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Autore: avalon9    05/01/2007    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 24

CAPITOLO 24

SIGNIFICATI

 

 

Un jinja.

Gli aveva chiesto se conoscesse un jinja nelle vicinanze. Anche abbandonato. Le bastava che ci fosse la statua di un kami. Solo quello.

 

Ne era rimasto sorpreso. Ormai, mancava poco perché lasciassero completamente i territori dei ningen ed entrassero nei suoi diretti possedimenti. In quelle terre abitate solo da youkai e sotto il suo stretto controllo. Nelle terre che aveva ereditato da suo padre. Nelle terre dell’Ovest.

 

Glielo aveva detto. E lei gli aveva chiesto di accompagnarla prima in un tempio. Senza senso. Lui non riusciva proprio a capire certi suoi atteggiamenti. Ma non si era sentito di ignorare quella richiesta. In quegli ultimi giorni, Alessandra era diventata più schiva e taciturna di quanto avesse mai visto.

 

Sesshomaru si sentiva impotente. Per la prima volta nella sua vita. La sentiva intristirsi sempre di più, e non sapere cosa fare lo faceva impazzire. Toccava appena il cibo e lo cercava sempre con più urgenza. Anche se poi non parlava e ignorava anche le sue domande. Gli si accoccolava fra le braccia e trascorreva la notte insonne, a osservare il cielo stellato. Cercava di nascondere il suo stato d’animo, forse pensando che il demone non se ne sarebbe accorto. Inutile. Anche se cieco, Sesshomaru la percepiva la sua tristezza.

 

Ne sapeva l’origine, anche se non capiva bene perché quegli incubi fossero tornati a tormentarla così all’improvviso. Era da molto che Alessandra dormiva tranquilla la notte, da quando aveva parlato con lui. Sulla riva di un lago lontano. Aveva cercato di nuovo di spingerla a confidarsi. Di farla aprire, ma senza sforzarla. Perché lui per primo sapeva che a volte il dolore più grande è quello celato dal tempo.

 

Alessandra aveva sempre scosso la testa a quegli inviti. Si stringeva di più a lui e si lasciava avvolgere dal suo profumo. Gli aveva detto di non preoccuparsi, che presto sarebbe stata meglio e che gli avrebbe spiegato tutto. Ma lui doveva fidarsi. E lasciarle quei giorni di dolore.

 

E Sesshomaru aveva acconsentito.

 

*****

 

Sole.

Una luce che non scalda. Si lasciava accarezzare da quei raggi delicati, mentre la aspettava. Alla fine, l’aveva accompagnata ad un tempio. Aveva dovuto lasciarla entrare da sola nel recinto sacro, ma si era seduto sul ramo più alto di un albero, appena fuori le mura.

 

Aveva vegliato su di lei. Sul modo in cui era stata accolta. Perché temeva che il colore dei suoi capelli avrebbero spinto i monaci a reagire. Invece, era andato tutto bene. L’avevano riconosciuta come una ningen e l’avevano fatta entrare. E adesso lui l’aspettava pazientemente.

 

Glielo aveva promesso. Dopo quella visita, non sarebbe più stata così triste. Sarebbe passato tutto. Ma in quei giorni, lei proprio non poteva evitare di sentirsi estremamente malinconica. E in fondo, lui la capiva. Anche se non lo voleva ammettere.

 

Paura.

 

La notte precedente, aveva avuto paura. O qualcosa di molto simile. Una sensazione di pericolo che aveva avvertito una sola volta. Quando aveva visto suo padre per l’ultima volta. La sensazione che stesse per succedere qualcosa di sgradevole.

 

Lui. Proprio lui. Che non si era mia preoccupato più di tanto di chi gli fosse accanto. Che non aveva provato quasi mai niente per nessuno.

 

Era cambiato. Ed era stata lei a farlo cambiare. A renderlo più conciliante. A piegare la sua corazza. Non aveva mai permesso a nessuno di farlo capitolare. Non si era arreso a nessuno. Neanche a Rin. Libero. Senza vincoli né legami. Nemmeno quelli che gli derivavano dal titolo.

