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Autore: BBV    16/06/2012    8 recensioni
Sequel di 'A Year Without Rain'.
2011, Wisconsin.
Victoria Hamilton torna a Longwood,
dopo tre anni d'assenza.
Con sé porta i ricordi di un'estate, di Nathan.
Ma tutto è diverso ormai.
"Un po’ le ricordavano Catherine e Heathcliff. In altre circostanze, fissando nella sua mente quelle due anime instabili, avrebbe trovato una certa soddisfazione nel rivedere il suo amore in quello eterno di due personaggi come i protagonisti di Cime Tempestose.
Ma adesso aveva ben chiaro cos’è che tanto le sembrava semplice accostare alle due figure: l’atroce dolore che erano destinati ad infliggersi l’un l’altro senza pietà. Perché quella passione, quell’amore inquieto e distratto, quell’amore così pieno di sé, invalicabile, era tanto forte quanto distruttivo. Li aveva consumati poco a poco, e ancora in quel momento Victoria poteva sentire il logoramento nel suo petto, che lavorava ancora per finire l’opera d'arte."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie ''The Rain Series''
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Capitolo 10

Più di questo’

 

«Hai mai visto il momento prima che appaiano le stelle? Il cielo è vuoto. L’unica luce è quella mezzaluna che si fa strada in una coperta pronta a colorarsi di blu scuro. E’ quasi più bello della notte stessa».

 

Victoria quella sera guardava le stelle dal finestrino dell’auto di Nathan. Erano sbiadite e spente, non più intriganti ed affascinanti come una volta. Erano solamente stelle, oppure era lei che non riusciva più a guardarle nella maniera giusta.

Magari hai semplicemente bevuto troppo.

Due birre? No, quello che offuscava i pensieri della ragazza Hamilton non era l’alcol, ma le sue patetiche crisi da ragazzina capricciosa mai cresciuta. Se ne era resa conto il momento preciso in cui Nathan aveva sbattuto la portiera dell’auto e aveva dato gas all’auto in un unico gesto rumoroso e arrabbiato e l’aveva ignorata come se fosse poco più che una presenza fastidiosa.

Beh, ignorata per 10 minuti circa.

Ad un tratto, sul bel mezzo della strada deserta che collegava il centro di Lockwood da tutto ciò che lo circondava e che affacciava sulla spiaggia, una brusca frenata interruppe il silenzio. Era stato Nathan, indeciso sul da farsi, che alla fine aveva optato per la reazione meno pericolosa, quella che probabilmente avrebbe provocato meno danni fisici. Batté nervosamente entrambe la mani sul volante, tenendo lo sguardo lontano dalla presenza silenziosa di Victoria, che cominciava a tremare lievemente. 

Fu quando Nathan decise di uscire dalla macchina per respirare che Victoria capì di dover smettere di rimandare le parole e che forse bisognava seguirlo fuori; così fece – più delicatamente di quanto avesse fatto lui con lo sbattere della portiera – e si tenne a distanza fissandogli le spalle.

Lo osservò avidamente: le spalle alte e rigide, segno dell’uomo che ormai era diventato, i muscoli delle gambe tese, e probabilmente, Victoria giurò, se si fosse avvicinata tanto da vedere il suo profilo avrebbe visto la sua mascelle irrigidirsi e gli occhi chiudersi in una smorfia dolorosa.

Ma rimase indietro, perché egoisticamente non era ancora pronta. Vigliacca, provochi la situazione e poi non sei in grado di uscirne dignitosamente. 

Nathan era appoggiato al muretto che divideva la strada dalle scale che portavano alla sabbia della spiaggia.

Il ragazzo decise di prendere la parola, dopo un lungo respiro, proprio quando Vicky fece un passo traballante verso di lui.

«Come hai potuto?», scandì per bene le parole, seppure le avesse pronunciate a bassa voce.

Lei non rispose.

«Nathan».

«Perché sei qui, Vic?», si voltò verso di lei, giusto in tempo per mostrarle il suo disgusto. Visto di lato, il suo volto oscurato dal buio della fresca notte d’estate, aveva un espressione ombrosa, il viso contratto.

