ATTENZIONE: la storia contiene scene di violenza esplicita. Le informazioni utilizzate per scriverla sono reali.
Dopo aver stabilito con il mio ragazzo che da “Soldi facili” sarà tratto un cortometraggio *evvaaiiii*... vi lascio al secondo racconto!
La canzone è “Death to my Hometown” e consiglio vivamente di ascoltarla (semplicemente perché è una delle mie preferite dell’album). Scrivere questo racconto è stato devastante. Tremo al solo pensiero che delitti come questi siano avvenuti veramente.
Spero che anche voi tremiate un po’, perché vorrà dire che ho fatto bene il mio lavoro.
Buona lettura!
Elisa
Morte
alla mia città
Oh, no cannonballs did fly, no rifles cut us down
No bombs fell from the sky, no blood soaked the ground
No powder flash blinded the eye, no deathly thunder
sound
But just as sure as the hand of god
They brought death to my hometown
Non era una guerra come quelle che si studiavano a scuola.
Ecco il pensiero che tormentava Sherrylynn dalla sera prima.
Da quando era successo.
Non c’erano state bombe, cannoni né fucili.
Nemmeno un morto era caduto sulla strada, anche se la maestra a
scuola diceva sempre che, durante le guerre, di morti erano piene le strade.
Lei non lo aveva mai visto, un morto.
Solo il gattino della donna bianca per cui lavorava la sua
mamma, ma un gattino non vale come un morto vero, di questo era sicuro.
In ogni caso, gatti a parte, suo fratello DeShaun
continuava a sostenere che quella era una guerra eccome.
Una guerra tra persone con la pelle bianca e persone con la
pelle nera.
Quindi, i bianchi erano i cattivi.
Tutti i bianchi, anche la sua amica Sharon, con cui aveva
giocato fino a due giorni prima.
Anche se Sharon non aveva nessuna colpa se gli uomini vestiti di
bianco avevano bruciato il negozio del signor Washington.
DeShaun diceva di sì, invece, ma lei non ci credeva: li aveva visti,
gli uomini vestiti di bianco, ed erano tutti più alti di Sharon.
Il signor Washington era morto.
Sherrlylynn aveva sentito la mamma dire che era bruciato anche lui, insieme
ai vestiti che vendeva.
A lei avevano detto che era scappato.
Solo che era strano, perché il signor Washington non sembrava un
morto da guerra.
Sherrylynn si lasciò cadere sul letto che divideva con DeShaun da quando era nata.
Nessuna esplosione, niente polvere da sparo.
Sherrylynn si addormentò pensando che forse DeShaun
esagerava.
Che forse la guerra non c’era.
Lo scheletro di DeShaun Coltrane
luccicava sotto alla luna della città di Ocla.
Al suo collo, macabra collana, era appeso un cartello bianco
come la neve.
Bianco come i cappucci dei suoi assassini.
Solo la morte fa
strada alla giustizia e alla libertà.
I cappucci bianchi si allontanarono in silenzio, ben certi della
sacralità dell’atto compiuto.
Avevano cotto il bastardo negro.
Lo avevano fatto bollire e poi avevano staccato la carne dalle
sue ossa.
Come un animale.*
Quando Sherrylynn Coltrane scese in cortile, la mattina dopo, la
prima cosa che vide furono le ossa di suo fratello.
Ora c’era davvero un morto sulla strada.
Ora la guerra era arrivata.
No shells ripped the evening sky, no cities burning
down
No armies stormed the shores for which we’d die
No dictators were crowned
I awoke from a quiet night, I never heard a sound
Marauders rided in the dark
And brought death to my hometown, boys
Death to my hometown
Jonah Robinson naturalmente sapeva cosa fosse il Ku
Klux Klan.
Qualsiasi idiota a Jackson sapeva a memoria tutti i delitti che
erano stati perpetrati alla sua gente da quei pazzi assassini.
Negli anni cinquanta.
Jonah Robinson si svegliò nella sua casa di Jackson il tredici di
ottobre duemiladieci, destato dalle grida strazianti di un neonato.
Non erano gli anni cinquanta.
Una croce, però, bruciava nel suo giardino.
Una croce infuocata ai cui piedi ardeva un fagotto di stoffa.
Con orrore si rese conto che il pianto disperato non proveniva
dalla stanza di suo figlio, ma dal fagotto in fiamme.
