suo movimento. A sperare che riprendesse
conoscenza. Perché temeva terribilmente che non riaprisse più gli occhi. Di non
riuscire ad aiutarlo.
“Penso che tu sia stato
avvelenato…Hai dimostrato grande resistenza…Ora dovresti essere fuori pericolo…”
Banalità. Banalità. Per riempire
il silenzio. Per non cedere al sollievo e alla tensione che si allentava. Per
non scoppiare a piangere come una bambina. Le avrebbe fatto bene, invece. Ma
era abituata a tenersi tutto dentro. E con l’youkai
ancora così debole, era lei adesso che doveva mostrarsi forte. E, a parte la
voglia di quel pianto liberatore, era davvero determinata. Come poche volte le
era capitato. Si sentiva cambiare. Sempre di più. Ritrovare la sicurezza persa
dopo quell’incidente.
Sesshomaru allargò un po’ il sorriso. Ricordava quello che era
accaduto, anche se vagamente. Un colpo al fianco e poi altri in più parti del
corpo. Anche al volto. Ma il veleno non lo aveva mai provato. Almeno, non un
veleno così potente. Capace di paralizzare la sua forza di rigenerazione. Di
prosciugarlo quasi del suo youki.
“E questo?...”
chiese alzando faticosamente la mano e passandosela
sulla fasciatura al viso.
“Una ferita alla testa. Sopra gli
occhi” spiegò Alessandra. Ma dentro sentì il cuore stringersi perché aveva
dovuto mentirgli. Non era ferito alla testa; era stato ferito agli occhi.
Colpito da qualcosa simile all’acido. Da un corrosivo potente. Tanto che lo
aveva sfigurato in un primo momento. Ora la pelle del viso si stava lentamente
riformando, coprendo le cicatrici e ritornando perfetta e lunare. Ma non aveva
la stessa sicurezza per gli occhi. Però non voleva allarmarlo. Allarmare se
stessa. In fondo, di oculistica non aveva mai saputo niente.
“Perché non te ne sei andata?”
Sesshomaru respirò a pieni polmoni l’aria fredda che entrava nella
grotta. Doveva essere notte. Non si sarebbe mai aspettato di risvegliarsi con
lei al fianco. Che fosse suo, l’odore che avvertiva confuso nella
semi incoscienza. Le aveva detto che doveva andare. Perché gli aveva
disubbidito? Cosa l’aveva spinta a restare? Accanto a lui, a vedere sangue, il
suo corpo martoriato? Perché anche se bendato, il demone sentiva su tutto il
corpo la pelle nuova tirare, appena rimarginata. Molte ferite. Alcune
superficiali, altre profonde.
“Ti sembrano domande da fare?”
Rammarico, rabbia,
delusione…C’erano molte sfumature i quella risposta. E
aveva un tono un po’ più alto del normale. Quasi un urlo strozzato. Di chi
cerca di imporsi la calma. Bastava così poco per farla arrabbiare? No di certo.
Non l’aveva mai sentita urlare. In nessuna occasione. Anche quando l’aveva
minacciata. O quando combattevano. Perché allora in quel momento la sua calma
era vacillata? Sapeva che sarebbe inutile insistere.
Glissò l’argomento. Almeno per il momento.
“Naraku?”
“Non si è più fatto vedere”.
Buono a sapersi. Perché in quelle condizioni non avrebbe potuto fare molto per
difenderla.
“Lo schiaffo?”. Alessandra si
sorprese; non pensava che lo avesse notato, attraverso il sangue che gli velava
gli occhi. Forse aveva sentito la guancia gonfia quando
l’aveva accarezzata.
“Passato” rispose scrollando le
spalle. “Certo che voi uomini date di quegli schiaffi…Ti prendono tutta la
faccia e sembra che ti strappino la testa”
Sesshomaru sorrise dentro di sé. Era la prima volta che la sentiva
scherzare. Anche se aveva un modo strano di sdrammatizzare le cose. Cerco
d’istinto il suo viso, muovendo piano la mano nell’aria per non ferirla inavvertitamente
con gli artigli. Lo trovò e lo fece voltare verso di lui. Avrebbe voluto vedere
i suoi occhi. Sapere se erano azzurri come il cielo di primavera o blu come il
mare in tempesta. Avrebbe voluto vedere le sue emozioni.
“Non tutti
danno schiaffi…” le sussurrò accarezzandole la guancia col dorso della
mano. Era normale. Non gli aveva mentito. Alessandra rimase rigida per un
attimo, ma poi si abbandonò alla sua mano. Si lasciò sfiorare dai suoi artigli.
Senza timore.
“Lui…ti ha…baciata?...”
