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Autore: shesafeandsound    14/06/2012    5 recensioni
"Continuai la mia corsa ed una volta che fui fuori dallo stabilimento mi precipitai in macchina. La schiavai, lanciai la borsa blu nel sedile del passeggero e trattenni un grido quando mi misi seduta e una volta lasciato passare il dolore, uscii dal parcheggio senza curarmi troppo delle macchine che avrebbero potuto venirmi contro. Non vedo molta differenza fra essere morta e condurre la vita che facevo io."
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"dovrei fare un ecografia" dissi alla ragazza dello sportello.
"certo, si accomodi. la dottoressa arriverà fra qualche minuto" rispose la ragazza su una ventina di anni, che indossava un camice bianco con delle scarpe infermieristiche. La vidi allontanarsi e questo mi fece solo piacere. Avevo paura potesse leggere la mia espressione da cane bastonato e chiedermi a cosa fosse dovuta. Mi sedetti su una sedia bianca che era posta davanti alla porta dello studio della dottoressa e cominciai a massaggiarmi la caviglia dolorante.
"Buongiorno" mi disse una donna affacciandosi dalla porta davanti a me. Era una bella donna, capelli biondi fermati in una treccia, occhiali neri con montatura rettangolare e abbigliamento solito da dottori.
"Si accomodi" mi invitò dentro aprendo tutta la porta.
"Buongiorno" risposi sedendomi davanti ad una scrivania. Una smorfia di dolore si disegnò sulla mia faccia quando il corpo aderì alla sedia.
"Allora, prima di fare l'ecografia deve darmi un po' dei suoi dati personali" mi informò lei in tono gentile mettendomi a mio agio. Io annuii ed aspettai le sue domande.
"mi dica un po' tutto di lei: nome, cognome, età, abitazione, provenienza, lavoro e cose simili" disse posizionandosi bene gli occhiali sul naso.
"mi  chiamo April Lee, ho 17 anni e a settembre frequenterò il quarto liceo qui in California. Vivo in via E Weldon Ave con mio padre." pronunciai quest'ultima frase con disprezzo ed ostilità. Quella bestia non era mio padre.
"perfetto." esclamò inserendo tutti i dati sul computer. "April Lee, ha detto?" mi chiese per conferma. Io annuii silenziosamente.
"bene, si può spogliare!" disse invitandomi ad alzarmi in piedi "faremo una visita generale per poi passare all'ecografia" mi informò.
Visita generale? Spogliarmi? no questo non era nei miei piani. Avrebbe dovuto farmi stendere sul lettino con la pancia scoperta che sarebbe stata l'unica parte del corpo dove non ho segni di contusione e non avrei dovuto raccontare nulla di mio padre. Come diavolo potevo uscirne fuori da questa storia? non potevo togliere i vestiti e mostrare i miei lividi e le mie cicatrici. 
"sta bene?" mi chiese la dottoressa vedendo il mio sguardo perso nel vuoto.
"cosa?" chiesi scuotendo la testa e ritornando al mondo reale "ah, sì ... ecco, è che preferirei non spogliarmi." ammisi dietro un velo di vergogna ma che avrebbe coperto la vergogna più grande:mostrare i segni di violenza sul mio corpo.
"non si vergognerà, vero? siamo fra donne" esclamò portandosi la mano davanti la bocca per nascondere la risata. le sue dita, però, non nascosero dei denti perfetti che disegnavo un sorriso dolcissimo. "dai, si spogli" mi disse porgendo le mani davanti a me "mi dia i vestiti"
Non vidi altra via d'uscita e comincia a toglierarmi i vestiti. Le mie mani avevano imparato ad avere un tocco leggero sulle mie ferite, sapevo trattarmi bene e sapevo amarmi cosa che quella bestia di uomo non era più stato capace di fare.
"oh madre del cielo, ma cosa ha fatto?" mi chiese la dottoressa alla vista del mio corpo di colore verdastro. certo, tutti quei segni non passavano inosservati, erano la prima cosa che si notava e, solo sotto, si poteva individuare uno strato di pelle bianca.
non risposi. non volevo rispondere, non potevo rispondere. 