Jonah Robinson rischiò di spezzarsi l’osso del collo, correndo giù
per le scale.
Il Ku Klux Klan era un fenomeno che era andato scemando dagli anni
sessanta in avanti.
Lo sapeva bene, Jonah Robinson: era l’argomento
del saggio che aveva appena pubblicato.
Nel Duemila il Klan esisteva ancora,
ma era una minoranza.
Non avevano più il coraggio di andarsene in giro a bruciare
chiese e negozi o ad ammazzare gente per le strade.
Niente più rappresaglie, niente armi.
Soprattutto, non avevano più la maggioranza dalla loro parte.
Non dettavano più legge e le loro azioni non facevano più
rumore.
Ma Jonah Robinson si era svegliato
alla quattro del tredici di ottobre duemiladieci, dopo una notte silenziosa.
Aveva sognato un gatto, quella notte.
Se lo ricordava perché da mesi sua moglie lo supplicava di
comprarle un gatto.
Sarebbe andato finalmente a prenderlo quel pomeriggio stesso.
Per questo lo aveva sognato.
Era stata una bella notte, la notte in cui avevano bruciato suo
figlio.
Quando Darleen Robinson arrivò in
cortile, il fagotto aveva smesso di piangere.
Suo marito era inginocchiato sul prato bruciacchiato.
Il fuoco del fagotto, morente, aveva fatto in tempo a lambire anche
le sue mani, ustionandole.
Jonah non piangeva.
Erano venuti di notte e avevano portato di nuovo la morte a
Jackson.
Erano venuti di notte e avevano bruciato loro figlio a causa di
un libro.
Jonah Robinson non piangeva perché i suoi occhi vuoti erano puntati
sulla siepe della sua bella casa.
Vi campeggiava un grosso striscione candido, con sole sei parole
vergate in rosso.
Morte alla
progenie del cane nero.
Non appena il suo cervello ebbe compreso il significato di
quella scritta, Darleen Robinson corse di nuovo in
casa, il cuore che le batteva in gola.
Mentre Jonah Robinson pensava che il
rosso di quello striscione sembrava sangue, con il cadavere incenerito di suo
figlio minore fra le braccia, Darleen aprì la porta
della cameretta della maggiore.
Marilou Robinson aveva sei anni.
Marilou Robinson aveva dormito nel suo lettino quella notte.
Era stata una bambina coraggiosa, perché i mostri non le
facevano più paura.
Era stata una notte silenziosa.
They destroyed our families’
factories
And they took our homes
They left our bodies on the plain
The vultures picked our bones
La fabbrica bruciava.
Tallulah piangeva.
Minnie la strattonò.
I suoi occhi erano preoccupati.
Minnie non lo sapeva.
Minnie non aveva idea che la sua vita, la vita che aveva sempre
conosciuto, stesse bruciando insieme alla fabbrica.
Tutto ciò che Tallulah Charles era
sempre stata era contenuto in quella fabbrica.
I soldi della sua famiglia.
I soldi con cui avrebbero dovuto mandarla al college.
La sua famiglia stessa.
Quando era esploso il corpo centrale, Tallulah
aveva rinunciato a vedere uscire vivi i suoi genitori da quell’inferno.
Minnie, però, non ne aveva idea.
Minnie non sapeva che i suoi genitori erano i Charles della
fabbrica di gomma, una delle pochissime famiglie di colore benestanti di
Jackson.
Minnie faceva la prostituta e giurava che ai bianchi non
interessava niente del colore della sua pelle quando si infilavano dentro di
lei, viscidi e freddi.
Minnie aveva sedici anni.
Come lei.
Minnie forse non lo sapeva, ma non era nemmeno stupida.
Con delicatezza, le passò un braccio intorno alle spalle e le
disse che ci avrebbe pensato lei, che non si doveva preoccupare.
Quella sera, sarebbero andate al lavoro insieme.
Davanti alla fabbrica di gomma Charles, tre croci ardevano.
Kennedy, alla radio, incitava alla pace.
Sul sedile della grossa Cadillac dove Tallulah
Charles perse la verginità tra le braccia mollicce del rettore dell’università
per i bianchi, la ragazza ebbe una visione di se stessa e Minnie.
Erano due carcasse.
