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Autore: avalon9    27/12/2006    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Come promesso, ecco la seconda parte. Vi ha lasciato in sospeso, vero? Sesshomaru ferito, gravemente...sfigurato!!! Come andrà a finire?

 

Buona lettura!!!

Grazie infinite a tutti coloro che leggono e commentano!

 

 

 

CAPITOLO 17

BUIO

 

 

Sesshomaru rimase senza conoscenza per vari giorni.

Quando riuscì a riprendere un po’ coscienza del suo corpo, capì soltanto di trovarsi disteso. Forse in un letto. Forse ancora in quella maledetta radura. Sentiva che qualcuno si muoveva attorno a lui. Silenzioso. Discreto. Non capiva chi fosse. Forse un altro demone. Forse Naraku stesso che era tornato a dargli il colpo di grazia. Sconfitto. Questa volta lo sarebbe stato. Era totalmente inerme. A stento, riusciva a percepire il suo respiro. Il copro era completamente insensibile.

 

Chi sei?...

 

Non riusciva a capirlo. Non riusciva a distinguere gli odori. Tutto gli arrivava confuso ai sensi. Distorto. Aveva provato ad aprire gli occhi, ma non ci era riuscito. La stanchezza, la debolezza e poi…sentiva qualcosa sopra le palpebre. Qualcosa di fastidioso.

 

Vagamente, iniziò a rendersi conto che qualcuno lo stava curando. Forse un ningen, pensò. Solo loro possono ignorare il fatto che un youkai non ha bisogno di cure. Che il suo corpo si rigenerare nel giro di poche ore, al massimo nell’arco di pochi giorni. Sì. Doveva essere un umano. Forse una sacerdotessa. E non doveva essere passato molto tempo dallo scontro. Al massimo, mezza giornata. Non di più.

 

Nel delirio della febbre, gli sembrava di avvertire la presenza di qualcuno accanto a lui. Sensazioni. Percepiva solo frammenti di sensazioni. Neanche il dolore. Quello gli era pressoché sconosciuto. Acqua…Qualcuno gli bagnava le labbra riarse. Sapore amaro in bocca. Disgustoso. Avrebbe voluto allontanare quella scodella. Rifiutarsi di inghiottire. Ma non ce la faceva. Non ancora.

 

Oppure, sentiva una sensazione di fresco sul viso. Come se qualcuno lo accarezzasse. Una mano leggera s’insinuava nei suoi capelli. Glieli scostava dal viso. Gli sfiorava il volto. Non riusciva a sentirla, però, quella pelle. La percepiva come filtrata attraverso a qualcosa. Qualcosa di indefinito.

 

Aveva momenti di tranquillità quasi comatosa e momenti di agitazione febbrile, durante i quali percepiva la difficoltà del curatore di tenerlo fermo. Non riusciva calcolare il tempo. Gli sembravano trascorrere pochi secondi fra le sensazioni, ma non ne aveva la certezza.

 

Avrebbe voluto sapere dove si trovava. Chi lo stava curando. Forse era Jacken. Si doveva essere preoccupato del suo ritardo ed era tornato indietro. Scacciò subito quel pensiero. Il suo servitore sapeva bene che lui non aveva bisogno di cure. No. Era qualcun altro. Ma chi?

 

 

 

 

Cinque giorni.

Per cinque giorni Alessandra era rimasta al capezzale di Sesshomaru. Si era allontanata solo il tempo necessario a procurarsi erbe e acqua. Ma cercava di non lasciarlo mai solo. Mai.

 

Dopo che l’youkai le era svenuto fra le braccia, la ragazza se lo era caricato in spalla alla meno peggio e aveva iniziato a trascinarlo verso una grotta intravista in mattinata. Non potevano restare lì. La pioggia stava facendo scendere velocemente la temperatura corporea, e poi, quel maledetto hanyou avrebbe potuto tornare da un momento all’altro. No. Doveva portarlo al sicuro. E curarlo.

 

Aveva raggiunto la grotta, un piccolo anfratto naturale grande appena il necessario per ospitare loro due e un fuoco, ma ben riparato da un costone di roccia. Lì difficilmente qualcuno li avrebbe trovati.

 

Aveva disteso il demone sul suo futon, sopra a un vecchio letto di foglie. Era fradicio. I lunghi capelli argentati gocciolavano continuamente, confondendo l’acqua al sangue. Rivoli sottili che gli lavano il viso. Il kimono zuppo appiccicato al corpo. Maledizione! Se non fosse versato in quelle condizioni disperate, Alessandra avrebbe dovuto ammettere il fascino incredibile che emanava. Ma quel pensiero non la sfiorò nemmeno.