"cosa hai fatto, April?" continuò a domandarmi, questa volta alzò la voce ma pronunciò tutto in modo confidenziale, passando da darmi del lei a darmi del tu.
"sono stata ..." deglutii e cercai il coraggio di pronunciare quella parola.
"cosa? sei stata cosa?" mi chiese impaziente con aria scioccata. 
"picchiata. sono stata picchiata!" esclamai, prima, alzando la voce ma che servì solo a nascondere la mia disperazione, infatti, dopo alcuni secondi crollai in un pianto interrotto da singhiozzi e da affanno. le lacrime cominciarono a rigare il mio viso e le ferite sotto il fondotinta cominciarono a bruciarmi.
"da chi?" mi chiese sempre più esterrefatta. allungò le mani ma non mi toccò. sapeva che se lo avesse fatto avrei tirato un urlo di dolore.
"da chi? April, da chi?" mi chiese con gli occhi lucidi.
Era assurdo, non la conoscevo e già si preoccupava tanto per me. Vidi uno scintillio nei suoi occhi: era una lacrima intrappolata nell'occhio che fece fatica a scendere ma che, una volta che ebbe bagnato lo zigomo, fece supplicare la donna per avere una mia risposta.
"da ... mio padre" risposi incerta. "per favore, non dirlo a nessuno" questa volta ero io a supplicarla fra i singhiozzi e le lacrime.
"come può tuo padre averti fatto questo?" domandò incredula. le lacrime erano scomparse e nella sua voce si riusciva a percepire un filo di rabbia.
"tutto è cominciato da quando seppe che ero rimasta incinta, circa due mesi fa, cominciò a picchiarmi per punizione. prima era un padre amorevole, poi quando morì mia madre divenne freddo ed insensibile e poi ... divenne un mostro" mi interruppi perchè era finita la storia ma anche perchè era finito il fiato. ero ancora più disperata di prima ma, da una parte, mi aveva fatto bene parlarne con qualcuno.
"forza vieni qua. medichiamo queste ferite" mi disse cercando di fermare le mie lacrime.
Feci un cenno d'accordo e rimasi in piedi, nuda, in mezzo allo studio. Mi coprii con le mani cercando di estraniarmi dal resto del mondo. Aspettai che ritornasse dentro con le bende e cose simili.
Cominciò a passare dell'ovatta morbida sulle ferite più ostili, quelle che stavano lì da un mese e che non si volevano chiudere perchè venivano ricalcate ogni giorno da un nuovo pugno, che cominciarono a bruciarmi e dovetti pregarla di smetterla per quanto dolore mi provocava il disinfettante sul corpo.
"Shh" sussurrò per calmarmi "ora passa tutto" continuò con voce comprensiva e dolce.
Era da tre anni che qualcuno doveva parlarmi con queste parole gentili. Da quando era morta mia madre nessuno pensò più a me, dovetti imparare a prendermi cura di me stessa, a capirmi e ad affrontare anche le paure più stupide fidandomi solo del mio cervello e, spesso, neanche di quello. Ero in guardia dalle mani di quella donna, ma allo stesso tempo mi trovavo a casa fra di esse perchè, il suo tocco premuroso e delicato, mi ricordava quello di mia madre e così, cominciai a fidarmi, tanto non avrebbe potuto farmi più male di quanto non avesse già fatto mio padre. 
fissò qualche cerotto sui tagli ancora aperti e poi smise di torturarmi, lasciò la mia pelle ed io sospirai sollevata.
"bene, ora possiamo fare l'ecografia. accomodati! attenta a non farti troppo male" mi disse facendo segno di salire sul lettino.
Mi sistemai cercando di non spingere troppo sui tagli dietro la schiena così la inarcai e spinsi tutto il peso sulla testa e sui piedi.
La dottoressa Hayes, così c'era scritto sul cartellino della sua divisa, mi alzò la maglia e cominciò a fare il suo lavoro.
Si pulì le mani e ritornò dietro la scrivania. A quel punto scesi dal lettino e, evitando di pesare ancora sulle ferite, rimasi in piedi vicino alla sedia.
