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Autore: A z r a e l    16/06/2012    0 recensioni
Bastò un attimo, per pochi secondi i nostri occhi si incontrarono, vi lessi la stessa paura e lo stesso smarrimento che c’era nei miei.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'Autrice: E dopo tempo interminabile, ecco finalmente il sesto capitolo di Aldebaran, spero che vi piaccia e di non avervi deluso. E spero che ci sarà ancora qualcuno pronto a leggere la mia storia ^^''
Non vi prometto che il settimo capitolo arriverà in fretta, meglio non fare promesse che non sono sicura di poter mantenere! Ma spero di riuscire a scriverlo il più presto possibile, perché voi lo meritate, ma soprattutto perché Bryn lo merita (:


Capitolo 6

Impiegammo poco più di mezz’ora per arrivare al villaggio in cima alla collina, anche se mi sembrò molto di più, ero così stanca che ogni passo mi costava quando uno sforzo sovrumano.
Quando entrammo nel villaggio un gruppo di bambini, che fino a quel momento stava giocando nella piazza, ci corse incontro con fare festoso. Circondarono Jack e lo strattonarono a destra e a sinistra perché volevano che andasse a giocare con loro, sui loro visini leggevo la gioia di rivederlo. Non dovettero insistere molto perché lui li seguì subito tra le risate generali.
Non pensavo che dentro di lui potesse nascondersi una parte simile.
Cercai con lo sguardo il mio falco, non ero abituata a non trovarlo al mio fianco. Scrutai tra gli alberi al limitare del villaggio e lo vidi appollaiato su uno dei rami bassi, a pochi passi da me.
In quel momento sentii che potevo finalmente rilassarmi, inspirai profondamente e mi misi a guardare Jack che giocava con i bambini. Non potei fare a meno di sorridere.
Mi accorsi che accanto ad una delle capanne c’era una panchina, decisi di andare a riposarmi lì mentre aspettavo il mio compagno di viaggio.
Trascinai i piedi fino alla panchina e, piuttosto sgraziatamente, mi sedetti.
Nell’attesa ebbi tutto il tempo di guardarmi attorno. Le capanne del villaggio erano piuttosto piccole e sembrava quasi che volessero rincuorarsi a vicenda per quanto erano ravvicinate le une alle altre. Alcune costruzioni erano più grandi delle altre, supposi che fossero adibite ad un uso comune. Più guardavo il villaggio e più mi sembrava perfettamente incastonato nella foresta, il legno dominava su tutto.
Ero assorta in questi pensieri quando una figura ingobbita mi si avvicinò.
-Capelli rossi. Occhi versi. Ti stavamo aspettando figlia di Aldebaran.-
Guardai l’uomo che mi aveva rivolto la parola, dalla sua postura avevo creduto che fosse un vecchio, ma ora che lo guardavo attentamente mi stupii di vedere che non fosse più vecchio di mia madre. Aveva una zazzera di capelli biondo cenere che gli arrivava alle spalle e i suoi occhi blu cobalto emanavano saggezza.
-Voi siete il capo villaggio?- chiesi.
Annuì –Sì, sono io.- i suoi occhi mi scrutarono nel profondo dell’anima –Sono rimasti in pochi qui a conoscere la vostra storia, so quanto sia importante la vostra missione e vi offrirò tutto il necessario per proseguire nel vostro viaggio.-
Gli sorrisi, era la prima persona che incontravo in quel posto che mi dimostrasse fiducia e non aspettativa, non gli importava sapere cosa sapessi, voleva solo aiutarmi.
-Grazie!-
Dopo avermi fatto un cenno con il capo si alzò e tornò alle sue occupazioni.
Lo osservai mentre si allontanava, pio il mio sguardo si posò di nuovo su Jack e i bambini che stavano giocando.

