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Autore: ArgusApocraphex_    19/06/2012    2 recensioni
Ritrovare il padre che non si è mai conosciuto.
Finalmente conoscerlo.
A poco tempo dalla sua morte...
"Non lo avevo mai visto così da vicino. Non avevo mai sentito il suo respiro. Non avevo mai visto i suoi occhi, che erano di un azzurro, azzurro ghiacciato, quando invece io pensavo fossero verdi. Non avevo mai toccato la sua mano. Non lo avevo mai conosciuto di persona. E ce l’avevo lì, davanti a me, a pochi centimetri dalla mia sedia. E forse l’avrei anche conosciuto, cosa che ho aspettato in tutti questi lunghi venti anni, anche se so che sarebbe stato solo un sogno."
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credits: “Enough for now” dei The Fray.

One shot ispirata da questa bellissima canzone.

Buona lettura a tutti... e spero possa riuscire a trasmettere qualche emozione.

-B.

 

 

“Stanza 601”.

Osservai il cartellino che tenevo stretto fra le mie dita, un po’ tremando, non smettendo di sudare.

Sapevo chi c’era lì dentro. Sì, lo sapevo benissimo. E avevo paura solo a vederlo.

Poggiai la mano sulla maniglia argentata della porta; la girai. La aprii.

Il cuore mi si era fermato. Era diventato un cubo di ghiaccio, che non riusciva a muoversi, e non voleva sciogliersi. Voleva rimanere lì, senza più battere. Non sentivo più il suono che scandiva i suoi battiti, e non riuscivo a farlo muovere, in qualche modo.

Avanzai a piccoli passi , chiudendo la porta silenziosamente, per non svegliarlo.

Era lì, sul quel letto. Quel letto bianco come una nuvola.

Aveva gli occhi chiusi, un po’ coperti dai folti capelli grigi, che evidenziavano la sua età.

Respirava piano, molto piano. E con fatica. Le sue braccia cadevano delicatamente sui bordi del letto, circondati da tubicini e flebo, in cui scorreva il suo sangue. Il suo sangue malato. Che non era rosso. Era diventato rosso porpora; tendeva al viola scuro. E tutto per colpa della sua malattia.

Lui non mi conosceva. Non ha mai voluto conoscermi. Ero sua figlia, ma lui non mi considerava affatto; anzi, per lui ero come se fossi morta. Non mi ha mai voluto.

Ha aspettato un figlio maschio. Per tutti quegli anni, solo per vedere un figlio maschio. Che potesse portare il suo nome, che potesse onorarlo, e potesse rispettarlo.

Ma sono arrivata io, e non mi ha voluto. Né vedere, né sentire, né toccare.

Non ha mai sentito la mia prima parola, né il rumore dei miei primi passi. La mia prima parola è stata “papà”, proprio lui. Lo cercavo con lo sguardo, con gli occhioni pieni di speranza, mi aspettavo una sua presenza, ma lui non c’era. Come non ci è stato in tutta la mia vita. E mia madre, per non farmi rimanere male, mi diceva che era partito e un giorno sarebbe tornato. Anche se non era la verità, ci speravo, un giorno. Ma sapevo che era solo un’illusione.

Eppure gli ho sempre voluto bene. Nonostante il suo bene non fosse corrisposto.

Mi avvicinai al suo letto. Ne sfiorai le coperte con le dita, candide e leggere come una piuma. Attraversai il debole corpo giacente su di esso,  delineato da rughe marcate, che evidenziavano le sue sottili labbra e i suoi piccoli occhi, circondati da una neve di sopracciglia. E dormiva beato, come un bambino cullato dalla favola della buonanotte, senza emettere rumore. Accarezzai  piano la sua nuca, decorata dai folti capelli bianchi, che avevano fatto di lui sempre un giovane ribelle, come mi raccontava mamma.

Presi una sedia, la avvicinai al letto e mi ci sedetti. Lo guardai, accarezzandogli sempre i capelli. Ci somigliavamo proprio tanto. Aveva il mio stesso viso. Le mie stesse orecchie a sventola, le mie stesse labbra, i miei stessi occhi. Era davvero mio padre. Ma io non ero davvero sua figlia; per lui.

Notai che i suoi occhi stavano cominciando ad aprirsi, sbattendo le palpebre ripetutamente. Il suo respiro divenne più faticoso di quello di prima. Si guardò intorno, con aria confusa e stanca.

Il mio cuore si sciolse dal ghiaccio che lo imprigionava. Non lo avevo mai visto così da vicino. Non avevo mai sentito il suo respiro. Non avevo mai visto i suoi occhi, che erano di un azzurro, azzurro ghiacciato, quando invece io pensavo fossero verdi. Non avevo mai toccato la sua mano. Non lo avevo mai conosciuto di persona. E ce l’avevo lì, davanti a me, a pochi centimetri dalla mia sedia. E forse l’avrei anche conosciuto, cosa che ho aspettato in tutti questi lunghi venti anni, anche se so che sarebbe stato solo un sogno.