Silenzio. Sentì la ragazza
sussultare sotto la sua mano. Non si aspettava quella domanda. Non sapeva che
lui lo aveva visto chinarsi su di lei. Ecco a chi sorrideva. A lui. Per fargli
rabbia; per ingelosirlo.
…Sei geloso?...Di me?...
C’era esitazione nella sua voce.
Paura, forse. Di sentire qualcosa che non voleva. Sesshomaru
aveva la testa che gli pulsava forte. Assordandolo. Se non si fosse sbrigata a
rispondergli, sarebbe diventato folle. Perché taceva? Allora era vero: l’aveva
baciata. Lui. Quell’essere immondo. Quel disgustoso hanyou. L’aveva baciata. Aveva chiuso le sue labbra di
velluto con le sue ributtanti. Aveva sentito il suo sapore. Aveva…
“…No…”
A Sesshomaru
sembrò che il respiro si fosse fermato. Aveva detto no.
Non l’aveva sfiorata. Quell’urlo soffocato. Doveva
essere suo, non della ragazza. Nella testa, per alcuni minuti, quel monosillabo
fu ripetuto all’infinito. Per convincersene. Che non le aveva rubato nulla. E
ogni volta che lo sentiva il respiro si faceva più leggero. Stava riacquistando
la sua sicurezza.
“Perché sei rimasta?”
Lei gli prese la mano fra le sue,
rigirandola piano. Fissava i suoi artigli. La sua mano diafana, bianca. L’aveva
vista grondare sangue; aveva pulito il sangue che la incrostava. Eppure, non le
faceva paura. Come era riuscita a sopportare di nuovo la vista di un corpo
martoriato.
In fondo, quella era un’altra
realtà. C’erano regole diverse. Lui era diverso. Era un assassino. Lo diceva il
suo nome. Ma non era malvagio. Uccideva, ma senza…senza cosa? Non lo sapeva
neanche lei. Però, sapeva la risposta alla sua domanda. E gliela avrebbe data.
Perché era inutile ormai per lei scappare. Non si sfugge a se stessi. E poi,
non le piaceva mentire. Per quel giorno, la sua bugia necessaria l’aveva detta.
“Per te…”
Sesshomaru si svegliò improvvisamente. Si sentiva riposato, dopo il
lungo sonno, anche se le membra erano pesanti. Attorno a lui solo buio. E il
crepitare del fuoco. Non si era accorto di essersi addormentato. Non era
abituato a farlo. Ricordò il discorso fatto con la ragazza, alcuni giorni
prima. La sua risposta alla sua domanda.
…Per te…
Sorrise. Trasognato. Aveva
provato l’impulso di baciarla. Aveva provato la certezza che questa volta non
lo avrebbe respinto. Ma si era dominato. La voleva. Quello sì. Ma voleva
poterla guardare, mentre l’attirava a sé, vedere l’espressione sul suo volto
prima di chiudere gli occhi e scoprire il suo sapore.
Non l’aveva baciata. Si era
limitato a stringerle una mano. Poi, doveva essere scivolato nel sonno. Quell’emozione, quel tuffo al cuore provato a quella
risposta gli aveva rubato l’ultima forza residua. Mosse la mano nell’aria, come
ad afferrare qualcosa. Non era lì. Lo poteva sentire anche dall’odore. Ma, per
un attimo, sperò di scoprire di nuovo sotto le dita la sua pelle.
Si mosse un po’. Non sapeva da
quanto tempo dormisse, se fosse giorno o notte. Però,
si sorprese un po’ affamato. Cosa davvero inusuale per lui. Aspettò che
arrivasse la ragazza, pazientemente. Voltava di quando in quando la testa verso
l’apertura della grotta, da dove sentiva provenire una brezza fresca. Nessun
rumore però. Nessun odore. Si passò una mano sul viso.
Devo togliere questa benda, mi da fastidio. Pizzica terribilmente
Si sollevò a sedere sul letto. A
fatica. Era vestito solo con i pantaloni del kimono. Ma almeno indossava
qualcosa, constatò con sollievo. Stranamente, l’idea di essere nudo lo metteva
a disagio. Non si era mai vergognato del suo corpo. Non aveva nulla di cui
vergognarsi. Ma l’idea che lei lo vedesse in quello
stato, lo imbarazzava non poco. Alla pozza, era stato pronto a entrare in
acqua, ma stranamente anche lì non aveva pensato a spogliarsi. Semplicemente,
non si sentiva pronto a che lei lo vedesse così. Scosse la testa. Quei pensieri
gli erano estranei. Da quando lui era così pudico? Non ricordava di esserlo mai
stato. Decoroso, ma non moralista.