 

Curarlo. Era la sola cosa che riuscisse a elaborare la sua mente.

 

Alessandra lo aveva dapprima osservato attentamente, e poi aveva cercato di visitarlo, tentando di farlo parlare quando sembrava riprendere lucidità. Inutilmente. Sesshomaru era pallido, sotto il rosso del sangue rappreso, i suoi movimenti erano sconnessi e la sua respirazione irregolare. Passava continuamente da uno stato di irrequietezza al torpore.

 

Alessandra non lo aveva mai sentito lamentarsi per nulla. Né per il freddo né per null’altro. Adesso, invece, mugugnava per il bruciore procuratogli dalle ferite. Aveva la febbre, e continui brividi di freddo.

 

Accese un piccolo fuoco e iniziò a spogliarlo. Doveva liberarlo dagli abiti bagnati, per cerare di rialzare la temperatura corporea. Per riuscire a capacitarsi della gravità delle ferite. Sesshomaru non collaborò minimamente. Non si avvide neanche delle mani che scivolavano lungo il suo corpo, che lo liberavano della corazza ormai distrutta, della stola fradicia, del kimono gocciolante. Era come in coma. Articolava suoni sconnessi, quasi ringhi soffocati. Si agitava e si dimenava.

 

Alessandra non si lasciò impressionare. Finì di liberarlo degli abiti e lo avvolse nella coperta del futon. Per fortuna, lo zaino era impermeabile.

 

Alessandra era tesa in volto. Aveva paura. Per lui.

 

Aveva sentito dire da Jacken che i demoni, soprattutto quelli potenti, non avvertono il dolore, neanche quello più accecante. E che le loro ferite si rimarginano da sole. In poco tempo. Eppure, in quel momento, Sesshomaru stava soffrendo. Stava combattendo con qualcosa che sembrava volerlo distruggere.

 

Aveva attacchi d’ansia e inquietudine improvvisi e intensi, sudava e chiedeva continuamente acqua. Lui. Lui che non lo aveva neanche mai visto mangiare. Che più volte aveva rifiutato, quasi sdegnato, la borraccia che Rin gli porgeva. No. Non era normale. Qualcosa non andava.

 

Perché le ferite non si rimarginano? Almeno i graffi dovrebbero richiudersi in pochissimo tempo…Perché invece continua a sanguinare?...

 

Scosse la testa. Va bene. Se il suo corpo non reagiva, lo avrebbe fatto lei al suo posto. Non lo avrebbe lasciato morire. No. Mai. Non voleva che morisse. Recuperò un panno e dell’acqua e iniziò a tergergli le ferite. Movimenti lenti e precisi. Per non fargli male. Gesti che aveva appreso da piccola. Che aveva visto spesso compiere da sua madre e suo fratello. Che ripeteva meccanicamente.

 

Sua madre era medico, e Leone aveva studiato per diventarlo. E lei si divertiva a partecipare alle loro esercitazioni. Magari facendo l’infortunato. Le piaceva essere cosparsa di quel colore rosso vischioso e poi vederlo sparire dal suo corpo grazie alle “cure” del fratello.

 

Ora, quel gioco le tornava utile. Anche se non avrebbe mai immaginato la difficoltà che stava provando a evitare di fargli male. Di sfiorare appena la pelle lacerata.

 

Sesshomaru era piombato in uno stato di torpore irrequieto e lei, per confortarlo, gli sussurrava qualche frase. Gli asciugava l’abbondante sudore, lo faceva bere ogni volta che riusciva. Ogni tanto si voltava verso di lei, con gli occhi sbarrati. Due gemme d’ambra che naufragavano in un mare rosso. Non la vedeva. Il suo sguardo l’attraversava.

 

Gli bendò la ferita al fianco, gli tampono quelle più superficiali e fu anche costretta ad arroventare la punta del pugnale sul fuoco, per potergli estrarre i frammenti di corazza che gli erano penetrati nel corpo. Sospirò e si girò verso di lui. Doveva farlo. Altrimenti il metallo avrebbe fatto infezione. Gli sfiorò il viso sfigurato con una carezza.

 

Forse sentirai dolore…Scusami, ma non so come altro fare…

 

Alessandra esaminò la ferita per un attimo, poi incise la carne. Il copro del demone ebbe uno spasimo, ma lei riuscì ugualmente a tenerlo fermo. L’operazione non era difficile, ma era dolorosa. Sesshomaru aprì la bocca come per gridare, ma uscì solo un gorgoglio rauco, mentre la mano si contorceva artigliando le terra. Dolore. Sentiva qualcosa di sconosciuto. Di devastante. Quando Alessandra estrasse la scheggia, lui ebbe un ultimo gemito e svenne.