Ignorò per un attimo il suo aspetto terrificante per concentrarsi sulla sua domanda. Perché era lì? Se l’era chiesto più di una volta da quando aveva lasciato la confereza e aveva preso la decisione di correre a Longwood.

Era vero che il matrimonio di Shane e Marnie era stato fondamentale per lei, ma non poté negare a se stessa di essere scappata con una tale veemenza in cerca di qualcosa. Stabilità, ricordi, affetti, equilibrio, ispirazione. Nathan.

Com’era stata stupida.

Victoria alzò il viso e incrociò gli occhi di fuoco del ragazzo accanto, che teneva le mani serrate intorno alla pietra del muretto per non esplodere completamente.

«Oh no», scosse la testa nervosamente e con una rapidità disarmante conoscendo già le intenzioni del ragazzo. «Non cercare di usare la tattica dei rimorsi», si rivolse a lui con improvviso impeto.

«Sono qui per mio fratello. Sono qui per le mie ragioni. Non essere il solito spaccone», lo liquidò con un gesto stizzito. Era vero, il modo in cui la guardava la intimoriva, l’aveva sempre fatto in quei momenti in cui credeva di essere giudicata, ma nulla le impediva di indossare il suo scudo e contrattaccare con i suoi colpi, fingendo di essere forte. Le si avvicinò, le mani lungo i fianchi, strette in due pugni come se stesse controllando la rabbia per cercare di non colpirla.

«Sempre la solita, fottuta egoista», sputò le parole senza alzare la voce, ma rinvigorendo il tono con la forza che contro di lei non poteva usare fisicamente.

«Credevo che dopo tre anni fossi cresciuta».

Come una lama affilata, l’offesa la trapassò di colpo insieme all’espressione nei suoi occhi, occhi che non mentivano. Nathan era sempre più vicino a lei, nella solita fredda strada, deserta, il cui solitario silenzio, spingeva le loro urla a ripetersi come un eco incontrollabile. Prima che potesse aprire bocca per difendersi, continuò. «Ti diverti a far del male gli altri, non è vero? E’ una cosa che ti riesce in modo naturale. Non te ne è mai fregato niente di nessuno, Victoria», aggiunse ironico, poco meno arrabbiato.  «Cosa c’entrava quella scenata, stasera? Perché hai dovuto mettere in imbarazzo tua sorella?», prese un respiro affannato tra le parole. «Lucas, Emma. Me», e quando portò entrambe le mani sul viso, quasi sul punto di piangere, quasi sul punto di urlare, comprese un altro po’ di ciò che era destinata a capire a tratti: tutto dipendeva ancora da lui. Victoria era ancora dipendente da quello che avevano fatto, da quello che era. Sarebbe mai stata capace fare a meno della sua pioggia?

La testa le pesava, rotolava giù, nel profondo del nulla che la circondava già da un po’. Le lacrime avevano cominciato a scendere, copiose e calde, sul suo viso stanco, chissà in quale preciso istante. Perché doveva essere così fragile?  

A Victoria sembrava di essere chiusa in una cabina ambulante che portava sempre con sé pur di non lasciar che gli altri la capissero. Quant’era stupida? Quanto ancora ci sarebbe voluto prima che avesse capito, lei per prima, cosa voleva davvero, cosa indicava il suo comportamento. Perché il maggior problema veniva proprio da lei; non si conosceva abbastanza da poter almeno prendere posizione. Maledisse tra sé l’eterna confusione della sua vita, che le ricordava tanto le contraddizioni che si ritrovavano nei sonetti dei poeti dell’epoca elisabettiana dove ciò che era odiato era al tempo stesso amato, ciò che era innocente diventava poi impuro e quello che confondeva non smetteva mai di essere chiaro.

Adesso, però, toccava a lei parlare. Parlare come solo poche volte era riuscita realmente a fare. Parlare al momento giusto, con le parole esatte, quelle che lei sapevano, l’avrebbero salvata o liberata del tutto. Aspettò che lui ritornasse a guardarla per tirare fuori quanto fiato aveva in gola.

«Hai la minima idea di come mi sono sentita quando sei andato via? Mi hai spezzato il cuore, Nathan!», gridò tra le file di lacrime che percorrevano le sue guancie. Entrambi ricordavano benissimo che era stata lei ad andare via, ma ciò che intendeva Victoria andava al di là della sua fuga via da Longwood. Lui aveva lasciato che lei andasse via, giusto? Allora era scappato.