Ci sistemarono in una capanna al centro del villaggio. Ci sfamarono e ci diedero la possibilità di rinfrescarci per bene.
Il buio premeva contro le finestre, l’unica luce proveniva da qualche candela sparsa nel piccolo spazio della capanna.
Eravamo sazi e puliti, ma nonostante la stanchezza del viaggio, nessuno dei due riusciva a prendere sonno.
Ero seduta a gambe incrociate sul mio letto e osservavo Jack dall’altra parte della stanza che stava sdraiato sul suo.
Voltò lentamente la testa verso di me –Da dove vieni?-
La sua domanda mi colse impreparata. Lo guardai con aria interrogativa senza parlare.
-Beh, sappiamo di essere stati mandati sulla Terra, ma non sappiamo in che luogo. Ero solo curioso di sapere da dove vieni tu.-
Con la mente tornai a casa, in quella stanza che non era veramente la mia, e poi fuori, insieme a Dermatt, tra gli alberi del mio boschetto. Abbassai lo sguardo sulle mie mani.
-Vengo da una piccola città della campagna inglese.- rialzai la testa per guardarlo, sul mio volto un sorriso triste –Tu da dove vieni?-
-Da New York.- anche il suo era un sorriso triste, ma totalmente diverso dal mio, i suoi occhi erano carichi di nostalgia. Sicuramente gli mancava la sua famiglia e i suoi amici, forse aveva lasciato indietro anche una ragazza.
A me non mancava niente, Dermatt era ogni cosa per me, la mia famiglia, il mio migliore amico, ogni cosa. Nessuno sentiva la mia mancanza, era questo a rendermi triste.
Un alito di vento proveniente da sotto la porta fece tremolare la luce delle nostre candele fino a spegnerle. Non parlammo più e ci addormentammo.
Quella notte sognai l’Inghilterra e la mia famiglia. I loro sguardi erano gelidi, ma ridevano con gusto. Erano felici che finalmente io non ci fossi più.

Ci svegliammo all’alba. Come per un tacito accordo, in silenzio radunammo le nostre cose e andammo nella piazza dove il Capovillaggio ci stava già aspettando. Ci diede un po’ di scorte di cibo e acqua, poi si congedò.
-Vi auguro buona fortuna ragazzi.-
E su queste parole si voltò e tornò verso la sua casetta. Lo osservammo andare via, poi ci guardammo senza dire una parola e riprendemmo il cammino.
Ci inoltrammo nella foresta con Dermatt che volava qualche metro sopra le nostre teste. Non percorremmo il sentiero che ci aveva portato al villaggio, ma ai miei occhi sembrava sempre la stessa strada.
-Sei sicuro che sia la strada giusta?-
Jack si voltò verso di me con un sopracciglio inarcato.
-So dove stiamo andando.- disse voltandosi di nuovo e proseguendo lungo il sentiero –Ti ricordo che sono nato da questa foresta, la conosco meglio di me stesso.-
Sbuffai stizzita dubitando che un giorno mi sarebbe mai stato simpatico per più di mezza giornata.

Stavamo camminando da ore quando il paesaggio cominciò a mutare ed entrammo nel Territorio delle Piogge Perpetue, probabilmente mai nessun nome era stato più azzeccato.
La pioggia scendeva incessantemente e il tragitto era reso difficoltoso dall’acqua e dalla fanghiglia. Ci tenevamo in piedi a fatica, continuando a scivolare sull’erba bagnata. Nei tratti in cui riuscivamo a proseguire più saldamente i nostri piedi affondavano nel fango rallentandoci. Eravamo fradici e più che camminare il nostro sembrava un arrancare stanco.
A rendermi difficile il tragitto c’era anche Dermatt, che per ripararsi dalla pioggia si era appollaiato sulla mia bisaccia, nascosto sotto il mio mantello inzuppato.
Ormai pensavo che avrei camminato sotto la pioggia per l’eternità, ma per fortuna non feci in tempo a lamentarmi della situazione ad alta voce perché la pioggia stava lentamente cessando, più camminavamo e meno pioveva. Ci lasciammo alle spalle il terreno fangoso e proseguimmo su rocce scivolose e bagnate.
Sembrava tutto più facile, alleggeriti dal peso dell’acqua sulle spalle e, per quanto mi riguardava, da quello di Dermatt che aveva spiccato il volo appena la pioggia aveva smesso di scrosciare.
Ma un nuovo ostacolo ci si parò davanti poco dopo il passaggio dalla palude alle rocce. Ci aspettava una breve scalata.
Jack decise di andare per primo, i suoi piedi scivolavano sulle rocce, ma in pochi minuti riuscì a scalare la parete. Mi fece un cenno col capo e mi preparai a raggiungerlo.
Forse dipese dalla mia inesperienza come scalatrice, o forse dal fatto che fosse tutto bagnato, ma faticai molto più di Jack ad arrampicarmi.
Non riuscivo ad aggrapparmi saldamente da nessuna parte e appena riuscivo ad issarmi un po’ più in alto i piedi scivolavano sulla superficie rocciosa, ma nonostante le parecchi difficoltà riuscii ad arrivare in cima, anche se probabilmente il merito fu più di Jack che mio.
Ci fermammo qualche minuto a riposare.
-Te la senti di proseguire?- mi chiese.
-Dobbiamo, non possiamo sprecare tempo.-
Mi guardò con la luce della determinazione accesa negli occhi, poi si alzò e mi tese una mano per aiutarmi ad alzarmi.
Per la prima volta accettai di mia spontanea volontà la sua offerta e fu forse in quel momento che diventammo finalmente una squadra.