Due corpi morti nella savana di Jackson che aspettavano solo di
essere portati via dai grassi avvoltoi bianchi.
So listen up, my sonny boy, be ready for when they
come
For they’ll be returning sure as the risin’sun
Now get yourself a song to sing and sing it ‘til you’re
done
Yeah, sing it hard and sing it well
Send the robber barons straight to hell
The greedy thieves who came around
And ate the flesh of everything they found
Whose crimes have gone unpunished now
Who walk the streets as free men now
Ah, they brought death to our hometown, boys
Gli occhi del nonno erano strani.
Se Anton non fosse stato più che certo che il nonno non era
capace di provare sentimenti cattivi, avrebbe giurato che quella luce sinistra
fosse odio.
Il Museo della Segregazione di Jackson ** sembrava una galleria
degli orrori.
Mamma e papà non avrebbero voluto che lui ci andasse, ma il
nonno aveva insistito che a dieci anni era grande abbastanza per sapere la
verità.
La verità sugli incappucciati bianchi che avevano portato la
morte nella sua città natale.
I capelli bianchi del nonno sembravano brillare sulla sua testa
nera.
Quando si fermarono, la foto davanti a loro mostrava un uomo in
ginocchio su un prato davanti ad una croce in fiamme. Tra le sue braccia
riposava un corpicino nero, incenerito.
Era datata duemiladieci.
Solo due anni prima.
“Lo conosco quel ragazzo.” Mormorò il nonno, più leggero di un
alito di vento. La sua voce tremava di rabbia. “Non si è mai più ripreso. Loro
tornano, tornano sempre e torneranno ancora.”
La mano del nonno si strinse forte intorno alla sua.
Anton ebbe paura.
“Ci hanno portato via le case, i negozi, la libertà. Ci hanno
portato via la vita e la dignità. Riesci a immaginare, Anton, di vivere ogni
giorno con la paura di essere ammazzato solo perché hai la pelle nera?”
Anton scosse la testa, gli occhi sbarrati.
La foto sotto a quella dell’amico di suo nonno mostrava una
bambina rannicchiata nel suo lettino.
Gli occhi sostituiti da due buchi neri.
La didascalia diceva Marilou
Robinson, sei anni.
“Sua madre l’ha trovata così. Ha pensato che dormisse, all’inizio.
Povera Darleen... si è suicidata un anno dopo.”
Anton non poteva credere che fosse successo solo due anni prima.
“Lo vedi, Anton? Non possiamo mai smettere di difenderci, mai
abbassare la guardia, anche se il Klan ora non regna
più. Ci sarà sempre un razzista pronto a cavare gli occhi a tua figlia, per
quanto folle possa sembrare. Stai pronto, Anton, canta ogni giorno senza paura
l’orgoglio di essere nato con la pelle del colore sbagliato e allora sarai
pronto ad accoglierli, se verranno. Ci hanno tolto tutto e camminano come
uomini liberi. Hanno portato la morte alla nostra città e non conosciamo
nemmeno i loro nomi. Non lasciare mai che rubino anche la tua vita.”
Anton Jackson di Jackson, Mississippi, porterà per sempre nel
cuore le parole del nonno.
La sua canzone, la canzone che racconta la fierezza e la forza
della sua etnia, è la stessa musica che accompagnò e continua ad accompagnare
la vita e la morte di tutte le anime che la follia del Ku
Klux Klan ha sfiorato.
Nelle sue note brillano gli occhi di DeShaun
e Sherrylynn Coltrane, quelli della piccola Marilou Robinson e del suo
fratellino dato alle fiamme, quelli di Minnie e Tallulah
e dei loro sogni bruciati.
In quelle note risplende l’orgoglio del popolo afroamericano,
che ora più che mai è libero di essere considerato semplicemente statunitense.
E che forse non verrà mai visto davvero come tale.
*La più irrequieta fu la contea di Jackson, dove i crimini assumevano
pure teatrali rappresentazioni. Infatti si racconta che nella città di Ocla, per vendicare la morte di un uomo bianco, tutti i
presunti colpevoli (ovviamente di colore) furono impiccati dal Klan, mentre uno di loro fu fatto bollire in un pentolone e
poi spolpato lo scheletro fu esposto in pubblico con un cartello con su
scritto: "Solo la morte fa strada alla giustizia e alla libertà". (www.parodos.it)
**luogo di mia invenzione