«Niente era capace di farmi sentire di nuovo viva». Urlò ancora con un senso d’angoscia che lasciava comunque spazio ad un pizzico di sarcasmo nella voce. «Ogni posto mi ricordava te, sembrava impossibile scappare. Sai cosa significa? Riuscivo a malapena a rifugiarmi nella mia testa perché era completamente fatta da te!».

Cinque minuti prima era confusa, inquieta poi era esplosa in una furia, come Nathan sapeva sarebbe successo. E Victoria sapeva sarebbe successo nel modo più devastante a lei conosciuto. Come se aspettasse quel momento da tanto tempo, e avesse raccolto a sé tutte le forze solo per avere il coraggio di collezionare il suo dolore e ridarglielo una volta per tutte.

La testa pulsava sempre più forte, non più per l’alcol ormai. La gola bruciava per la parole urlate a gran voce, imprudenti.  

Nathan era seriamente arrabbiato. Per quel poco che Victoria riusciva a scorgere tra la confusione e il mal di testa, i suoi lineamenti erano contratti e gli occhi chiusi in piccole fessure, proprio come quando stava per urlarle qualcosa contro.

«Come puoi avere il coraggio di dire che sono un’egoista?».

«Le persone sbagliano. Io sbaglio. Spesso. Eppure sembra che tu voglia rinfacciarmi altre cose, non puoi darmi tutta colpa per quello che è successo tra noi», il suo tono si addolcì - non voleva certo apparire più calma- ma le sembrava di perdere la voce.

Della stessa idea era Nathan, altrettanto tranquillo – rassegnato, impotente – che aveva chiuso gli occhi e le si era allontanato, infilando le mani in tasca.

«La nostra storia è stata una scommessa, Vicky. Quante probabilità c’erano di vincere?», sussurrò sempre più basso.

«Se entrambi abbiamo scommesso la stessa cosa, la probabilità era unica».

«Contro il mondo?».

«Si, Nathan. Cos’era il mondo in confronto a noi due?». Tremava, spaventata dalle sue stesse parole. Non poteva permettersi di dire proprio tutto, non l’avrebbe retto.

«Io non sono come te, Vic! Non posso urlare quando qualcosa mi va storto!».

«Ma non è quello che faccio!», continuò indispettita.

«Davvero, Vic?», domandò sarcasticamente, evidenziando il punto di domanda. Le sue parole, ancora una volta, la colpirono come uno schiaffo sul viso. Nathan sembrava ancora, senza che lo volesse, l’unica persona in grado di farle usare la testa, di farla riflettere e riportarla lì dove la ragione risiedeva. Tutto ciò che non poteva permettersi in quel momento. D’istinto, la ragazza indietreggiò, già pronta a voltarsi per avanzare il passo – ma la sua presa glielo impedì, quasi che il destino volesse scherzare sui momenti sbagliati delle scelte: non poteva fermarla proprio adesso.

«Non scappare sempre, maledizione!», gridò ancora, la rabbia montò nuovamente su di lui come se avesse finalmente trovato un rifugio sicuro nella frustrazione di Nathan.

«Ti porto a casa», la spinse con forza verso la portiera dell’auto, a pochi metri da loro, unica testimone. Victoria impuntò con prepotenza i piedi a terra, come una bambina capricciosa. «Non vengo da nessuna parte con te».

«Fa quello che vuoi!», sbuffò lui lasciandole bruscamente il polso con uno scossone.

«Non è più un mio problema da tanto».

Non voltandosi indietro nemmeno una volta, non esitando neanche per un secondo, riprese il suo posto in macchina e la lasciò lì, al freddo, da sola, come se volesse infliggergli una punizione fisica, per il gusto di poterne vedere i risultati.