 

Per fortuna. Altrimenti la ragazza non sapeva se sarebbe riuscita a estrargli anche le altre, soprattutto avvertendo le continue contrazioni dei suoi muscoli. Lui non urlava, ma erano le sue azioni a farlo al suo posto.

 

Finì di bendarlo con strisce di stoffa strappate dai suoi abiti di ricambio, e uscì a gettare l’acqua ormai rossa. Aveva bisogno di respirare un attimo. Aveva toccato il suo corpo. Senza inibizioni. Senza imbarazzo. Lo aveva esplorato in ogni sua parte. E aveva desiderato che il demone la fermasse, le prendesse la mano e la stringesse a sé. Come quella sera.

 

Si passò della neve sul viso. La stanchezza iniziava a giocargli dei brutti scherzi. Sesshomaru era disteso moribondo alle sue spalle, e lei pensava a quella sera alla pozza. Stupidaggini! Era a lui che doveva pensare, come aveva fatto fino a quel momento. Raccolse della nuova neve nella bacinella e si apprestò a rientrare. Ora veniva la parte più difficile…

 

Il volto di Sesshomaru era completamente incrostato di sangue. Tanto che Alessandra non riusciva a capire se fosse solo sporco o se avesse anche ferite gravi. Bagnò un nuovo panno e iniziò a passarglielo sul viso, premendo dolcemente. Il sangue si scioglieva piano, colorando la stoffa. Più la ragazza procedeva nella sua medicazione, più sentiva le lacrime invaderle gli occhi. Non cercò neanche di fermarle quando le sentì scivolare sul suo viso. Voleva piangere. Altrimenti non avrebbe retto all’angoscia prodotta da quello che stava vedendo. Scoprendo.

 

Sotto il sangue, quel viso d’avorio era completamente rovinato. La pelle sembrava esser stata aggredita con rabbia. Aveva come dei piccoli morsi che gliela intaccavano, che gli deformavano i graffi rosati, la mezzaluna in fronte. Acido. Sembrava l’azione corrosiva di un acido. Micidiale.

 

Alessandra trattenne a stento un gemito d’orrore quando iniziò a togliere le ultime tracce di sangue rimaste. Attorno agli occhi. Le palpebre erano state intaccate poco, per fortuna, ma il bulbo oculare forse no. Perché Alessandra si accorse con orrore che era proprio dai suoi occhi che sgorgava ancora un po’ di sangue. Finì di pulirlo e gli applicò due piccoli tamponi sulle cavità oculari, per poi fasciargli quasi tutto il viso. Tralasciò solo la parte bassa, la bocca e il mento. Scampati miracolosamente.

 

Prima di applicare i tamponi, la ragazza aveva fissato quel volto ormai completamente irriconoscibile. Ma non ne aveva provato ribrezzo. Avrebbe voluto che lui aprisse i suoi occhi e la guardasse. Non le importava che sguardo avrebbe potuto rivolgerle. Voleva solo vedere l’ambra dei suoi occhi. Solo quello.

 

…Tu guarirai…Te lo prometto…

 

 

 

 

Passarono tre estenuanti giorni dalla medicazione.

 

Alessandra trascurava le sue esigenze personali come riposarsi o nutrirsi per dedicarsi solo a lui. Dormiva rannicchiata a terra, pronta a reagire ad ogni suo movimento, a farlo bere quando riusciva, a cambiargli le bende. Le ferite l’avevano preoccupata non poco, le zone di pelle erano secche e arrossate. Non erano ferite normali. Doveva esserci dell’altro. E l’unica cosa che poteva produrre un effetto simile, per quello che sapeva lei, era il veleno.

 

…Veleno…Ti hanno avvelenato…

 

Non sapeva che tipo di veleno fosse e neanche come fare per scoprirlo, ma doveva essere molto potente. Anche se Sesshomaru era incredibilmente forte e stava resistendo, Alessandra si era accorta che ormai aveva perso la sensibilità agli arti.

 

Era stata tentata di andare in un villaggio a chiedere aiuto, ma aveva scartato subito l’idea. Nessuno l’avrebbe fatta avvicinare. E se anche fosse successo, chi si sarebbe prestato ad aiutare un demone? No. Piuttosto, lo avrebbero ucciso. Si sarebbero fermati solo alle apparenze. Non sarebbe importato a nessuno che quel demone freddo e distaccato aveva anche un cuore, capace di battere. Solo congelato dal dolore.