Volse lo sguardo verso di me. I suoi occhi ghiacciati mi fissarono un po’ a lungo, tanto da farmi sentire un po’ a disagio. Erano vuoti, ed era come se mi chiedessero “Chi sei?”.  Si scorse un po’ dal letto, si sollevò appena sul morbido cuscino di piume d’oca, e si guardò intorno.

Abbandonai con la mano la sua nuca, e la riposi sul mio ginocchio, intrecciata all’altra.

«Chi sei? »

La sua voce era stanca, respirava appena. E si leggeva anche paura, nei suoi occhi. Forse lui mi conosceva. Forse lui aveva capito chi ero, ed aveva paura. Però voleva anche una conferma.

«Tua figlia».

Risposi a fil di voce, con le lacrime che inondavano i miei occhi umidi, spenti di coraggio e allegria, che rappresentavano la persona qual ero. Erano passati venti anni, e dire a tuo padre che sei sua figlia, mentre lui è in un letto di ospedale, il quale destino non si sa che fine avrà, non è per niente facile. Mi portai una mano alla guancia, per asciugarla dalle lacrime che la solcavano velocemente, con lo sguardo rivolto verso il basso. Poco dopo me la sentì accarezzare. Alzai gli occhi e notai che era lui. Mi sorrideva appena, con le sue labbra sottili ormai secche, e mi guardava dolcemente. E non perché gli facevo pena: per tenerezza.

Mi stava guardando. Mi stava accarezzando. Per la prima volta.

«Quanto tempo è passato.  Sei proprio come il tuo papà».

Sorrisi. Le mie guance stavano riprendendo colore, e il mio viso era riscaldato dalla sua mano.

Iniziammo a parlare. Per tanto, tanto, tanto tempo.

Mi parlò del suo passato, della sua vita, dei suoi obiettivi, dei suoi sogni. Della sua famiglia, del suo lavoro, della sua salute. E lo stesso feci anche io. Gli parlai del college, delle mie insicurezze, delle mie amicizie, del mio amore, della mia band.. dei miei pensieri.

E lui non emetteva parola. Stringeva forte la sua mano alla mia, e ascoltava. Sorrideva, e ascoltava.  E lo faceva attentamente, senza perdere nessuna parola che io pronunciavo.

Per la prima volta mi sentivo ascoltata. E non da una persona qualunque. Dal mio papà.

Che finalmente avevo conosciuto.

Chiusi gli occhi. Mi addormentai.

Continuavo a stringere la mano del mio papà. Ancora non riuscivo a capire se tutto fosse vero, o se fosse solo un sogno.

Era lì, davanti a me, che fissava il muro bianco dinanzi a lui. I suoi occhi cominciarono a diventare azzurro molto chiaro, quasi pallido.

La sua pelle divenne leggermente gialla, e la sua mano indebolì la stretta con la mia.

Spostò lo sguardo verso il bianco soffitto, impolverato dai grigi acari, e la sua bocca si spalancò lentamente.

Sollevai lo sguardo verso di lui. Stavo iniziando a preoccuparmi, e un brivido mi percorse spaventosamente la schiena. Avevo paura.

«Papà, papà!»

Continuavo a scuoterlo, sempre più spaventata dal suo aspetto, che era diventato cadaverico. La tensione invadeva l’atmosfera, e l’elettrocardiografo emanava un suono alternato, che non riuscivo ad udire completamente, essendo in sovrappensiero.

Si accasciò sul letto, poggiando delicatamente la testa sul cuscino. I miei occhi cominciarono a inumidirsi.

«Papà..»

Lo chiamai a fil di voce, un’ultima volta. Quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto.

Intrecciai la mia mano alla sua, fortemente, per non mollare la presa. Sarebbe stata l’ultima volta che avrei stretto la sua mano.

Volevo che sapesse che io c’ero.

Volevo che la sua mano morisse stringendo la mia.

Volevo che morisse insieme a me.

Girò la testa verso di me. I suoi occhi erano semichiusi, e la sua fronte era imperlata da gocce di sudore.

Il suo respiro sempre più debole.

«Ti voglio bene, piccola».

Poggiò la sua testa sul cuscino. Le palpebre si chiusero, coprendo l’azzurro pallido dei suoi occhi.

L’elettrocardiografo emanò un lungo suono, un pulito e lungo suono. Troppo pulito.

Sentì il suo respiro un’ultima volta.

Rimasi immune, su quella sedia. Mi accasciai sul suo gracile corpo, immobile.

Iniziai a piangere.

