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Autore: Ryo13    28/06/2012    10 recensioni
Erin Knight ha un solo obiettivo nella sua vita: da quando ha perso lo zio Klaus, ucciso dall'uomo che amava, non vive che per trovare colui il quale possiede il potere complementare al suo, ovvero quello di manovrare il tempo. Tuttavia la sua missione è ostacolata da Samuel Lex — adesso capo dei ribelli e conosciuto col nome di 'Falco' — e dai capi dell'esercito reale che la osteggiano, minacciando la sua carica di Luogotenente. Unica donna in un mondo di uomini e senza alleati, sarà costretta a forgiare nuove alleanze in luoghi inaspettati...
❈❈❈Storia in revisione ❈❈❈
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo 05 - Surdesangr
 

Trascorsi la mattina a girovagare per le strade della città bassa. 

Quando dovevo meditare preferivo tenermi alla larga dalla zona delle residenze nobiliari dove le persone per strada avrebbero potuto riconoscermi per mescolarmi nel flusso della gente del popolo impegnata nelle quotidiane attività.

Potevo, per un momento, lasciarmi alle spalle la mia condizione di privilegiata, entrando in contatto con quella parte di umanità comune che per molti versi mi sarebbe sempre rimasta estranea. 

Mi resi conto con un certo ritardo di dove mi avessero condotta i miei passi.

C’era un posto in cui mi recavo, negli ultimi anni, quando mi sentivo afflitta o amareggiata: il Surdesangr, l’arena dove venivano combattuti gli incontri più cruenti tra gladiatori e schiavi.

Si trattava di un complesso in pietra di medie dimensioni, il più imponente nella zona popolare di Norvo. Era un famigerato luogo di raduno per malviventi e gente pericolosa, in cui si poteva scommettere sull’esito degli incontri.

Era invero un posto macabro, dove la morte mieteva quotidianamente vittime.

Poche persone avevano il coraggio di avventurarvisi – specie se erano gravate da beni materiali o di altra natura – a meno che non cercassero con impellenza la compagnia delle prostitute dei Signori del Surdesangr

Da anni, tuttavia, la gente del posto si era abituata alla mia eccezionale presenza e aveva smesso da un pezzo di molestarmi con tentativi di furto o domande inopportune. 

A dirla tutta, era proprio qui che mi ero guadagnata il soprannome di Violet.

Attraversando l’imponente arco di pietra, mi si presentò davanti l’arena circolare, larga parecchi metri.

Già nel pomeriggio era pieno zeppo di gente urlante, tutta presa a incitare i combattenti, i quali ansimavano grondando sudore. 

Il terreno per gli incontri era recintato da una enorme gabbia di ferro macchiata di sangue essiccato, del sudore della folla e di altro sudiciume che era preferibile non analizzare troppo da vicino.

Mi tenni a distanza dalle tribune dove si accalcavano gli uomini e mi sistemai sugli spalti rialzati, accomodandomi sulla nuda pietra e abbandonandomi alla ferocia dello spettacolo. 

Nonostante quanto si potesse credere vedendomi frequentare un luogo simile, disprezzavo il modo in cui venivano usati quei poveri schiavi: brutalizzati, costretti a lottare tra loro per salvare la propria vita, per quanto misera. 

Quel tipo di intrattenimento andava per la maggiore da secoli, incitando la parte più bestiale e sanguinaria dell’essere umano. Eppure, nonostante il ribrezzo forse a causa di questo ne ero attratta: assistevo ai massacri meditando sulla condizione umana, sui vizi che condannavano gli uomini alla sofferenza, alla mancanza di gentilezza... 

Vedendo sui volti dei vincitori eccitazione, frenesia, baldanza, rivalsa e paura, sconfitta, umiliazione in quello dei perdenti, in un istante afferravi il peso dell’assurdità della vita. Esattamente sprofondando al centro del suo squallore.

Quando arrivavo al limite delle pressioni, e le preoccupazioni mi soverchiavano, lo spettacolo della morte era come una ferita da cui fluisse fuori il sangue.