 

Alessandra conosceva le erbe, e in un bosco non avrebbe avuto difficoltà a trovarne, ma non sarebbe stata in grado di preparare un antidoto. Non senza sapere esattamente cosa lo stava avvelenando. Però, aveva un’arma segreta. E per fortuna era riuscita a procurarsene a sufficienza intrufolandosi in un tempio vicino: aceto.

 

Doveva fargliene bere in grande quantità. Sarebbe stato un problema farglielo ingurgitare, ma doveva riuscirci. Ne andava della sua vita. Lo metteva a sedere, ma Sesshomaru faticava sempre a bere i bicchieri acidi. Il suo gusto sensibile gli faceva esplodere in bocca il sapore pungente. La prima volta, Alessandra non ne aveva tenuto conto e il demone era stato colto da conati di vomito che lo avevano indotto a rigurgitare.

 

In seguito, Alessandra lo aveva fatto adagiare puntellandogli però dietro la schiena la stola di pelliccia, facendogli assumere una posizione semisdraiata. Sesshomaru, con quello stratagemma, era rimasto calmo. E ingoiava anche con minor fatica gli altri infusi cui la ragazza aveva aggiunto un po’ di miele per attenuarne il sapore altrimenti troppo sgradevole. In più, alla sera gli frizionava e massaggiava il corpo con pezze di cotone imbevuto di un decotto che ne doveva mantenere viva la circolazione.

 

Sesshomaru non si era ripreso ancora, ma le cure sembravano almeno lenire le sue sofferenze.

 

 

 

 

Sesshomaru si svegliò completamente dopo circa una settimana.

In quel tempo, le sue percezioni erano state confuse e si riprese completamente solo quando avvertì qualcosa muoversi accanto a lui.

 

Alessandra si destò appena percepì il movimenti del demone e si accorse che era cosciente. Aveva imparato a interpretare ogni suo movimento in quei giorni trascorsi al suo fianco, mentre lui lottava fra la vita e la morte.

 

“Ben svegliato” disse gentilmente, avvicinandosi a lui per aiutarlo. Sesshomaru infatti cercava di sollevarsi a sedere, ma fitte di dolore gli strapparono un gemito. Sorpresa. Lui non aveva mai provato dolore. Non era da demoni provarlo. L’unica cosa simile al dolore era stato il senso di vuoto e abbandono avvertito quando suo padre aveva incontrato quella maledetta donna umana. Poi, mai più. In quel momento, tuttavia, si sentiva indolenzito in ogni parte del corpo.

 

Avvertì le mani di Alessandra afferrarlo con perizia e aiutarlo a sedersi. Sesshomaru non potè però vedere il leggero colorito che imporporò le guance di Alessandra. Si sentiva in imbarazza. In quei giorni, lo aveva toccato, accarezzato e medicato senza mai arrossire. Ma lui era incosciente. Ora, invece, le sembrava di percepire il suo sguardo. I suoi occhi che la fissavano. Anche se sapeva benissimo che in volto aveva una benda. Ma era il modo in cui piegava la testa, in cui teneva fermo il viso.

 

La sentì allontanarsi e armeggiare con qualcosa. Allora, si concentrò, cercando di riprendere pieno controllo del suo corpo. Era pieno di lividi e ferite di tutte le dimensioni sparsi un po’ dappertutto. Gli faceva male un fianco, e soprattutto il volto. Vi passò una mano. Lino. Bende. Attorno ai suoi occhi. Già…gli avevano gettato qualcosa, addosso…Qualcosa di fresco…Non ricordava…Era tutto così confuso…Anche il combattimento. Dopo che aveva sentito quello schiocco secco, che aveva visto Naraku piegarsi sulla ragazza con quel sorriso disgustoso, la sua mente non aveva più ragionato. Avrebbe ricordato, ne era sicuro; ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo.

 

“Mangia qualcosa” lo esortò Alessandra avvicinandogli al viso una scodella fumante. L’youkai avvertì un profumo strano, gradevole, ma respinse il contenitore con la mano. Piano. Anche quel semplice gesto gli costava una grande fatica. Lui non mangiava cibo umano. Non gli si confaceva.

 

“Quanto sono stato privo di conoscenza, esattamente?”

 

Si aspettava una risposta sola: poche ore, al massimo un giorno. Come quando era stato “curato” da Rin. E poi, voleva togliersi quelle bende. A lui non servivano. Erano una cosa inutile. La ragazza si era affannata inutilmente. Sorrise dentro di sé. Chissà come doveva essersi sorpresa della capacità di rigenerazione del suo corpo.

 

“Una settimana”. Alessandra non aveva insistito nell’immediato. Aveva assecondato il suo rifiuto e risposto alla sua domanda. Ma non aveva intenzione di farlo digiunare. “Adesso mangia, per favore”.