 

Eppure, aveva permesso che quella ningen lo abbattesse. Si era lasciato avvincere dai suoi occhi, dal suo tocco. Lo aveva sedotto con la sua ritrosia e tristezza. Con la forza e la determinazione. Lo aveva conquistato.

 

Aveva cambiato le sue abitudini. Ormai, non restava più fuori la notte. Anche se lui non aveva bisogno di dormire, si sdraiava nel futon, accanto ad Alessandra e la faceva dormire appoggiata a sé. A volte parlavano un po’ oppure seguivano la danza sibilante del fuoco. Non gli importava cosa facessero, gli bastava non lasciarla.

 

Ma la sera prima…Sesshomaru aveva aspettato che Alessandra si addormentasse ed era uscito dal riparo. Aveva bisogno di stare solo. Per riordinare le idee. Per cercare di trovare una spiegazione al pulsare sommesso di Tenseiga. Sembrava piangere, o chiamare qualcuno. E poi, quel pomeriggio, aveva avvertito un dolore lancinante al cuore. Come se glielo volessero strappare. Era stato costretto a inginocchiarsi a terra, stringendo la stoffa del kimono e digrignando i denti in un ringhio mal represso. Gli era sembrato di poter divenire folle per quel dolore. Aveva avvertito la ragazza accanto a sé, ma erano state percezioni confuse e distanti. Aveva sentito solo un fuoco arderlo dentro. Infine, una pace profonda. Il dolore si era spento lentamente, mentre Tenseiga aveva aumentato freneticamente il proprio battito. A proteggerlo. Creando come una barriera in cui niente potesse ferirlo. La spada lo aveva aiutato. E ora continuava a pulsare sempre di più, tremando e fremendo dentro il saya. Cosa avesse, lui non riusciva a capirlo. Non l’aveva mai sentita comportarsi in quel modo. In nessuna passata occasione.

 

Era preoccupato. Se la spada di suo padre si comportava a quel modo, una spiegazione doveva esserci, anche se lui non riusciva a trovarla. Inoltre, non riusciva a fingere la solita indifferenza. Pensava ad Alessandra, che aveva in lui una fiducia totale ormai. Pensava alla sua fragilità e alla sua forza latente. Voleva portarla al sicuro. Al castello. Il prima possibile. Lì non avrebbe più corso pericoli.

 

Si era sfiorato le labbra, riassaporando nella mente il gusto di quel bacio che si erano scambiati. Un gesto semplice, delicato. Il suo sapore…non si sarebbe mai stancato di quel sapore fresco e dolce…L’aveva baciata sfiorandole appena le labbra, quasi con paura di osare troppo. Di precipitare le cose. Non sapeva bene neanche lui cosa provasse. Era un sentimento nuovo e del tutto estraneo. Non sapeva come chiamarlo. Se avesse potuto davvero provarlo. E poi…c’era l’ombra di suo padre nella sua mente. Il ricordo della sua morte ingloriosa e l’odio verso la donna che ve lo aveva gettato. Ora, lui sembrava essere preda della stessa malia che aveva ucciso suo padre. E non aveva neanche la ferma volontà di allontanarsi.

 

Confuso. Era tanto, troppo confuso. Avrebbe potuto averla, certo, ma non lo desiderava. Non lo aveva mai desiderato. Voleva lei, ma non per il suo corpo. Di questo ne era sicuro. La voleva per qualcos’altro. Per qualcosa di simile alla sensazione che lo aveva spinto a prendere Rin con sé. A farne la sua protetta. Voleva proteggere Alessandra. Qualunque cosa volesse dire, non voleva che le accadesse nulla. Solo che fosse serena e che gli sorridesse. Come aveva sorriso quando l’aveva vista pattinare. Sesshomaru desiderò che la ragazza gli rivolgesse quel sorriso. Anche se lui non avrebbe più potuto vederlo, lo avrebbe percepito ugualmente, ne era sicuro. E ne avrebbe goduto fino in fondo.

 

Improvviso, un urlo. Acuto. Nella notte calma. Era tornato di corsa all’accampamento. Aveva temuto un demone. Aveva trovato invece qualcosa che non sapeva fronteggiare.