L’emorragia nascosta poteva allora guarire, perché io ero viva ed ero libera. Avevo dimostrato a me stessa di essere abbastanza forte da non distogliere lo sguardo davanti al dolore.

Una parte di me, inoltre, si chiedeva sempre se un giorno sarei morta in quel modo: trafitta, in preda al dolore, sola; sconfitta dalla mano di un nemico più forte e astuto di me. Era una disgustosa medicina per la paura: il chiasso frastornante, l’aria pregna della puzza di sangue, sudore e piscio... l’odore della disperazione.

 

ꕥꕥꕥ

 

I contendenti sul campo erano stanchi e feriti: il bestione grasso avrebbe probabilmente avuto la meglio sul tizio smilzo e traballante. Non doveva essere il primo combattimento del giorno, ma era sfiancato dalle lotte precedenti. Per il biondino magro, invece, doveva essere il suo primo, vero combattimento: gli si leggeva negli occhi il terrore dell’avversario. 

Non c’era storia, i fatti mi diedero ragione. Il ragazzo morì colpito alla gola: un fiotto di sangue inzuppò il terreno polveroso, schizzando sugli stracci del vincitore, il quale incitava la folla ad acclamarlo. Poi lottò contro altri tre avversari, prima di morire per caso sotto il colpo di un avversario meno degno di lui.

Proprio quando stavo per tornare a casa, una mano callosa mi afferrò trattenendomi.

«Violet! Che sorpresa, non mi aspettavo di vederti!»

Avevo immediatamente riconosciuto l’omone: molto più alto di me, sul metro e novanta, era grosso di corporatura e muscoloso; sulla cinquantina, gli occhi nocciola piccoli ma profondi mi fissavano gioviali. Teneva i capelli, radi sulla fronte ma abbastanza lunghi sulla nuca, raccolti in tante piccole treccine. Il viso, segnato da numerose cicatrici che gli conferivano un’aria ribelle e pericolosa, era tirato in un sorriso. 

Non era un soggetto raccomandabile, ma lo conoscevo da anni ormai.

«Calis, da quanto tempo», lo salutai afferrandogli un braccio.

«Cosa ti porta da queste parti? Non ti si vedeva da un po’.»

«Avevo bisogno di pensare» dissi scrollando le spalle.

«Ah-aah, certo. Tu riesci a pensare in un posto del genere?» rise, allargando le braccia come a contenere il putiferio attorno. 

«È proprio da te scegliere un luogo pericoloso per venire a rilassarti… Auf, guardati! Come sei pallida! Non ti danno da mangiare su alla fortezza delle guardie?»

«Il cibo non manca ma quel posto fa passare la fame.»

Rise di gusto, pensando fosse uno scherzo. Con una pacca sulla spalla mi riaccomodò sugli spalti.

«Perché non ti fermi alla nostra tavola? Vasil sarà contento di ospitarti… è parecchio che non ti vede. Sai com’è, si è fatto vecchio e la compagnia femminile lo tirerebbe su.»

«Ghiaccerà l’inferno prima che Vasil si faccia mancare compagnia femminile e si deprima in un angolo», lo corressi, «grazie dell’invito, comunque, ma non so se sia il caso di accettare. Ho delle cose a cui devo pensare per il momento.»

«Ti riferisci ai volontari che devi trovare?»

Sussultai, strabuzzando lo sguardo.  «Ma come diavolo…?! La voce è arrivata fino a qui?»

«Puoi dirlo forte, bambina», ghignò sornione.

«Non so se ci sia qualcuno in città che non sappia di questa storia. La servitù parla. Dove c’è almeno un paggio o un mozzo di stalla si può star certi che le notizie viaggino veloci. Ho saputo anche dello spettacolino al Consiglio: abbiamo contatti con le guardie, quaggiù.»

«Naturalmente», sbuffai.

«Se ne parla come dell’ultima impresa di Violet, che “disarma e lega come salami i membri più importanti del Consiglio”. Che forza che sei!» esclamò, mezzo soffocato dalle risa. 

Gli ultimi colpetti di tosse misero fine alla sua ilarità.

«Da queste parti abbiamo applaudito alla tua mossa. Non amiamo molto i soldati.»

«Certo che no.»