 

…una settimana…Impossibile…

 

Sesshomaru aveva sussultato impercettibilmente. Mai nessuna ferita lo aveva costretto a letto così a lungo. Neanche il più debole degli hanyou impiega così tanto a rimettersi. Perché allora il suo corpo non aveva reagito come al solito? Che era accaduto per impedirlo?

 

Aprì la bocca per chiedere ancora. Per assicurarsi che non lo stesse prendendo in giro. Non riuscì a parlare. Alessandra ne aveva approfittato per avvicinargli la scodella e infilargliela in bocca appena gli aveva visto dischiudere le labbra. Il demone fu costretto ad inghiottire per non soffocare. La minestra era buona, ma dopo poco davvero il suo stomaco non riuscì ad accettare oltre alla metà della porzione. Alessandra non lo sforzò oltre e allontanò la ciotola. Sapeva che il suo stomaco doveva riabituarsi alla consistenza del cibo, dato che negli ultimi giorni aveva ingerito solo liquidi.

 

“Non…riprovarci…”. Lo aveva costretto a ingoiare cibo umano. A sentire qualcosa di strano. Forse quello che era il sapore. Lo aveva trattato come un bambino. E a lui non piaceva quel suo atteggiamento. Ma sapeva anche di essere ancora troppo spossato per riuscire a reagire come avrebbe voluto.

 

Sbuffò scocciato, rilassandosi sulla stola che fungeva da cuscino. Avvertì Alessandra avvicinarsi di nuovo e alzare le coperte. Non trattenne uno scarto improvviso quando percepì le mani della ragazza sul suo corpo. Un movimento brusco. Che lo fece contorcere.

 

“Stai fermo!”.

 

Si ritrovò le sue braccia attorno alle spalle. Le era pressoché caduto contro. Alla cieca, senza la possibilità di capire esattamente dove lei fosse, aveva solo reagito d’istinto per sottrarsi alle sue mani.

 

Fu investito dal suo profumo. Buono. Fresco e inebriante. L’odore della sua pelle. Quello della sera alla pozza. Sentì la mano della ragazza insinuarsi nei suoi capelli, carezzargli la testa in modo materno. E dannatamente sensuale.

 

“Stai fermo…Altrimenti le ferite si riaprono…” ripetè in tono più sommesso. Quello di prima era stato un grido allarmato; adesso era una voce lieve che gli sussurrava all’orecchio. Lo fece adagiare di nuovo e constatò con soddisfazione che quel movimento improvviso non aveva provocato nessun effetto indesiderato.

 

“Tutto a posto”

 

Lo ricoprì e si sedette accanto a lui. Era contenta: che si stesse riprendendo; che avesse ripreso conoscenza. Ma non sapeva neanche lei come spiegare quella sensazione. Dirgli che era contenta e che la felicità derivava dalla semplice presenza di lui, sarebbe stato difficile. Illuminato dal riverbero del fuoco, Sesshomaru le appariva più seducente che mai. Sembrava essersi assopito, ma lei sapeva benissimo che stava semplicemente pensando. Cercando di riordinare i ricordi confusi del duello e degli ultimi giorni. Forse, le sensazioni provate.

 

“Recupererai presto le forze”

 

Alessandra aveva attirato le ginocchia al petto e adesso stava osservando il fuoco. Era strano sentirla parlare così. Il bel demone finora l’aveva sentita perlopiù raccontare, ma comunque poco. Di solito, si nutrivano dei rispettivi silenzi. Dei loro sguardi. Invece, adesso, era lei ad aver iniziato una conversazione. Senza particolari argomenti. Dicendo un’ovvietà. Come se non riuscisse a sopportare il suo silenzio. Sesshomaru girò appena la testa verso di lei, sulle labbra un sorriso di commiserazione. Per la sua affermazione.

 

Che stupida! Una frase più banale non la potevo trovare!

 

Ma non le importò. Voleva parlare. E sentire anche la sua voce. Quando lo aveva visto riverso a terra, aveva creduto che fosse morto. E si era sentita morire anche lei. Aveva percepito benissimo un senso di vuoto e dolore invaderla; la disperazione che le attanagliava lo stomaco mentre lo medicava. Quelle ore trascorse accanto a lui, con lui in stato d’incoscienza…Sospeso fra la vita e la morte…Una tensione febbrile che la portava ad allarmarsi ad ogni suo movimento. A sperare che riprendesse conoscenza. Perché temeva terribilmente che non riaprisse più gli occhi. Di non riuscire ad aiutarlo.