Alessandra era seduta nel suo futon. Tremava. Come aveva percepito la sua presenza, la ragazza aveva alzato gli occhi su di lui. Sbarrati. Terrorizzati. Piangeva. Singhiozzi strazianti le squassavano il petto. Il tempo di palesare la sua presenza, che fu investito dalla ragazza. Se l’era ritrovata al petto, stretta contro di lui. Artigliava il suo kimono e non smetteva di piangere. Era rimasto spiazzato. Ma poi aveva seguito l’istinto e l’aveva abbracciata.

 

Alessandra balbettava. Confuse con il respiro spezzato, uscivano parole inarticolate. Affondava il viso nel suo petto. Lo aveva stretto. Lo aveva abbracciato con il terrore che scomparisse da un istante all’altro. Quel sogno…quel maledetto sogno era ritornato. Con particolari ancora più nitidi del passato. Come sempre in quel periodo.

 

Sesshomaru aveva aspettato che si sfogasse, l’aveva lasciata urlare e piangere senza intervenire, solo limitandosi a stringerla più forte quando gli sembrava che il pianto aumentasse e a passarle la mano fra i capelli, in una carezza delicata e continua. Alla fine, aveva dovuto sorreggerla per evitare che cadesse. Era davvero distrutta. L’aveva presa in braccio come una bambina e si era seduto con lei sulle ginocchia vicino al fuoco. La cullava. Piano. Mentre ancora alcune lacrime le bagnavano il viso.

 

Non le aveva fatto alcuna domanda. Perché la ragazza sapeva che lui c’era sempre per ascoltarla. Che lo avrebbe sempre fatto. Ma anche che non glielo avrebbe mai imposto. Lentamente, Alessandra sentì la tensione allentarsi, scacciata dal semplice tocco dell’youkai sul suo volto. Nonostante il suo aspetto richiamasse in mille particolari la morte, per lei era la vita. La sola persona capace di trasmetterle quella tranquillità e di placare gli squarci del suo animo.

 

“Scusami…”

 

Il bel demone l’aveva sentita abbassare la testa prima di pronunciare quella parola, come se se ne vergognasse. Aveva sorriso. Perché voleva mostrarsi forte anche quando di forza non ne aveva molta; voleva tenersi tutto dentro e poi il risultato era che i suoi nervi cedevano e quegli incubi tornavano a tormentarla.

 

L’aveva sfiorata, alzandole con dolcezza il volto bagnato di sale, scostando i ciuffi ramati. Si era chinato su di lei e l’aveva baciata. Con passione, ma anche con infinita dolcezza. Alessandra aveva sentito di nuovo il suo sapore fresco e inebriante, e si era abbandonata a lui. Quel bacio conteneva tutte le parole che il demone non riusciva a pronunciare. Tutto quello che non riusciva a comunicare per via della sua rigida educazione. Era una promessa di aiuto, la consapevolezza che lui ci sarebbe stato sempre, la sicurezza di non essere più sola.

 

Glielo aveva spiegato. Il motivo di quella rinnovata tristezza. Anche se con lui stava bene, anche se si addormentava serena fra le sue braccia, anche se non provava rimorso nel baciarlo. Non dipendeva da lui. Anzi, lui era tutto ciò che le permetteva di andare avanti. Quella malinconia era dovuta a un numero. Alla data di un giorno. Ad una ricorrenza. Quella dell’anniversario di quell’incidente.

 

Sesshomaru si volse verso il tempio. Il vento gli portava un odore di incenso che lo infastidiva. Era da parecchio ormai che era entrata. Presto, lo avrebbe raggiunto di nuovo e finalmente sarebbero entrati nei suoi domini.

 

Non voleva pensare a quello che avrebbe scatenato il suo rientro con una donna umana al fianco. Non in un momento come quello. Quando, ad aggravare la sua cecità, c’era una situazione sociale nebulosa e incerta.

 

Non sapeva come avrebbero agito, ma era determinato a tenere Alessandra con sé. Anche senza più poterla avvicinare e baciare. Voleva che fosse al sicuro. Con lui. Non voleva altro.