Oh, perché i risultati si sarebbero visti e come. La notte cominciò a farsi gelida, sempre più buia, e la strada desolata prese una forma più spaventosa delle scenografie dei film horror. L’auto calda e accogliente di Nathan era un puntino sempre più indistinguibile e come se potesse mancare, Victoria cominciò a tossire e a sentire la stanchezza prendere il sopravvento sul corpo come un improvvisa doccia fredda.
In un’altra occasione, magari stesa sul suo letto e stretta al cuscino, avrebbe potuto definire quella scena tragicomica. Dopo anni, erano capaci ancora di gettarsi le più tremende offese e sembrare entrambi più forti, entrambi più distrutti. Quasi come una costante gara in cui l’uno voleva dimostrare all’altro di essere sempre più. Chi amava di più, chi urlava di più, chi piangeva di più. In ogni caso era divertente in un modo terrificante. Decise che tanto valeva la pena di cominciare a camminare, più per il desiderio di sentire nuovamente il suo corpo muoversi che per la voglia di tornare a casa. Se e come, ci sarebbe tornata a casa. Si strinse nelle braccia e abbassò il viso per non incontrare il vento di colpo, mentre pensava a quanto coraggio aveva avuto Nathan a lasciarla completamente sola in quel posto. Era disperato, e probabilmente stupido come lo era fino a tre anni prima, poiché certe cose non c’era modo di cambiarle.

I passi pesanti, diventarono quasi insostenibili a metà percorso. Il desiderio di tornare a casa era la sola cosa che dava a Victoria la forza di non crollare sul marciapiede e lasciarsi andare. Ma sembrava impossibile, non sarebbe resistita ancora per molta. Aveva bevuto, urlato, si era agitata, aveva preso freddo. Sintomi innocui che improvvisamente sembravano la futura causa della sua morte. Anche guardarsi intorno appariva come un’ardua fatica ai suoi occhi stanchi e semichiusi.

Ancora un altro sforzo, si disse.  

E seppure sorprese se stessa, finalmente, chissà quanto tempo era passato, raggiunse il vicolo di casa Hamilton, silenzioso e la porta di casa si aprì prima ancora che lei potesse bussare.

«Victoria!». Era Meg, gli occhi spalancati e l’aria mista di sorpresa e spavento.

Victoria fu grata al tempo, di averle concesso di tenere la bocca chiusa proprio in quel momento, per cedere finalmente alla stanchezza.

Era tornata a casa.

 

-------------

 

«E’ assurdo».

«Ho…sua auto…te l’ho detto».

«Spero che si risvegli presto, solo per il gusto di farla svenire di nuovo», una voce più chiara e vicina risvegliò le orecchie di Victoria. Il sole cadeva delicato sul vetro spogliandolo della sua finta trasperenza, trapassandolo per diffondersi nella piccola stanza dove si nascondeva la Bella Addormentata, spaventata dalle conseguenze che la sua ribellione a mò di Sirenetta aveva provocato, ancor meno pronta a sentirsi una Bestia che una Bella.

Infondo, era inevitabile per Victoria Hamilton: sarebbe stata sempre una Peter Pan un po’ più grande

Inconsciamente, stiracchiando i muscoli stanchi, la ragazza accennò un debole sorriso mattutino. Era ancora assonnata quando il sorriso le cadde dalle labbra ricordandole la notte precedente, con dei brevi brividi intensi sul braccio scoperto. Era nel suo letto, non più con i vestiti aderenti che ricordava di aver indossato poco prima di svenire, ma aveva il suo morbido pigiama estivo, che la invitava a tornare nell’unico mondo dove i problemi si sconfiggevano come un ‘click’ del mouse, bastava cambiare direzione. Il mondo dei sogni, anzi, più del sonno probabilmente. Le voci sempre più agguerrite e insistenti la costrinsero a ritornare alla realtà; prima che potesse fingere di dormire –chiudendo gli occhi – Meg entrò di scatto, rumorosamente, seguita da un ombra, che schiarita divenne Emma.

L’improvvisa vergogna che Victoria provò nel rivedere sua sorella, le dimostrò che aveva molti più scheletri con cui fare i conti, il che non aiutava affatto i dolori fisici che il sonno aveva attenuato.

La gola bruciava ancora, fastidiosa; la testa premeva forte come un quintale appoggiato sulla fronte di Victoria. 

«Tu, stupida, terribile, incosciente ragazzina!», gridò Meg senza prendere respiro. Il dito puntato contro di lei – che nel frattempo si era messa a sedere per affrontare la sfuriata – accentuava ancor di più l’espressione corrugata sul viso della sua agente. 