 

“Penso che tu sia stato avvelenato…Hai dimostrato grande resistenza…Ora dovresti essere fuori pericolo…”

 

Banalità. Banalità. Per riempire il silenzio. Per non cedere al sollievo e alla tensione che si allentava. Per non scoppiare a piangere come una bambina. Le avrebbe fatto bene, invece. Ma era abituata a tenersi tutto dentro. E con l’youkai ancora così debole, era lei adesso che doveva mostrarsi forte. E, a parte la voglia di quel pianto liberatore, era davvero determinata. Come poche volte le era capitato. Si sentiva cambiare. Sempre di più. Ritrovare la sicurezza persa dopo quell’incidente.

 

Sesshomaru allargò un po’ il sorriso. Ricordava quello che era accaduto, anche se vagamente. Un colpo al fianco e poi altri in più parti del corpo. Anche al volto. Ma il veleno non lo aveva mai provato. Almeno, non un veleno così potente. Capace di paralizzare la sua forza di rigenerazione. Di prosciugarlo quasi del suo youki.

 

“E questo?...” chiese alzando faticosamente la mano e passandosela sulla fasciatura al viso.

 

“Una ferita alla testa. Sopra gli occhi” spiegò Alessandra. Ma dentro sentì il cuore stringersi perché aveva dovuto mentirgli. Non era ferito alla testa; era stato ferito agli occhi. Colpito da qualcosa simile all’acido. Da un corrosivo potente. Tanto che lo aveva sfigurato in un primo momento. Ora la pelle del viso si stava lentamente riformando, coprendo le cicatrici e ritornando perfetta e lunare. Ma non aveva la stessa sicurezza per gli occhi. Però non voleva allarmarlo. Allarmare se stessa. In fondo, di oculistica non aveva mai saputo niente.

 

“Perché non te ne sei andata?”

 

Sesshomaru respirò a pieni polmoni l’aria fredda che entrava nella grotta. Doveva essere notte. Non si sarebbe mai aspettato di risvegliarsi con lei al fianco. Che fosse suo, l’odore che avvertiva confuso nella semi incoscienza. Le aveva detto che doveva andare. Perché gli aveva disubbidito? Cosa l’aveva spinta a restare? Accanto a lui, a vedere sangue, il suo corpo martoriato? Perché anche se bendato, il demone sentiva su tutto il corpo la pelle nuova tirare, appena rimarginata. Molte ferite. Alcune superficiali, altre profonde.

 

“Ti sembrano domande da fare?”

 

Rammarico, rabbia, delusione…C’erano molte sfumature i quella risposta. E aveva un tono un po’ più alto del normale. Quasi un urlo strozzato. Di chi cerca di imporsi la calma. Bastava così poco per farla arrabbiare? No di certo. Non l’aveva mai sentita urlare. In nessuna occasione. Anche quando l’aveva minacciata. O quando combattevano. Perché allora in quel momento la sua calma era vacillata? Sapeva che sarebbe inutile insistere. Glissò l’argomento. Almeno per il momento.

 

Naraku?”

 

“Non si è più fatto vedere”. Buono a sapersi. Perché in quelle condizioni non avrebbe potuto fare molto per difenderla.

 

“Lo schiaffo?”. Alessandra si sorprese; non pensava che lo avesse notato, attraverso il sangue che gli velava gli occhi. Forse aveva sentito la guancia gonfia quando l’aveva accarezzata.

 

“Passato” rispose scrollando le spalle. “Certo che voi uomini date di quegli schiaffi…Ti prendono tutta la faccia e sembra che ti strappino la testa”

 

Sesshomaru sorrise dentro di sé. Era la prima volta che la sentiva scherzare. Anche se aveva un modo strano di sdrammatizzare le cose. Cerco d’istinto il suo viso, muovendo piano la mano nell’aria per non ferirla inavvertitamente con gli artigli. Lo trovò e lo fece voltare verso di lui. Avrebbe voluto vedere i suoi occhi. Sapere se erano azzurri come il cielo di primavera o blu come il mare in tempesta. Avrebbe voluto vedere le sue emozioni.

 

“Non tutti danno schiaffi…” le sussurrò accarezzandole la guancia col dorso della mano. Era normale. Non gli aveva mentito. Alessandra rimase rigida per un attimo, ma poi si abbandonò alla sua mano. Si lasciò sfiorare dai suoi artigli. Senza timore.

 

“Lui…ti ha…baciata?...”

 

Silenzio. Sentì la ragazza sussultare sotto la sua mano. Non si aspettava quella domanda. Non sapeva che lui lo aveva visto chinarsi su di lei. Ecco a chi sorrideva. A lui. Per fargli rabbia; per ingelosirlo.