 

*****

 

La stupa era buia e impregnata del fumo di molte candele e dell’incenso che bruciava in un grande braciere. Le ombre si infrangevano sulla superficie lavorata, infilandosi nelle decorazioni sontuose del soffitto e dell’altare. Una luce soffusa permeava l’ambiente. Una luce quasi irreale.

 

Alessandra prese un po’ di polvere grigia e la gettò nel fuoco. Sembrava cenere profumata. Un piccolo sbuffo, un guizzare sommesso che ravvivò la fiamma. Poi, di nuovo l’immobilità ieratica del dio che aveva davanti. Un buddha dal volto sereno e imperturbabile.

 

Si inginocchiò sulla stuoia intrecciata e iniziò a pregare. Da quando era giunta in quell’epoca, pensò, non lo aveva fatto. Non lo fece per i sogni angosciosi che erano tornati a tormentarla, non per paura del sentimento che sentiva crescere dentro di lei e diventare sempre più forte, né perché si fosse pentita di non aver pregato per tre mesi, ma forse anche tutte queste cose influirono.

 

Pregò per i suoi genitori e suo fratello, perché loro erano sempre nei suoi pensieri. Il loro ricordo non l’avrebbe mai abbandonata e sarebbe servito come sostegno nei momenti difficili. Chiuse gli occhi e strinse con forza le nocche, fino quasi a farle diventare bianche. Avrebbe voluto che loro fossero lì, ma ormai sapeva che era un desiderio folle e insensato. Ingiusto forse, anche. Aveva sentito dire che in Giappone credono che le anime non possano raggiungere la quiete eterna se in terra c’è qualcuno che le trattiene con il loro dolore. Lei non sapeva se fosse vero o meno. Ma non le importava. Come non le importava in quel momento essere inginocchiata davanti ad un effige che non ritraeva il suo dio.

 

Voleva solo parlare con loro. Raccontar loro quello che le era successo e quello che stava vivendo. Voleva chiedere di non farle mancare la loro protezione, e di vegliare sempre su di lei. Voleva finalmente poter dire addio ai suoi tormenti e ai suoi sensi di colpa.

 

La voce…quella voce che talvolta credeva di sentire nel sonno…quella voce così calda…Sembrava quella di Leone. Non ci avrebbe mai creduto, ma voleva illudersi che lo fosse. Che fosse un invito a superare il passato e a guardare avanti. Al futuro.

 

Forse stava rincorrendo anche in quel momento un sogno. Perché una vita accanto a un demone, ad un essere che razionalmente non dovrebbe esistere, sfiorava l’assurdo. Ma reale o meno, Sesshomaru era l’unico che fosse riuscito a guarirla dalla depressione in cui era caduto tre anni addietro. L’unico che avesse saputo cogliere il grido racchiuso nei suoi occhi, senza fermarsi alla loro difensiva freddezza.

 

Forse il loro rapporto non sarebbe durato, forse invece era destinato a vivere in eterno. Non lo sapeva e non lo voleva sapere. Voleva solo vivere il presente, con serenità. Affrontarlo con la leggerezza con cui si affronta la vita a vent’anni. Senza stupidità, ma anche senza cinismo. Vivere. E basta. Non voleva altro. Accanto a lui.

 

Si alzò con le ginocchia indolenzite. Era rimasta in quella posizione per più di un’ora. A raccontare loro il suo cuore, le sue paure e le sue speranze. Gettò un’altra manciata d’incenso nel braciere e uscì senza voltarsi.

 

Arrivederci…

 

*****

 

Stelle.

Luminose. Splendenti. Accecanti nel velluto oscuro della notte. Infinite. In quell’epoca, le stelle illuminavano davvero il cielo notturno, irradiando una tenue luminescenza sulla terra. Diamanti puri e perfetti. Custodi di sogni e illusioni.

 

Novilunio. Si erano fermati in una radura fra le rocce, e fra le cime degli alberi si intravedeva un ritaglio di cielo. Magnetico, nella notte fredda e tersa. Alessandra lo fissava in completa contemplazione, rincorrendo le scie di alcune piccole comete, giocando con le costellazioni e la memoria. Serena. Rilassata.