«Credevo di lavorare per una ragazza con la testa sulle spalle! Non la solita ragazzina capricciosa», continuò cercando di controllarsi.

Emma rimaneva appena vicino alla porta della stanza, in silenzio, mentre nel letto, Vicky sentì la testa invocare aiuto.

“Ti prego, Meg. Fammi parlare”. Le sembrò di pronunciare, o meglio, fu proprio quello che le sue labbra mimarono senza che un filo di voce uscisse dalle sue labbra.

Victoria cambiò l’espressione sul suo viso. Sbiancò in pochi secondi e cominciò a balbettare qualche parola incompresa. Balbettava senza rumore. Poi gridò, e gridò senza rumore.

La stessa espressione allarmata sopraggiunse sul volto della donna davanti a lei, a cui bastarono pochi secondi di lucidità per comprendere a pieno cosa stesse succedendo.

Emma avanzò di qualche passo, senza più curarsi del controllo e della freddezza che aveva richiesto a sé stessa. E Victoria, lei portò entrambe le mani alla gola, quasi volesse strozzarsi, ma senza violenza, giusto per controllare di avere ancora un collo su cui poggiare quella testa pesante. Aprì ancora la bocca, scalciò i piedi sul letto sperando di essere lei a non sentire nulla.

All’ennesimo grido, una lacrima le scese lungo una guancia, calda e traditrice. Entrambe le donne presenti nella stanza, lì di fianco a lei, lasciarono andare via per un momento tutti i terribili pensieri che avrebbero voluto donare a Victoria, per pietrificarsi come statue vuote.

«Non ci posso credere».

«Ha perso la voce», continuò Emma, con occhi e bocca spalancati dalla sorpresa. 

La verità che conosceva ma che avrebbe preferito non ammettere, le venne sbattuta in faccia nel giro di un mini secondo. L’unica cosa a cui si era aggrappata da una vita ormai, se ne era andata. Momentaneamente, forse. Ma comunque era andata via.

Tutto quello che accadde dopo, in velocità multipla, fu inutile, ridicolo, avanzi della sua memoria.

Gli abitanti della casa, cominciando da sua madre e suo fratello, la circondarono a poco a poco come lo si fa con un quadro al museo. O con un malato terminale che ha perso le speranze.

L’ansia, la preoccupazione, le voci impazzite sembravano freccie che la colpivano veloci e violente, nessuno era davvero in grado di arrivare al punto del suo problema.

«Come diavolo fa a finire l’album? Eravamo arrivati a buon punto!».

«Dovremmo chiamare un dottore».

«Si può sapere cos’è successo ieri?».

L’ultimo a parlare, era stato Shane, rivoltosi a Emma che scosse la testa e alzò le spalle, rifiutandosi di rispondere. L’aria era sempre di meno, troppe persone affollavano la sua piccola stanza, e nessuna di loro sembrava accorgersi della sua presenza.

Se fossi più rumorosa, riuscireste a vedermi? La voce contava così tanto nella vita delle persone, nella sua più di tutte. Quando nessuno è capace di capirti, di vederti o sentirti, è mai possibile che tu esista davvero? Improvvisamente, Victoria cominciò a dubitarne, cadendo nel baratro dei suoi pensieri oscuro e dubbiosi, angosciati da quella costante sensazione di vuoto.

Fuori dalla finestra il vento sembrava leggero e rilassante, Victoria provò ad immaginarlo sulla sua pelle, mai fastidioso. Nel frattempo si domandò mentalmente come si potesse passare il tempo senza una voce, senza il metodo più semplice per communicare. Aspetta, pensò immediatamente. Più semplice? Le parole sono difficili da dire! Aggiunse bruscamente una voce nella sua testa.

 

«Parole, parole! Il tuo è solo un fottuto fiume di parole».

Sputò con veleno la bocca di Nathan. Tremava di rabbia, gli occhi erano un unico impressionante fuoco ardente, era la sua furia ad animarlo. L’esaurimento era ciò che invece prendeva il sopravvento su Victoria, tremante a causa del freddo che infestava quel dicembre così malinconico.

«Le mie sono solo parole? Le avessi ascoltate per un secondo! Sei così cieco, così pieno di te che l’unica cosa che ti sembra giusta è quella di farmi rinunciare al mio futuro».