 

…Sei geloso?...Di me?...

 

C’era esitazione nella sua voce. Paura, forse. Di sentire qualcosa che non voleva. Sesshomaru aveva la testa che gli pulsava forte. Assordandolo. Se non si fosse sbrigata a rispondergli, sarebbe diventato folle. Perché taceva? Allora era vero: l’aveva baciata. Lui. Quell’essere immondo. Quel disgustoso hanyou. L’aveva baciata. Aveva chiuso le sue labbra di velluto con le sue ributtanti. Aveva sentito il suo sapore. Aveva…

 

“…No…”

 

A Sesshomaru sembrò che il respiro si fosse fermato. Aveva detto no. Non l’aveva sfiorata. Quell’urlo soffocato. Doveva essere suo, non della ragazza. Nella testa, per alcuni minuti, quel monosillabo fu ripetuto all’infinito. Per convincersene. Che non le aveva rubato nulla. E ogni volta che lo sentiva il respiro si faceva più leggero. Stava riacquistando la sua sicurezza.

 

“Perché sei rimasta?”

 

Lei gli prese la mano fra le sue, rigirandola piano. Fissava i suoi artigli. La sua mano diafana, bianca. L’aveva vista grondare sangue; aveva pulito il sangue che la incrostava. Eppure, non le faceva paura. Come era riuscita a sopportare di nuovo la vista di un corpo martoriato.

 

In fondo, quella era un’altra realtà. C’erano regole diverse. Lui era diverso. Era un assassino. Lo diceva il suo nome. Ma non era malvagio. Uccideva, ma senza…senza cosa? Non lo sapeva neanche lei. Però, sapeva la risposta alla sua domanda. E gliela avrebbe data. Perché era inutile ormai per lei scappare. Non si sfugge a se stessi. E poi, non le piaceva mentire. Per quel giorno, la sua bugia necessaria l’aveva detta.

 

“Per te…”

 

 

 

 

Sesshomaru si svegliò improvvisamente. Si sentiva riposato, dopo il lungo sonno, anche se le membra erano pesanti. Attorno a lui solo buio. E il crepitare del fuoco. Non si era accorto di essersi addormentato. Non era abituato a farlo. Ricordò il discorso fatto con la ragazza, alcuni giorni prima. La sua risposta alla sua domanda.

 

…Per te…

 

Sorrise. Trasognato. Aveva provato l’impulso di baciarla. Aveva provato la certezza che questa volta non lo avrebbe respinto. Ma si era dominato. La voleva. Quello sì. Ma voleva poterla guardare, mentre l’attirava a sé, vedere l’espressione sul suo volto prima di chiudere gli occhi e scoprire il suo sapore.

 

Non l’aveva baciata. Si era limitato a stringerle una mano. Poi, doveva essere scivolato nel sonno. Quell’emozione, quel tuffo al cuore provato a quella risposta gli aveva rubato l’ultima forza residua. Mosse la mano nell’aria, come ad afferrare qualcosa. Non era lì. Lo poteva sentire anche dall’odore. Ma, per un attimo, sperò di scoprire di nuovo sotto le dita la sua pelle.

 

Si mosse un po’. Non sapeva da quanto tempo dormisse, se fosse giorno o notte. Però, si sorprese un po’ affamato. Cosa davvero inusuale per lui. Aspettò che arrivasse la ragazza, pazientemente. Voltava di quando in quando la testa verso l’apertura della grotta, da dove sentiva provenire una brezza fresca. Nessun rumore però. Nessun odore. Si passò una mano sul viso.

 

Devo togliere questa benda, mi da fastidio. Pizzica terribilmente

 

Si sollevò a sedere sul letto. A fatica. Era vestito solo con i pantaloni del kimono. Ma almeno indossava qualcosa, constatò con sollievo. Stranamente, l’idea di essere nudo lo metteva a disagio. Non si era mai vergognato del suo corpo. Non aveva nulla di cui vergognarsi. Ma l’idea che lei lo vedesse in quello stato, lo imbarazzava non poco. Alla pozza, era stato pronto a entrare in acqua, ma stranamente anche lì non aveva pensato a spogliarsi. Semplicemente, non si sentiva pronto a che lei lo vedesse così. Scosse la testa. Quei pensieri gli erano estranei. Da quando lui era così pudico? Non ricordava di esserlo mai stato. Decoroso, ma non moralista.