 

Seduto su un ramo sopra di lei, Sesshomaru l’ascoltava descrivergli la volta celeste. L’unica presenza costante della sua vita. Gli descriveva quel cielo che lo aveva visto nascere e in cui aveva corso. L’unico confidente di tutti i suoi pensieri. L’ascoltava, e nella sua mente piccole scintille bianche danzavano al suono della sua voce, creando un nuovo cielo. Sempre uguale, ma estremamente diverso. Perché era lei a delinearlo per lui.

 

Quando l’aveva sentita uscire dal tempio, aveva percepito un cambiamento in lei. L’odore. Aveva un odore nuovo. Non sentiva più tristezza o dolore in lei. Solo molta tranquillità. Era sceso dall’albero e l’aveva fissata. Sapeva di averla di fronte, a pochi passi, anche se non poteva vederla.

 

Alessandra aveva letto in quello sguardo molte domande, che il bel demone non avrebbe mai proferito a voce. Ma la sua sorpresa era evidente nel modo in cui atteggiava la testa: piegata leggermente di lato, con alcuni ciuffi di capelli che ricadevano un po’ scomposti sul petto. Aveva preso un respiro profondo, lasciandosi inebriare dall’aria fresca.

 

Aveva scelto. Non le importava il dopo, voleva solo il presente. Lo aveva di fronte. E aveva l’aspetto di un bellissimo ragazzo dallo sguardo d’oro. Di un uomo. Di cui non sapeva quasi nulla, ma che le ispirava una fiducia totale. La stava spettando. La ragazza non sapeva per quanto l’avrebbe aspettata, per quanto lei avrebbe potuto camminargli accanto. Ma aveva promesso a se stessa di non preoccuparsi di quello. Aveva promesso di vivere e basta. Per loro. Per lui. Per se stessa.

 

Aveva sorriso. E, spiccata una piccola corsa, lo aveva raggiunto per afferrarlo al braccio e trascinarselo dietro. Ridendo. Sesshomaru l’aveva sentita ridere per la prima volta. Una risata cristallina e dolce. Il suono di chi ride senza un vero motivo. Solo perché è contento. Quella risata gli era entrata nel cuore e aveva anche lui piegato le labbra in un tenue sorriso. Il massimo che la sua rigida educazione gli permettesse. Ma dentro di sé, l’youkai aveva sentito come se un peso fosse scomparso. Si era sentito bene, veramente bene.

 

L’aveva pesa in braccio e, fra lo stupore e l’imbarazzo della ragazza, aveva iniziato a correre veloce, permettendole di assaporare il gusto dell’aria sul viso, fra i capelli; aveva saltato sopra le cime degli alberi e fra le stelle della notte. L’aveva fatta volare.

 

E ora, erano lì. L’ultima notte che avrebbero passato da soli, all’aperto. Poi, sarebbero giunti a palazzo. E molte cose forse sarebbero cambiate. In quel momento, però, voleva solo gustarsi la voce della ragazza seduto ai piedi dell’albero. La voce di quella ragazza così speciale per lui.

 

“Sesshomaru…Tu credi nei kami?”

 

La domanda lo aveva un po’ sorpreso. Non aveva mai visitato un tempio né aveva mai provato il bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale. Credeva solo in sé stesso. Quello era tutto ciò di cui abbisognava. Si era chiesto più volte il motivo per cui i ningen costruissero edifici enormi dove poi non abitavano, se non in pochissimi, e perché plasmassero statue e regalassero loro cibo e incenso. Era anche successo, a volte, che incontrasse dei ningen che dopo averlo riconosciuto come un youkai si gettavano ai suoi piedi e iniziavano a pregarlo e venerarlo. Come li aveva visti fare con le statue. Non sapeva se fosse per paura o per rispetto, o se ci fosse qualcos’altro. E non si era mai curato di saperlo. Se si prostravano ai suoi piedi, era per lui la conferma della sua superiorità. E questo gli bastava.

