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Autore: MeliaMalia    05/01/2007    4 recensioni
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi saccenti, piegando le labbra in una linea ironica che invitava a prendermi a schiaffi dal mattino alla sera. Dovreste vedermi, quando sorrido così. Vi giuro che, tutte le volte che lo faccio allo specchio, ho una faccia tosta tale che mi verrebbe da prendermi a pugni da solo.
E’ un sorriso adorabile, insomma.
Perciò lo misi sfacciatamente in mostra. Quindi, con voce risoluta, con fare da gran duro, dissi: “E’ ora, signorina, che tu possa tornare ad essere ciò che sei. Ovverosia, un cadavere.”
Sono un tipo dalle frasi d’effetto, io.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Aster!» un richiamo allegro, spensierato. Volsi distrattamente il capo, cercando con lo sguardo mia sorella.
Il nostro piccolo falò, acceso per riscaldare quel momento di sosta di cui solo io realmente necessitavo, brillava orgogliosamente nelle tenebre della notte, come se non fosse stato consapevole di essere solo un sciocco ammasso di fiamme che un semplice vento avrebbe potuto spegnere fin troppo facilmente.
«Aster, guarda!» ripeté Aria, tornando al piccolo trotto verso di me. Era sempre stata una ragazzina goffa, sin da piccola; teneramente imbranata, capace di inciampare persino nei suoi piedi.
Eppure, da qualche mese a quella parte, a causa dei poteri di quel maledetto demone instauratosi in lei, anche la sua andatura aveva subito una piccola mutazione, divenendo più sicura e stabile che mai. Quando avanzava con fare distratto, sembrava davvero una regina.
Avevo una paura dannata di quel cambiamento nel suo modo di camminare. Non chiedetemi perché.
So che la cosa può sembrare pazzesca, ma ero più tranquillo quando la vedevo trottare verso di me come stava facendo ora; e quando la vedevo inciampare, magari. Allora piagnucolava, tornava ad essere solo la mia piccola bambolina, ed il mondo, anche se solo per un attimo, mi appariva chiaro e limpido come se fossimo stati alla luce del sole.
«Un coniglio!» ululò trionfale, piazzandomi sotto al naso un morbido cuccioletto peloso; di colore marrone, aveva due enormi occhi castani spalancati all’inverosimile, segno che la bestiola si stava facendo il peggiore bagno di paura della sua giovane esistenza. «L’ho trovato là, nell’erba!»
Presi tra le mani il piccolo. Tremava impercettibilmente, movimento che si estendeva anche ai lunghi baffi di colore neutro che spuntavano ai lati del muso. Orecchie appiattite contro il corpo, mi guardò come a dire: va bene, sono stato preso; mangiami senza farmi soffrire troppo, sì?
Da quella notte maledetta, avevo sgozzato decine di conigli come lui. Avevo fatto loro dono di una morte orrenda, raccogliendo in una borraccia il sangue indispensabile al sostentamento della mia sorellina.
Forse questo cucciolo di coniglio lo sapeva. Ecco perché mi guardava così.
O forse stavo impazzendo per davvero.
«Aria» balbettai, perplesso. «E’ un cucciolo. Perché lo hai raccolto?»
«Perché era solo.» replicò con tutta la naturalezza del mondo lei. L’animaletto si mosse appena tra le mie dita, forse chiedendosi quale tortura avessimo in mente per lui prima del massacro.
Povera, sciocca bestiola. Non gli avrei mai fatto nulla, davanti a lei.
Sarebbe svenuta, alla vista del sangue.
«Adesso la sua mamma sentirà il nostro odore addosso a lui. E non lo vorrà più.» sospirai, restituendole l’animaletto. Aria lo osservò confusa, spalancando i già grandi ed espressivi occhi verdi.
«E perché?» volle sapere, con fare totalmente infantile. Dio, come poteva esistere un vampiro, dietro quell’espressione dolce ed ingenua?
«E’ una cosa che fanno i conigli» feci spallucce. Faccio sempre spallucce, quando non so con esattezza cosa rispondere ad una domanda. E’ una cosa che ti fa fico e che, nel contempo, ti evita un’imbarazzante sentenza. Provateci anche voi, funziona! «Magari la mamma non vuole avere a che fare con qualcosa che puzza di umano. Dev’essere un odore che disturba i conigli, forse. Come agli umani non piace il tanfo di morto.» mi morsi immediatamente la lingua, dandomi mentalmente dell’idiota. Aria era morta, accidenti a me.
Completamente all’oscuro dei sensi di colpa che quella frase aveva sollevato in me, lei fissò ancora l’animaletto, mentre una strana tristezza le si dipingeva sul viso. «Non lo sapevo.» mormorò. «L’ho visto solo, e credevo di fare una cosa giusta…» se lo portò all’altezza del volto, ed il roditore esibì la stessa espressione tranquilla di un essere umano catturato da un gigante sadico. «Morirà?» azzardò, rivolgendosi poi a me.
Che voleva che ne sapessi, io? Era mamma, quella che sapeva tante cose sugli animali. Era stata proprio lei, qualche anno prima, a raccontarmi quella storia della femmina di coniglio che abbandona i cuccioli toccati dagli esseri umani.
Ma non era vissuta abbastanza per raccontarla ad Aria.
«Prova a tenerlo tu» proposi di slancio, forse perché non avevo altre risposte. «Se lo nutri, forse non sentirà la mancanza della madre. E vivrà.»
Ah, che parole sagge. A volte la mia saggezza mi stupisce. Sul serio.
Aria fece una cosa che mi sorprese. Dovrebbe essere una cosa normale, per lei, dato che è una fanciulla dolce e premurosa. Ma mi stupì ugualmente.
Si portò al petto il cucciolo, carezzandolo con affetto, le bianche e gelide dita che passarono gentilmente sulla morbida pelliccia della bestiola, certamente non tranquillizzandola. «Anche io non ho più la mia mamma» bisbigliò. «Ma ho Aster. E adesso anche tu hai Aster, oltre che me. Quindi sei in buone mani.»
L’animale non parve molto d’accordo. Ma decise di tenere per sé le proprie idee, rimanendo in silenzio.
Quanto a me, credo di aver seriamente rischiato di scoppiare a piangere. Quanta stramaledetta innocenza, in quella creatura che spesso e volentieri era da me costretta a bere il sangue degli stessi fratelli di quel coniglio.
La mia nuova vita era un tale insieme di paradossi, da spingermi con inaudita prepotenza verso il baratro della follia.
Prima o poi, sarei caduto.
Lei raccolse dei fili d’erba, che mise sotto il naso del cucciolo. Rise piano, quando lui, dopo averli esaminati con la cura di un chimico, si decise ad addentarli, masticandoli in un adorabile frullio di naso e guance. Se c’è una cosa ridicola, a questo mondo, è il modo di mangiare dei conigli.
Fu durante quell’idilliaca scena, che subimmo il primo attacco della nostra vita da parte di un licantropo.