 

Portò la mano alla benda, iniziando a disfare lentamente la fasciatura. Alessandra si sarebbe arrabbiata, ma lui proprio non resisteva. E in fondo, non sarebbe successo nulla di irreparabile. A breve, la ragazza l’avrebbe sciolta personalmente per cambiarla. Anticipare di poco non avrebbe avuto nessuna conseguenza. E poi, finalmente, avrebbe potuto vedere dove si trovava. Quando veniva medicato, Alessandra gli impediva di aprire gli occhi. Sempre. Diceva che voleva evitare che quello che spalmava sulle ferite ormai cicatrizzate potesse reagire con gli occhi. Infettarli.

 

Sesshomaru sentiva il lino scivolare morbido fra le dita. Pregustava il piacere che avrebbe provato nell’affogare di nuovo nel blu degli occhi della ragazza. L’avrebbe baciata. Questa volta, lo avrebbe fatto. L’avrebbe afferrata e attirata a sé. Guardandola negli occhi fino all’ultimo. Fino a un soffio dalle sue labbra. Per godersi ogni sua emozione. Ogni istante.

 

L’ultimo giro di garza scivolò leggero.

 

Aprì gli occhi.

 

Alessandra lasciò cadere a terra la legna che aveva raccolto. Un suono assordante nel silenzio irreale della caverna.

 

…No…Perché non mi hai aspettata?...

 

Lo aveva visto. Seduto nel futon. Con la benda sulle ginocchia. L’aveva sciolta. Per un qualche motivo, non l’aveva aspettata. E aveva sciolto la fasciatura. E ora era immobile, con gli occhi fissi davanti a lui.

 

Buio. Non vedeva altro.

 

Sesshomaru artigliò la coperta del letto; percepì la stoffa lacerarsi sotto la sua stretta. Negli spasimi della sua mano.

 

Buio. Buio.

 

Ovunque, intorno a sé.

 

Alessandra non si mosse. Fissava le iridi vuote del demone. Ormai, lo aveva scoperto. E forse, era anche meglio così. Non avrebbe potuto mantenere ancora a lungo quel segreto.

 

“Tu…lo sapevi?”

 

Alessandra annuì. Ormai, non aveva più senso mentire.

 

“…Lo sospettavo…”.

 

Era vero. Certezze non ne aveva. Si era sempre rifiutata di analizzare le pupille dell’youkai. Per non veder naufragare anche l’ultima speranza. Per illudersi che quel liquido che gli aveva ustionato il volto gli avesse risparmiato la vista. Inutile. Inutile.

 

E lui lo aveva scoperto nel modo più doloroso. Aprendo gli occhi senza riuscire a percepire nulla. A distinguere nulla. Solo oscurità. Avvolgente. Soffocante.

 

Sesshomaru non replicò. Non ne aveva la forza. Tutto il suo mondo…gli era crollato addosso…Cieco…Lui era cieco…Non avrebbe più potuto vederla. Più perdersi nei suoi occhi. Vedere quel sorriso che tanto desiderava che fosse dipinto su quelle labbra. Più. Mai più.

 

Digrignò i denti. Scoprì i canini appuntiti. Rabbia. Frustrazione. Una furia folle e impotente. Sì. Era furioso. Con se stesso. Con il suo corpo. Con i suoi occhi. Lo avevano tradito.

 

Percepì delle braccia stringergli le spalle. Un abbraccio. Silenzioso. Una mano a carezzargli il viso. Alessandra gli si era avvicinata e lo aveva stretto a sé. Forte. Lo aveva circondato come se volesse proteggerlo. Come per allontanare da lui ogni male possibile. Lo aveva sfiorato con una carezza e ora appoggiava il viso alla sua testa, affondando nei suoi capelli serici. Affogando nel suo odore di muschio.

 

Sesshomaru capì il conforto che voleva dargli. Assottigliò le iridi opache e sovrappose la sua mano a quella di lei. Strinse forte. Aveva bisogno di quel contatto. In quel momento più che mai. Della vicinanza di qualcuno. Della sua vicinanza.

 

Si sentiva estremamente scoperto in quelle condizioni. Si sentiva…Non si sentiva più lui. Non era più sicuro di nulla in quel momento. Neanche di chi fosse.

 

Lo disse. Per la prima volta da quando la conosceva. Pronunciò il suo nome. Con una voce roca che non gli apparteneva. Come se cercasse disperatamente di fermare in gola le lacrime. La chiamò. Perché aveva bisogno di lei. Per la prima volta. Per la prima volta, aveva bisogno di qualcuno. Lui. Sesshomaru. Il principe dei demoni.

 

La chiamo come se la pregasse. Come se temesse che quella presenza svanisse. Si dissolvesse da sotto le sue mani. Perché di lei aveva bisogno, in quel momento più che mai.

 

Un sussurro che era un singhiozzo strozzato.

 

“Alessandra…”

 

  
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