 

Alessandra si sorprese lei pure della domanda. Ma cosa le era passato per la mente? La risposta era talmente ovvia. Certo che ci credeva. Lui stesso, in fondo, era un kami. Uno youkai è un kami. Entrambi sono spiriti puri, giunti al massimo della loro espansone spirituale. Erano divinità. Lui era una divinità. Da venerare e adorare. Da guardare da lontano, con rispetto e devozione. Ma da non toccare.

 

Eppure, lei l’aveva toccato. E lo aveva scoperto di carne e sentimenti. Lo aveva scoperto più umano di molti ningen. Nonostante il rigore ferreo inculcatogli e le idee sulla purezza della sua razza, Sesshomaru si era dimostrato disposto al dialogo, se così si poteva chiamare. Non si era fermato al suo aspetto esteriore, ma era sceso in profondità. Nel suo cuore. E lo aveva sciolto.

 

“…No…”

 

Alessandra sussultò, sollevando gli occhi al demone seduto sopra di lei. Aveva detto no? Ma non era possibile; era un contro senso. Se lui non credeva nei kami, era come se negasse se stesso. O forse era lei ad avere le idee un po’ confuse in materia. Forse kami e youkai non sono la stessa cosa. Sesshomaru percepì la sua confusione e ne sorrise un po’ divertito. Scese dall’albero e si sedette accanto a lei.

 

“Io non credo nei kami-gami perché mi è stato insegnato a credere solo in me stesso. Non ha senso dedicare sé stessi a qualcosa, svilendosi interiormente. Le vittorie e le sconfitte vengono da noi stessi. Non esiste nessun kami-gami. Esitiamo solo noi. Con la nostra forza”

 

Parlava bene. Lo faceva poco, vero, ma quando parlava aveva un tono caldo e rilassato. Da oratore in erba. Riusciva a esprimere concetti difficili con lucidità a volte disarmante. Solo quando doveva parlare di sé faticava a trovare le parole adatte. Ma Alessandra era sicura che col tempo sarebbe riuscito anche in quello. E lei avrebbe saputo di più di lui.

 

“Quindi, il mondo è regolato dalla forza”

 

Sesshomaru annuì. Il potere era la sola cosa importante. E la forza era necessaria per esercitarlo. Quella era la prima lezione che gli era stata impartita. Quella che suo padre aveva dimenticato. Assottigliò le iridi ambrate. Forse, anche lui la stava dimenticando. Quella donna umana era forse l’avvisaglia dell’inizio della sua debolezza? La prova che si stava indebolendo?

 

No. Era certo che la sua forza non fosse stata minimamente intaccata da Alessandra. L’unico ostacolo cui doveva abituarsi era la cecità. Avrebbe dovuto imparare di nuovo a combattere. Avvolto dal buio. Ma non gli mancava la forza.

 

Inoltre, stranamente, non riusciva a percepire Alessandra come un essere debole. L’avvertiva bisognosa di protezione e sostegno, ma da lei emanava anche una forza strana. Quella della disperazione forse. Che l’aveva spinta a gettarsi su Kagura anche se consapevole della superiorità della yasha. Una forza che lui non conosceva, ma che aveva visto bene in suo fratello. Quando era riuscito a sconfiggere il corpo posseduto da Sounga. Una forza che non si sarebbe mai aspettato di trovare in un semplice hanyou.

 

“Secondo me, non è vero”

 

Sesshomaru voltò il viso inarcando un sopracciglio. Alessandra era rimasta un po’ in silenzio e ora era uscita con una frase che lui non capiva. E l’ascoltò attento mentre spiegava che la forza cui si riferiva lui era quella fisica, ma invece ne esistevano tante. Diverse. Molteplici. Come sono infinite le sfumature dei sentimenti. Quindi, uno non è di necessità debole; solo ha una forza diversa dalle altre.