Portò la mano alla benda,
iniziando a disfare lentamente la fasciatura. Alessandra si sarebbe arrabbiata,
ma lui proprio non resisteva. E in fondo, non sarebbe successo nulla di
irreparabile. A breve, la ragazza l’avrebbe sciolta personalmente per
cambiarla. Anticipare di poco non avrebbe avuto nessuna conseguenza. E poi,
finalmente, avrebbe potuto vedere dove si trovava. Quando veniva
medicato, Alessandra gli impediva di aprire gli occhi. Sempre. Diceva che
voleva evitare che quello che spalmava sulle ferite ormai cicatrizzate potesse
reagire con gli occhi. Infettarli.
Sesshomaru sentiva il lino scivolare morbido fra le dita. Pregustava
il piacere che avrebbe provato nell’affogare di nuovo nel blu degli occhi della
ragazza. L’avrebbe baciata. Questa volta, lo avrebbe fatto. L’avrebbe afferrata
e attirata a sé. Guardandola negli occhi fino all’ultimo. Fino a un soffio
dalle sue labbra. Per godersi ogni sua emozione. Ogni istante.
L’ultimo giro di garza scivolò
leggero.
Aprì gli occhi.
Alessandra lasciò cadere a terra
la legna che aveva raccolto. Un suono assordante nel silenzio irreale della
caverna.
…No…Perché non mi hai aspettata?...
Lo aveva visto. Seduto nel futon. Con la benda sulle ginocchia. L’aveva sciolta. Per
un qualche motivo, non l’aveva aspettata. E aveva sciolto la fasciatura. E ora
era immobile, con gli occhi fissi davanti a lui.
Buio. Non vedeva altro.
Sesshomaru artigliò la coperta del letto; percepì la stoffa lacerarsi
sotto la sua stretta. Negli spasimi della sua mano.
Buio. Buio.
Ovunque, intorno a sé.
Alessandra non si mosse. Fissava
le iridi vuote del demone. Ormai, lo aveva scoperto. E forse, era anche meglio
così. Non avrebbe potuto mantenere ancora a lungo quel segreto.
“Tu…lo sapevi?”
Alessandra annuì. Ormai, non
aveva più senso mentire.
“…Lo sospettavo…”.
Era vero. Certezze non ne aveva.
Si era sempre rifiutata di analizzare le pupille dell’youkai.
Per non veder naufragare anche l’ultima speranza. Per illudersi che quel
liquido che gli aveva ustionato il volto gli avesse risparmiato la vista.
Inutile. Inutile.
E lui lo aveva scoperto nel modo
più doloroso. Aprendo gli occhi senza riuscire a percepire nulla. A distinguere
nulla. Solo oscurità. Avvolgente. Soffocante.
Sesshomaru non replicò. Non ne aveva la forza. Tutto il suo mondo…gli
era crollato addosso…Cieco…Lui era cieco…Non avrebbe più potuto vederla. Più
perdersi nei suoi occhi. Vedere quel sorriso che tanto desiderava che fosse
dipinto su quelle labbra. Più. Mai più.
Digrignò i denti. Scoprì i canini
appuntiti. Rabbia. Frustrazione. Una furia folle e impotente. Sì. Era furioso.
Con se stesso. Con il suo corpo. Con i suoi occhi. Lo avevano tradito.
Percepì delle braccia stringergli
le spalle. Un abbraccio. Silenzioso. Una mano a carezzargli il viso. Alessandra
gli si era avvicinata e lo aveva stretto a sé. Forte. Lo aveva circondato come
se volesse proteggerlo. Come per allontanare da lui ogni male possibile. Lo
aveva sfiorato con una carezza e ora appoggiava il viso alla sua testa,
affondando nei suoi capelli serici. Affogando nel suo odore di muschio.
Sesshomaru capì il conforto che voleva dargli. Assottigliò le iridi
opache e sovrappose la sua mano a quella di lei. Strinse forte. Aveva bisogno
di quel contatto. In quel momento più che mai. Della vicinanza di qualcuno.
Della sua vicinanza.
Si sentiva estremamente scoperto
in quelle condizioni. Si sentiva…Non si sentiva più lui. Non era più sicuro di
nulla in quel momento. Neanche di chi fosse.
Lo disse. Per la prima volta da
quando la conosceva. Pronunciò il suo nome. Con una voce roca che non gli
apparteneva. Come se cercasse disperatamente di fermare in gola le lacrime. La
chiamò. Perché aveva bisogno di lei. Per la prima volta. Per la prima volta,
aveva bisogno di qualcuno. Lui. Sesshomaru. Il
principe dei demoni.
La chiamo come se la pregasse.
Come se temesse che quella presenza svanisse. Si dissolvesse
da sotto le sue mani. Perché di lei aveva bisogno, in quel momento più che mai.
Un sussurro che era un singhiozzo
strozzato.
“Alessandra…”