«Ah, ma tu sei un’eccezione!», si affrettò ad aggiungere con un’altra pacca rude ma affettuosa sulla schiena. «Ora che intendi fare?» mi chiese, proseguendo il discorso con tranquillità. «Immagino che tu abbia bisogno di qualcuno.»

«Sì», sospirai. «Devo assolutamente trovare qualcuno disposto a seguirmi. Non posso farcela da sola.»

«Tutti i soldati hanno… ripiegato

Annuii. 

«Ci sono diversi motivi, ma ultimamente mi stanno boicottando: non posso alleviare la paura di alcuni soldati sulle possibili ritorsioni perché non ho abbastanza influenza per proteggerli tutti.»

«È un gran brutto problema. Non sai ancora cosa fare?»

«Ci stavo pensando, per questo sono qui.»

«Pensi di comprare uno schiavo, o vuoi affrancarne uno?»

Riflettei su quella proposta, valutandola attentamente. Non era un’opzione che avevo considerato all’inizio, ma perché non farlo se era fattibile?

«Sarebbe un’idea, sì.»

Calis si grattò la crespa barba grigia. 

«Ti servono degli uomini molto forti», borbottò, «che sappiano combattere e che abbiano disciplina… purtroppo la maggior parte degli schiavi che si trovano qui non vanno bene, sono ragazzetti spauriti che non hanno mai visto una lama in vita loro.»

«Dunque, quello che cerchi è un campione» annunciò. «Purtroppo sono molto quotati. Ti permettono di vincere le scommesse, non troveresti nessuno disposto a venderti il proprio, a meno che non si tratti di una somma esorbitante.»

L’arena del Surdesangr era governata da un gruppo di uomini noti col nome di Signori del Sangue: arricchitisi grazie al commercio di schiavi, i loro guadagni erano incrementati dalle scommesse organizzate nelle arene. Ciascuno possedeva uno o più Campioni, ovvero schiavi che si erano distinti per la loro forza e che erano sopravvissuti più a lungo ai giochi.

In genere, i Campioni più forti e fortunati sopravvivevano qualche anno. Fino a quel momento, i Signori del Sangue provvedevano a nutrirli e armarli meglio degli altri. 

Gli incontri tra Campioni erano diversi da quelli a cui avevo assistito quel pomeriggio: non carneficine gratuite ma incontri tra guerrieri in voga, seguiti e amati dalle folle.

«Non mi preoccupano i soldi, ma vorrei prima vedere la merce. Mi consigli qualcuno in particolare?»

Calis sbuffò, grattandosi la barba, e scrollò le spalle. 

«I più quotati al momento sono Geoffrey, il Toro e il Cavaliere. Ma il Toro è un po’ stupido, tutta forza bruta e poco cervello, non ti servirebbe che a farti tagliare la gola nel sonno: non è un tipo leale.»

«Come lo tiene sotto controllo il suo Signore?»

«Col Giuramento di Sangue, in che altro modo sennò?»

«Dunque il suo Signore è Drogart.» 

«Esatto. È l’unico che possa vincolare uno schiavo col sangue, qui al Surdesangr

Il Giuramento di Sangue era uno dei patti magici più antichi e vincolanti, donato dagli Dei agli uomini: solo chi era dotato di sufficiente potere riusciva a legare un uomo a sé tramite di esso.

Ma le antiche arti era quasi del tutto scomparse in questa parte del mondo: rimanevano praticabili soltanto alcune forme di esse. Dunque un simile patto costituiva qualcosa di eccezionale. Non capitava spesso, infatti, che la magia latente fosse sufficiente per forgiare il legame, il quale richiedeva un rito complesso sotto diversi punti di vista.

Lo scopo era di legare il destino e la vita di una persona a quella di un’altra. Una volta stipulato il contratto magico, vi erano ben poche cose in grado di romperlo: una di queste era l’interferenza sul vincolo di una terza forza più potente.

Essendo già raro qualcuno potente abbastanza da stringere un Giuramento di Sangue, seguiva che fosse quasi impossibile incontrare qualcuno capace di soverchiare un simile legame.