Eravamo stanchi e appesantiti dalla pioggia quando arrivammo al ponte. Sembrava una linea di separazione tra due mondi, dalla nostra parte solo rocce acuminate, un terreno nudo e spoglio, mentre sull’altro versante si intravedeva un paesaggio freddo e già parzialmente innevato, l’anticamera del luogo in cui eravamo diretti.
Dermatt si appollaiò sulla mia spalla, lo guardai e gli feci un cenno. Si alzò in volo e andrò in avanscoperta.
Io e Jack ci avvicinammo alla passerella, perché più che un ponte sembrava proprio una passerella in equilibrio precario. Ad una cinquantina di metri sotto le assi di legno imperversava un fiume in piena, sulla riva dell’altra sponda si intravedeva un sentiero che difficoltosamente risaliva verso il terreno innevato.
-Andrò io per primo, questa passerella sembra non reggere molto.- il suo tono non ammetteva replice –E poi, io sono molto meno importante di te.-
Avrei voluto ribattere, ma non me ne lasciò il tempo perché s’incamminò velocemente sulle passerella.
Lentamente, un passo dopo l’altro, tenendosi difficoltosamente in equilibrio, Jack arrivò dall’altra parte sano e salvo.
Inspirai profondamente per farmi coraggio, poi cominciai anch’io la traversata.
Le assi di legno scricchiolavano ad ogni mio passo, proseguii lentamente fissando lo sguardo verso Jack.
Probabilmente fu un errore, ma quasi a metà traversata guardai di sotto, l’acqua che si infrangeva sulle rocce mi fece girare la testa, mi costrinsi a fissare la passerella, ma qualcosa andò comunque storto. Senza preavviso il legno cominciò a cedere sotto i miei passi e io cominciai a cadere.

Non urlai, almeno credo di non averlo fatto, ero troppo sorpresa per poterlo fare e prima di rendermene completamente conto mi ritrovai travolta dall’acqua.
La corrente mi spinse contro le rocce, colpo dopo colpo mi trovai ad annaspare cercando aria, ma tutto quello che entrava dalla mia bocca era acqua. I polmoni cominciarono a bruciarmi per la mancanza di ossigeno e più provavo a scalciare per raggiungere la superficie più la forza del fiume impetuoso mi trascinava a fondo.
Lentamente persi la percezione delle cose, il mio mondo era fatto da un vortice di acqua che piano, piano si stava dissolvendo; il mio corpo non esisteva più, l’unica cosa che ancora sopravviveva era la mia mente, o quello che ne restava. Non avevo più la percezione delle cose, di nessuna cosa, l’unica cosa di cui mi resi conto era che stavo morendo.
Quando il pensiero della morte si formò nella mia mente accadde qualcosa, trovai dentro di me la connessione con l’acqua, fu come se qualcosa, dove un tempo c’era stato il mio cuore, si fosse risvegliato.
Aggrappandomi a quella connessione immaginai che una gigantesca mano idrica mi sospingesse dolcemente sulla riva, accanto al sentiero che mi avrebbe condotto sulle montagne.
In qualche modo funzionò perché qualche minuto dopo una leggere brezza mi stava sfiorando la pelle, il mio cervello cominciò a snebbiarsi con quel lieve contatto, ma quando provai a respirare riuscii solo a vomitare acqua.
Quando finalmente un po’ d’aria tornò a riempire i miei polmoni tentai di aprire gli occhi. Intravidi una figura sfocata che veniva nella mia direzione correndo, un suono raggiunse in quell’istante le mie orecchie.
Bryn, Bryn, Bryn…
Poi tutto divenne nero.
   
 
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