Era l’ultima volta. Per davvero.

 

**

 

Le mie lacrime continuarono a scendere senza freno, sulle mie pallide guance. Pallide come le sue. Non c’era più nulla da fare. Era andato via. Per sempre.

Eppure mi stavo già abituando alla sua presenza. Lo avevo appena conosciuto,e già sapevo tutto di lui. E lui tutto di me.

Mi ascoltava come nessun altro, mi guardava come nessun altro. Come un padre guarda una figlia ed è fiero di lei.

E il passato l’ho dimenticato. L’ho perdonato per l’abbandono, per la sua assenza, per questi venti anni mancati insieme a me, per tutto. L’ho perdonato e l’ho amato, nel passato e nel presente.

Tutto questo in una notte. Una notte che mi ha cambiato la vita, in poche ore.

«Ti voglio bene, papà».

Gli sussurrai piano, vicino all’orecchio, nonostante sapessi che non mi poteva sentire. Ma glielo sussurrai. Sapevo che da qualche parte mi sentiva, anche se non era lì, con me.

Mi alzai delicatamente dal suo corpo. Gli sfiorai la guancia con un debole bacio, e abbandonai la sua mano.

Uscì fuori dalla stanza, coprendomi gli occhi con il dorso di una mano, per asciugarli dalle lacrime, tenendo lo sguardo verso il basso. Sentì dei passi che avanzavano verso di me, silenziosamente. Ma li riuscivo a sentire.

«Allora?»

Mi domandò una voce femminile, spezzata da singhiozzi soffocanti. Era mia madre.

Sentivo la presenza di altre persone, che tacevano e, a volte, piangevano, respirando affannosamente. Sentivo i loro respiri, anche se erano muti.  Sapevo che c’erano. E attendevano una mia risposta.

Non risposi. Scoppiai a piangere.

Piansi come non avevo mai fatto. Piansi lacrime amare, che scendevano sempre più violentemente e velocemente, che mi irritavano le guance, colorandomele di un rosso troppo scarlatto. Che non intendevano smettere.

Mi sentì abbracciare. Un abbraccio forte.

Mi sentì accarezzare i capelli, la nuca.

Mi sentì un dito che asciugava le lacrime che scendevano dai miei occhi sofferenti.

Mi sentì protetta.

E quella protezione la conoscevo bene. Era la sua.

 

«Amore..»

Mi sussurrò all’orecchio, spostando le ciocche dei miei capelli dietro le orecchie.  Sprofondai nel suo petto, bagnandolo delle mie lacrime. E lui continuava a stringermi, ad accarezzarmi.

«Scusami, Isaac. Per tutto.»

Gli risposi sussurrando, a bassa voce. La voce era andata via. Non ne era rimasta nemmeno un po’. Era stata risucchiata dal dolore e dalla frustrazione, che in quel momento erano sovrane. Era una pugnalata al cuore.

Mi diede un lieve bacio sulle labbra. Mi tranquillizzai, e mi feci coccolare dalle sue braccia, che mi cullavano come una mamma culla il suo bambino per farlo smettere di piangere. E lui ci riusciva perfettamente. Non piangevo più, e cominciai a riprendere fiato. Il respiro stava ritornando.

Abbracciai mia madre. La donna più importante della mia vita. Lei che aveva sofferto più di tutte. Lei che era sempre stata la più forte, la più coraggiosa. Lei che era una gigante. Ora era piccola, richiusa in se stessa, e non aveva forze. Era un cucciolo impaurito dal presente, e dal futuro. Si lasciò accarezzare dalle mie gelide mani la tempia. Le strinsi forte la mano, mentre con l’altra si asciugava le lacrime con il fazzoletto di pizzo, che le aveva regalato papà tanti anni prima.

Era l’unico ricordo che aveva di lui. E non lo mollava mai.

Ce l’aveva sempre con lei.

Le faceva compagnia nei momenti di incomprensione e di speranza. Aveva assorbito tante di quelle lacrime, eppure non si era mai sgualcito. Era sempre più bello di prima.

La mamma lo aveva sempre amato, papà. Nonostante fossero passati tutti questi anni.

E questo lei non se lo meritava. Tutto questo dolore, lei, non se lo meritava.

Ci alzammo dalla panchina grigia del corridoio. Mi diressi verso il cortile dell’ospedale.

Mi sedetti sul verde prato primaverile, vicino a una quercia. Incrociai le gambe, avvicinandomele al petto, immergendoci il viso. Respirai a pieni polmoni l’aria pulita che soffiava. Il sole era oscurato dalle nuvole.

Cominciarono a cadere gocce di pioggia, fitte.

Poi sempre più forti.

Un temporale.

Mi lasciai bagnare, abbandonandomi alla mia solitudine.