Purtroppo per Drogart io ero quel “quasi impossibile” che avrebbe potuto spezzare il suo incantesimo, se solo avessi voluto.

Questo era uno dei miei segreti.

«Quando potrò vedere combattere i Campioni?»

Calis, che nel frattempo era tornato a interessarsi agli scontri nell’arena, rispose: «Presto. Sei fortunata. Sono qua perché oggi combatteranno tutti».

«Solo quattro campioni?» chiesi, accigliandomi.

«Vasil non ha nessuno che possa competere» grugnì, palesemente scontento.

«Gli affari sono a una battuta di arresto?»

«Possiamo dire così. Il problema è che ci mancano i Campioni. Pochi tengono testa al Toro e nessuno batte il Cavaliere. Per ora scommettiamo sulle gare minori, ma non è sufficiente.»

«Mi spiace sentirlo.»

Scrollò le enormi spalle, minimizzando.

Il combattimento, più in basso, volgeva al termine: gli schiavi erano ammaccati, ma nessuno aveva perso la vita; uno si era arreso in tempo.

Alla conclusione dell’ennesimo scontro, seguì un momento di pausa in cui si sentì vibrare l’eccitazione: i banchi delle scommesse erano presi d’assalto dalle persone accalcate per dare la puntata; tutt’attorno enormi calici pieni di birra venivano svuotati con sorprendente velocità mentre si parlottava riguardo i Campioni che presto sarebbero scesi in campo.

Presto mi feci l’idea che il Cavaliere fosse quello che suscitava più stupore sebbene, a detta dei più, non spargesse abbastanza sangue; Il Toro doveva essere l’animale che lasciava intendere il suo soprannome: aveva fama di assalire l’avversario col peso della sua mole; su Geoffrey udii delle critiche sulla puzza eccessiva che emanava: si diceva fosse quella a stendere gli opponenti prima che la spada; del Gallo seppi che aveva guadagnato il suo soprannome chiedendo, come ricompensa per le vittorie, diverse donne da montare: si diceva avesse dato spettacolo persino sul ring, accoppiandosi con foga sul cadavere dell’uomo appena ucciso.

 

ꕥꕥꕥ

 

Un boato di ovazioni accompagnò la comparsa dei Campioni.

La folla si aprì e quattro uomini corpulenti avanzarono sul pavimento sabbioso ammiccando. 

Solo uno di loro era taciturno, l’espressione torva come se non vedesse già l’ora di finire: era biondo e di bell’aspetto da quanto riuscivo a scorgere. Le prostitute che si trovavano nell’arena, gli lanciavano sguardi bramosi e pieni di desiderio.

«Il nome di quel tipo?» chiesi a Calis, indicandogli il biondino.

«Quello è il Cavaliere. Non parla molto ma quando combatte è una vera forza», assicurò.

«Quello con la testa rasata e il cerchio sul naso è il Toro», proseguì. 

Era comico all’inverosimile la somiglianza dello schiavo alla bestia di cui portava il nome.

«Il tizio con quel ridicolo ciuffo è il Gallo.»

Notai che non era alto ma in compenso era ben piazzato: sembrava un armadio, tanto era quadrato; i capelli rossi spiccavano davanti alla faccia dove un ciuffo pronunciato gli copriva quasi metà viso.

«L’occhio coperto è cieco, una ferita da battaglia», mi spiegò Calis. «È stato fortunato a non lasciarci la pelle.»

L’ultimo rimasto, un gigante dall’espressione un po’ intontita, doveva essere Geoffrey: i denti putrefatti si notavano persino da quella distanza.

«Stanno per sorteggiare le coppie.» Anche Calis era impaziente di assistere agli incontri. Era venuto per conto di Vasil a studiare gli schiavi per individuare falle nella loro difesa e nel loro modo di combattere. Anche se non possedeva al momento un lottatore all’altezza, contava di trovarne uno quanto prima.

Prima di ogni incontro, veniva offerta la possibilità agli altri schiavi di sfidare la posizione dei compagni: in caso di sconfitta, il nuovo vincitore avrebbe ottenuto il titolo di Campione in carica, guadagnando tutti i privilegi dell’altro.