***

Balzò fuori dalla foresta attorno a noi, in un modo talmente improvviso da farmi supporre per circa mezzo secondo che si fosse materializzato per magia.
Ma i Licantropi non hanno magia. Sono solo delle grosse e violente bestie, che possiedono principalmente tre argomenti di conversazione: massa, artigli e zanne.
Non è bello, dialogare con un licantropo.
Sempre che non abbiate deciso da tempo un infelice divorzio dalle vostre frattaglie.
Vi sconsiglio, inoltre, di invitare un licantropo per cena. Sarebbe incapace di compiere reali distinzioni tra il maialino arrosto posto sul tavolo ed i commensali accanto a lui.
Spero di aver reso abbastanza chiaramente l’idea della creatura che ci ritrovammo davanti. Enorme, possente, dagli artigli colanti bava, ansimò eccitato, spiandoci con gli acquosi occhiacci neri. Aria, con uno strillo, quasi cadde all’indietro, lasciandosi sfuggire il coniglietto. Il quale, decidendo di averne abbastanza della situazione, prese a correre come un forsennato tra l’erba, sparendo alla nostra vista.
L’animale ruggì furioso, preparandosi alla carica. Aveva trovato due succulenti bocconcini, ed il suo elementare cervello non aveva tardato ad elaborare una geniale tattica: dilania; uccidi!
«Aster!» chiamò mia sorella, correndo a rifugiarsi dietro di me. Mossa inutile, mio piccolo fiorellino. Per ammazzare i licantropi sono necessarie pallottole d’argento. Ed io non disponevo nemmeno di una pistola. Che razza di idiota…
Il licantropo ebbe un guizzo, distraendosi da noi. Fissò il coniglietto, quello che noi avevamo verso di vista. E calò sul terreno a fauci spalancate, divorandolo in un solo boccone.
«Aria» mormorai. «Ascoltami. Adesso devi scappare.»
«No!»
Risposta prevedibile.
«Non ho armi con cui affrontarlo. Ma posso distrarlo, mentre tu scappi.» Oh, sì. Lo avrei distratto facendomi divorare. Che splendida, gloriosa fine. Degna di un individuo come me, presumo. «Aria, non ha senso farsi ammazzare in due…»
Il licantropo rialzò il muso dal terreno, deglutendo con piacere il cucciolo di mia sorella. Maledissi il nostro Dio, in quel momento. Perché se lo meritava, mica per altro.
«Allora vai tu!» replicò con slancio lei. «Io sono malata. Sono io, che devo morire!»
«Non dire mai più una sciocchezza simile!» strillai scandalizzato.
Ops. Forse non avrei dovuto urlare.
Il cucciolone di quasi due metri rivolse nuovamente a noi la sua bieca attenzione. «Aria…» implorai ancora una volta.
E poi quello partì alla carica.
Mi volsi di scatto, afferrando mia sorella e trascinandola verso sinistra, in un salto decisamente sgraziato. Atterrammo come due sacchi di patate sul prato, evitando per un soffio l’attacco dell’animale.
O almeno, così credevo.
Un bruciore intenso al braccio mi consigliò di dare un’occhiata alle mie condizioni. Mi toccai, e quando ritrassi le dita, le trovai piene di sangue. Quel bastardo mi aveva ferito di striscio con una zampata, mentre io lo evitavo.
Lui ruggì, preparandosi ad un nuovo assalto.
Che bocconcini divertenti, dovevamo essere! Una bella distrazione prima di cena.
Aria fissava come ipnotizzata la ferita sul mio braccio. Tremando da capo a piedi, non si lasciava sfuggire un solo orrido particolare di quello squarcio, apparentemente insensibile a quel sangue che, di norma, l’avrebbe dovuta far svenire.
«Aria?» balbettai sbalordito, fissando con incredulità le sue iridi. Non più color smeraldo, ma nere come la notte; i canini le crebbero nella bocca, sporgendo dalle sottili labbra. Ed il suo delicato corpo fu come attraversato da una scarica elettrica, che parve quasi donarle una nuova potenza. Alzò uno sguardo che mai avevo conosciuto sul nostro avversario.
Quindi, con un urlo selvaggio, partì all’attacco, protendendo le acuminate zanne.
   
 
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