Nathan avanzò così deciso che la ragazza di fronte a lui si ritrovò ad indietreggiare spaventata. Non avrebbe mai creduto di dover essere spaventata di Nathan, ma quella sera così estranea dalle altre, era stata capace di farle ricredere molte cose.

«Anch’io ho una lista infinita di cose di cui tu sei responsabile, che non mi lasciano più respirare!».

«Non ce la faccio più, Nathan», distrattamente Victoria lasciò che le lacrime cadessero giù, attraverso le sue guancie, imperterrite.

Quello sguardo spento, cupo, sembrò ridestare per pochi secondi l’atteggiamento prepotente e spaventoso che aveva assunto il ragazzo, quasi come se al minimo accenno di un dolore visibile, Nathan non fosse capace di portarle più alcun rancore.

«Ci ho provato, Vic. Sto cercando una via d’uscita ma…».

«Ma non esiste. Siamo sbagliati, tutto questo è sbagliato. La nostra stupida speranza di poter provare ad essere felici insieme ci si è ritorta contro. Ed io stupida che ci credevo».

Un lampo squarciò la coperta blu punteggiata di stelle. Il temporale era lì, con loro, a condividere quell’ultimo respiro che sembrava volerli ancora insieme.

Victoria vide con la coda dell’occhio – offuscato dalle dolci lacrime – Nathan portarsi una mano sugli occhi e sospirare stanco.

Non era così che aveva immaginato di vederlo un giorno. Una di cosa di cui poteva vantarsi, era che il suo desiderio di Nathan, il suo amore era talmente forte da scavalcare quell’egoismo di cui lui l’accusava.

E faceva più male non essere egoisti, a volte.

«Io», ricaccio indietro un singhiozzo. Era così difficile dirlo. «Credo di dover fare ciò che è meglio per me, prima di tutto…», mormorò. Aveva sperato di sembrare più decisa e ferma, ma non era affatto quello che era sembrata a Nathan. Lui alzò lo sguardo e aspettò di incontrare i suoi occhi, e vide dinnanzi a sé la giovane donna che amava. E sapeva. Sapeva perfettamente cosa stava per dirgli.

«Devo andare via Nathan, mi devo allontanare da te», il ragazzo scosse la testa, quando capì cosa gli stesse scivolando via dalle mani.

 

Un po’ le ricordavano Catherine e Heathcliff. In altre circostanze, fissando nella sua mente quelle due anime instabili, avrebbe trovato una certa soddisfazione nel rivedere il suo amore in quello eterno di due personaggi come i protagonisti di Cime Tempestose. Ma adesso aveva ben chiaro cos’è che tanto le sembrava semplice accostare alle due figure: l’atroce dolore che erano destinati ad infliggersi l’un l’altro senza pietà. Perché quella passione, quell’amore inquieto e distratto, quell’amore così pieno di sé, invalicabile, era tanto forte quanto distruttivo. Li aveva consumati poco a poco, e ancora in quel momento Victoria poteva sentire il logoramento nel suo petto, che lavorava ancora per finire l’opera d'arte.

Era tutto tremendamente calmo. Le luci abbastanza soffuse da nascondere dettagli che avrebbero potuto distrarlo dai pensieri. E fissava il soffitto, mentre il silenzio di quella notte accompagnava le urla dei suoi pensieri.

 

-------------

 

«Posso accompagnarti io», si offrì sua madre quando il giorno seguente, ancora senza voce, Victoria ebbe la brillante idea di vestirsi, afferrare le chiavi della sua auto e mettersi al volante. Nessuno le aveva fatto domande, né proferito parola con lei o su di lei, ma la ragazza sperava che dipendesse soprattutto dal fatto che quella domenica suo fratello si sarebbe sposato.

Scosse la testa e abbassò lo sguardo, cercando un punto fisso che distraesse i suoi occhi dal fissare quelli tormentati di sua madre. Chissà cosa starà pensando di me.

Sfrecciò via qualche istante dopo, con in mente già un posto che l’avrebbe fatta sentire meglio, magari un posto dove scrivere per poi rassicurare Meg del suo futuro. Dopotutto, aveva così tante cose da scrivere.