 

“Quindi, io sarei debole”

 

“No. Semplicemente, fai affidamento su una sola forza. Quella fisica”

 

Il silenzio calò fra loro. Ognuno smarrito nei suoi pensieri. Alessandra si accoccolò sul suo petto e si fece avvolgere dal suo kimono. Continuava a guardare il cielo. Serena. Sesshomaru, invece, continuava a sentire le ultime parole della ragazza confondersi con quelle di suo padre. Gli sembrava che lei avrebbe potuto spiegargli il loro valore. Delineare bene le supposizioni che si erano avvicendate nella sua mente. Ma non si sentiva di chiederglielo. Non ancora. Perché significava anche spiegare molte altre cose. Troppe.

 

“Perché sei andata al tempio?”

 

“Per pregare”

 

“Pregare?...”

 

L’youkai non conosceva quella parola. Nel suo valore effettivo. Come non sapeva veramente il valore del vocabolo amore. Forse, erano solo etichette diverse che venivano date a cose uguali. Forse, erano modi diversi per esprimere qualcosa che era uguale a ningen e demoni. Però, queste sembravano più illusioni. Di avere qualcosa in comune.

 

“Sì…Lo si fa per i morti. Per parlare con loro. Tu non preghi mai?”

 

“…No…”

 

Sesshomaru abbassò confuso il capo. Per i morti? Per parlare con loro? Avrebbe davvero potuto parlare di nuovo con suo padre? Non gli sembrava possibile. Gli avevano insegnato che quando qualcuno muore, diviene solo un cadavere. Non bisognava più curarsi di loro. Si volta pagina e si ricomincia come se nulla fosse successo. Solo i ningen edificano tombe e vi portano fiori. Solo loro. Perché farlo vuol dire mostrare sentimenti. Mostrarsi deboli e facilmente influenzabili da dolore e malinconia.

 

Tu preghi…eppure non sei veramente così fragile come appari…Perché i sentimenti non ti indeboliscono?...

 

Alessandra vide la costernazione sul suo volto. Quel ragazzo sembrava aver vissuto fino a quel momento in un limbo. Senza percepire nulla. Vissuto solo per il sangue. Eppure, nel mondo, c’erano molte altre cose oltre alla lotta per cui valesse vivere. Cose che portano il sorriso sui visi dei bimbi. Banalità quotidiane e semplici, ma capaci di scaldare il cuore.

 

Lui sembrava non averle mai conosciute. Sembrava aver percorso fino a quel momento un lungo tunnel buio, in cui le uniche luci che riuscivano a penetrarvi avevano le sfumature disilluse del grigio. In quel momento, Sesshomaru le sembrò un bambino che cerca di capire un concetto troppo difficile per lui. Troppo grande.

 

“Non è una colpa. Significa che non hai perso nessuno di importante”

 

L’youkai la strinse di più a sé, in un abbraccio che sorprese la ragazza e la fece pentire delle sue parole. Cosa ne sapeva lei? Non era neanche a conoscenza del fatto se avesse ancora i genitori, se avesse fratelli, sorelle…Inoltre, forse per i demoni era diverso. Forse anche loro pregavano, ma non come fanno i ningen.

 

Nessuno di importante…

 

Capelli d’argento e una voce calda e avvolgente nella mente. Una figura bianca nella notte di plenilunio. Una figura macchiata di sangue. Si portò una mano alla testa. Perché all’improvviso quel ricordo gli faceva male? Non più rabbia, rancore, delusione…Solo male. Rimpianto.

 

La voce della ragazza lo riscosse. Si era accorta che aveva qualcosa che non andava, ma lui evitò le sue domande discrete con un fugace sorriso. Provò a ingannarla. A farle credere che non avesse nulla.

 

“Fingerò di crederci…Però, sappi che io ci sono…Sempre…per qualunque cosa…”

 

Le sfiorò il volto con la mano, disegnandole con le unghie i contorni delicati, le labbra carnose. Affondò la mano nei suoi capelli di rame e se la strinse al petto. L’avvolse completamente con il suo profumo, la sua stola, il suo kimono. Sentirla così vicina era la sola cosa che riuscisse in quel momento a donare tranquillità alla sua anima. A un’anima che era stata inquieta per secoli. Alla ricerca di qualcosa che ancora non aveva un nome e i contorni definiti.

 

Grazie…

 

  
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