"Allora, il bambino, stranamente, è in buone condizioni. Scusa ma tu hai questa creatura in grembo da tre mesi ..." capii subito cosa intendeva.
"sì,lo so. mio padre lo ha scoperto,dopo un mese,che sono incinta" mi spiegai meglio.
"va bene, ora cerca di denunciare tuo padre o di fare qualsiasi altra cosa ma non continuare a farti picchiare" mi disse alzandosi dalla sedia. Mi porse un foglietto bianco con qualcosa scritto sopra e poi mi congedò.
"arrivederci" esclamai cordialmente. Ricambiò il saluto e si chiuse nel suo studio.
Facile dirlo, per lei che avrà avuto un padre amorevole come molti altri. Io, se lo avessi denunciato lo avrebbero arrestato e sarebbe andato tutto bene ma poi io dove sarei andata? non ho familiari. I miei sono entrambi figli unici e i miei nonni sono morti, eccetto uno che è malato di cancro e che non poteva di certo badare a me ed andare in una casa famiglia era l'ultima delle mie volontà.
Fra un anno avrei potuto denunciarlo, comprarmi una casa e vivere da sola ma fino ad allora avrei dovuto vederlo ogni giorno. Solo un anno. April ce la puoi fare. Ormai questa era l'unica frase che mi faceva tirare avanti.
Presi il telefono dalla tasca che aveva cominciato a vibrare in un modo talmente forte che non poteva essere ignorato, o forse stava solamente sbattendo su un livido della gamba provocandomi dolore.
 
Celine 
 
"pronto?" risposi uscendo dall'ospedale. Il vento soffiava forte alle sei e un quarto della mattina, cominciò a passare in mezzo ai miei capelli disegnando giochi di onde con le mie ciocche biondo cenere.
"april, ti ho svegliato?" mi chiese con tono preoccupato.
"no, tranquilla, dimmi!" credo che mi avesse chiamato a quell'ora della mattina perchè fin da piccola mi svegliavo prestissimo,non avevo mai smesso di farlo e lei, ormai, lo sapeva. piuttosto, lei mi sorprendeva. Celine non era mai stata una mattiniera eppure oggi era in piedi nemmeno alle sette.
"organizziamo una cena di classe, ti andrebbe di venire?"
"quando?" chiesi molto esaltata, dovevo nascondere la mia disapprovazione così, quando lei me lo avrebbe detto, io avrei potuto mettere in atto le mie doti teatrali e fingermi molto dispiaciuta dal fatto che avessi avuto da fare e quindi avrei dovuto rifiutare l'invito.
"sabato sera!" rispose con un tono allegro, troppo allegro per quell'ora.
cominciai a borbottare qualcosa, mi calai nel personaggio e risposi "cavolo, sabato non posso devo andare via con mio papà. mi dispiace tantissimo. semmai organizzeremo un' altra cena, che ne dici?" chiesi infine aprendo con la mano destra la macchina. non potevo accettare l'invito perchè la cena sarebbe finita tardi e mio padre sarebbe rimasto ad aspettarmi sveglio pronto ad usare le mie mani che sanno picchiare su di me come ferro caldo. ormai, dovevo prendere questo tipo di decisioni ricordandomi che qualsiasi cosa avrei fatto sarebbe andata a mio discapito. solo un anno. April ce la puoi fare.
"oh, va bene. dispiace anche a me. ciao, bellissima"
"ciao, ciao" esclamai attaccando il telefono e salendo in macchina.
di nuovo,fitte di dolore pervasero il mio corpo e per riprendere il controllo dei miei muscoli mi servirono cinque minuti buoni. era come ricevere tante spade conficcate nel corpo tutte nello stesso momento, come se qualsiasi limite del dolore fosse stato cancellato ed io ero all'apice della sofferenza. era in momenti come questi che mi mancava una mano da stringere, a cui attaccarmi, e stringere, e stringere finchè il dolore non se andava, finchè il mio corpo non ritornava sotto il mio controllo. mi costrinsi a tirare indietro le lacrime.una fitta mi riempì la tempia e nell'attimo impiegato per dire "mi fa troppo male" ero con la testa sul volante pregando che quell'emicrania passasse presto.
  
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