Quando varcò la soglia di quella piccola casa sul mare che aveva accolto tante volte lei e lui, quando la pioggia era troppo anche per loro, non avrebbe mai e poi mai immaginato di ricevere un colpo tanto gelido e immediato. Per anni aveva pensato che quello fosse l’unico posto rimasto immacolato e puro, dopo tutto quello che era successo la cui purezza era stata spazzata via.

Ma Victoria dovette ricredersi con stupore.

Afferrò il mazzo di chiavi nascosto sotto un cumolo di sabbia dorata e aprì la porta.

All’apparenza poteva apparire identica, ma nel suo vecchio ricordo di quella casa non c’erano cassetti pieni e un letto disfatto, non c’era cibo, né un frigorifero. Nulla che potesse dare l’idea che qualcuno vivesse in quel posto.

«Che diavolo ci fai tu qui?». Il bel viso esotico di Carmen la fronteggiò con una smorfia sconvolta sul viso.

«Questa era la mia domanda», avrebbe voluto ribattere acida ma scossa. Ma la sua voce era ancora via. 

«Ascolta, va via da qui Victoria», le disse ferma. «Questa è casa mia e non voglio neanche sapere come tu ci sia entrata».

Quello schiaffo la catapultò direttamente fuori da quella casa, per la brevità di quel suo viaggio pensò di averci messo non più di dieci minuti. Com’era possibile che tutto le accadesse così velocemente?

Ma il suo corpo era ancora lì, di fronte ad una Carmen accigliata e confusa, come se il caso beffardo volesse farle capire che era lei quella che non aveva idea di cosa stesse succedendo. Gettò un’occhiata veloce alla stanza. Effettivamente non aveva più l’aspetto di una casetta vuota e intrisa di visite passeggere, al contrario appariva più ordinata e composta: le pareti assorbivano l’aria di una casa vissuta. Non più quella che lei conosceva.

Si limitò a scuotere velocemente la testa con gli occhi spalancati, neanche Carmen si sentì in grado di risponderle per le rime, magari con una punta acida che l’avrebbe fatta scappare.

Eppure il viso di Victoria era pallido e stanco, sembrava portare su di sé più dolore di quanto una ragazza dal suo bel viso potesse sopportare. Ignorò i suoi pensieri e si concentrò sull’esatte parole che aveva deciso di pronunciare.

«E’ di Nathan», disse il più dolcemente possibile. Ritornò poi sui suoi pensieri. «Hai perso la voce?».

Victoria annuì, improvvisamente svegliatasi dalle confuse nebbie che alleggiavano per la sua testa. Indietreggiò ignorando completamente quella strana situazione che si era venuta a creare con Carmen e alzò le spalle mentre quell’espressione ferita abbandonava il suo viso bianco.

Poi con un tonfo deciso si chiuse la porta alle spalle, lasciando una sconvolta Carmen a chiedersi se quel momento era stata un illusione della sua sporca coscienza.

La ragazza senza voce tornò immediatamente alla guida, stranamente convinta di sapere già quale fosse il posto in cui si stesse dirigendo, e questa volta poco importava se il posto fosse cambiato o fosse rimasto identico.

Probabilmente il suono della sua voce non era più lì, ma la sua testa, quella sensazione che arrivava quando aveva voglia di scrivere una canzone non andava mai via. Con l’unico scopo di voler aggredire fisicamente – con quanta forza aveva in corpo – Nathan Carver, Victoria tenne appunto le frasi che sfuggivano con violenza da lei.

Quando cerchi di parlare ma non emetti suono, le parole che vuoi sono alla portata di tutti ma non sono mai state così forti

Dopo tutto, Meg si era sbagliata. Il suo nuovo album sarebbe stato terminato in tempo. A discapito del suo cuore. 


Fine Decimo Capitolo.



Il tempo scorre, ma non mi dimentico di questa storia. Spero non l'abbiate fatto neanche voi!
Per me è molto importante, questa parte della storia e questo capitolo in particolare: perché è qui che vorrei voi vedeste la fragilità di Vicky, un pò della sua 'instabilità' che l'ha resa sempre diversa.
Ci tengo molto e spero di ricevere tutti i vostri pensieri, commenti e recensioni. Tanto non fa male a nessuno giusto?

  
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