Forse anche il cielo stava piangendo?

 

**

Lo stavamo portando in spalla. Io, Isaac, Joe, Ben e Dave.

Lo stavamo portando con lo sguardo verso il basso.

Dietro di noi una processione. C’erano tutte le persone che gli volevano bene.

Mia madre, sua moglie, i suoi figli, i miei zii, i miei nonni. Tutti.

Pregavano, intrecciando tra le loro dita il Rosario. Pregavano, senza emettere parola.

Le donne proteggevano la loro tempia con il morbido foulard di pizzo nero, portandosi una mano con  il fazzoletto agli occhi gonfi, che non smettevano di inumidirsi.

Gli uomini erano immuni. Erano velati di tristezza. Opprimevano le lacrime, per non farle uscire. Anche se avrebbero voluto farlo. Ma volevano essere forti.

Arrivammo in chiesa. Entrammo silenziosamente, facendo il segno della croce. Gli altri si sistemarono fra le panchine di legno, io e i ragazzi continuammo a camminare verso l’altare.

Poggiammo la bara con cautela, sul pavimento marmoreo. Ci chinammo. Isaac si allontanò verso la panchina, accompagnati dagli altri tre. Io rimasi lì, dinanzi a essa.

 La accarezzai dolcemente, portandomi successivamente la mano alle labbra. Rimasi lì, in piedi, ad osservarla. Poco dopo mi sistemai gli occhiali da sole e mi sedetti, vicino a Isaac.

Iniziò la celebrazione.

Non stavo ascoltando una parola di quelle che stava pronunciando il prete. Ero troppo immersa nei miei pensieri.

Pensai a come tutto fosse accaduto in fretta. Forse troppo in fretta.

Ripensai a questi venti anni. A tutta la mia vita.

A come è stata, con o senza di lui. Alla mia infanzia, alle feste di Natale, al college, alla band, al liceo. A come fossi spensierata,  a come ero bambina, come ero speranzosa e aspettavo che lui tornasse dal suo viaggio, anche se non era partito. A come gli altri bambini avevano una famiglia unita, e prendevano per mano sia la mamma che il papà, mentre io solo la mamma. E mi sentivo diversa.

Diversa perché loro ce li avevano entrambi, i genitori. Io in realtà solo una.

E quando mi chiedevano: «Dov’è il tuo papà?» io rispondevo pimpante «E’ in giro per il mondo», e vedevo quanto rimanevano affascinati da quella risposta.

Forse loro non sapevano che era stato in viaggio per tanto tempo. Troppo tempo.

Poi, averlo visto per la prima e l’ultima volta nella stanza di ospedale, assistendo alla sua stessa morte, è stato  troppo veloce. Anche se avevo passato la notte più bella della mia vita.

Aveva sessant’anni. Sessant’anni di amarezza, solo cinque o sei di beatitudine.

Perché la sua vita era stata aggredita dalla leucemia. Una di quelle malattie che rimangono nel tempo, che non se ne vanno facilmente. E ti sconvolgono l’esistenza.

Forse per questo era scappato da me, e non solo. Voleva proteggersi. E voleva proteggermi.

«Chi vuole fare un discorso per il nostro caro amico, si accomodi pure».

Disse il prete, con voce pacata e tranquilla.

Sollevai lo sguardo. Isaac mi stava incoraggiando a parlare, in suo onore.

Mi alzai dalla panchina in legno, facendo attenzione a non fare rumore;  mi diressi verso l’altare. Salì i gradini, e giunsi al leggio.

Mi avvicinai al microfono, levandomi gli occhiali da sole. Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano, e la poggiai sul leggio.

Iniziai a parlare di papà.

Tutti ascoltavano interessati. I ragazzi mi guardavano commossi.

Isaac mi sorrideva, fornendomi coraggio.

Raccontai tutto, dei miei pensieri. E non mi fermai.

«Grazie, papà».

Conclusi il discorso.

Mi rimisi gli occhiali da sole, scendendo i gradini, per allontanarmi dall’altare.

Mi posizionai davanti alla bara, un’ultima volta.

Ne accarezzai il legno giovane con le dita. Presi una rosa dal vaso più vicino e la poggiai su di essa. Avvicinai le mie dita alle labbra, per poi portarle su di essa.

Mi allontanai. Mi sedetti vicino a Isaac, che mi abbracciò.

I ragazzi mi sorrisero.

Il prete ritornò a parlare, celebrando la comunione. Suonò la campana.

Riprendemmo tutti e cinque la bara, caricandocela sulle spalle. Dietro di noi, la processione.

Ci dirigemmo verso il cimitero, dove venne seppellita.

Non piansi più.

Sapevo che lui c’era. Dentro di me. E c’era chi mi voleva bene. Non l’avrei dimenticato.

  
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