Assistetti ai combattimenti preliminari che non durarono a lungo: nessuno schiavo si erano dimostrato abbastanza forte. Ma era doveroso tentare: uno dei privilegi che si otteneva era l’affrancamento dalla schiavitù dopo un periodo di cinque anni. A patto di rimanere vivi e di vincere, si poteva riguadagnare la libertà.

Ben pochi erano mai riusciti in tale impresa, eppure era un forte richiamo: un sogno che spingeva quei miserabili a combattere per qualcosa.

I primi a fronteggiarsi furono il Toro e Geoffrey; erano entrambi imponenti anche se il secondo superava di qualche centimetro la testa rasata del Toro. 

Lo scontro durò parecchio prima che uno dei due mostrasse segni di stanchezza. 

Capii immediatamente cosa avesse voluto dire Calis riguardo al Toro: aveva modi efferati, una foga animalesca e lo sguardo omicida; era chiaro che amasse la lotta fine a se stessa, pareva godere di ogni colpo inferto. Quando riuscì a spingere l’avversario fuori dal ring, gridò con una voce tremenda, i tendini del collo tesi allo spasmo e la bava alla bocca, mentre aizzava la folla.

L’incontro successivo fu tra il Cavaliere e il Gallo: quest’ultimo sfruttava la propria mole lanciandosi in violenti attacchi che avrebbero tramortito un bue; d’altro canto, il Cavaliere traeva vantaggio dalla cecità del rivale, spostandosi sempre verso la zona cieca. Si muoveva con grazia e agilità: parve soppesare testa-rossa, poi eseguì repentine azioni di attacco, tutte mirate a precisi scopi. Riusciva a schivare i colpi senza sforzo aumentando, di secondo in secondo, il proprio vantaggio.

«Cosa sai di questo Cavaliere, Calis?» gridai vicino il suo orecchio per sovrastare il vociare della folla.

L’uomo ghignò soddisfatto, si era aspettato il mio interesse. 

Rispose: «Nessuno ne sa molto, in realtà. È arrivato in città già schiavo un paio di anni fa. Si fa notare quando maneggia la spada, è chiaro che ha una tecnica incredibile, ma lui stesso non dice dove abbia imparato. È un fottuto enigma».

«Pensi che sia pericoloso?»

Calis scrollò le spalle, meditando. «Per esserlo, lo è», rispose lentamente. «Basta guardarlo combattere: non perde mai uno scontro. Ma c’è un motivo se il suo soprannome è ‘Cavaliere’.»

«E sarebbe?»

«È fin troppo gentile. Non uccide mai il proprio avversario a meno che non sia indispensabile. Nemmeno quando è la folla a esigerlo.»

«Non uccide nessuno?», ripetei sbalordita.

«Non esattamente... ha dato la morte a chi era spacciato e sarebbe spirato dopo una lenta e dolorosa agonia. Alcuni lo chiamano addirittura “Angelo della Morte” per la pietà che mostra ai compagni.»

Quelle parole mi fecero sperare che non fosse un tipo tanto male. Forse era possibile acquistare la sua lealtà e convincerlo a battersi per me?

Senza alcuna sorpresa, fu lui ad aggiudicarsi la vittoria. 

Presi nota del fatto che non aveva inflitto gravi ferite al compagno. Nonostante questo, il Gallo, sdegnato e deluso, rifiutò la mano tesa per aiutarlo a rialzarsi; sputò sul terreno in mezzo ai grumi di sangue rappreso e, voltando la schiena al pubblico, abbandonò il campo.

Il Cavaliere sconfisse anche il Toro, successivamente.

«Che hai deciso di fare?» 

Mi voltai a fissare Calis negli occhi, le labbra tese in un sorriso complice. «Suppongo di dovermi dare da fare, mio caro amico», risposi. «Voglio quel Cavaliere tutto per me.»

«Non sarà affatto facile, Violet», mi ammonì. «Il Signore del tuo Campione è Stenton. Forse non riuscirai a strapparglielo, di sicuro non vorrà venderlo: ci fa troppi soldi al momento.»

«Da quanto tempo hai detto che è al suo servizio?»

«Almeno due anni, che io sappia. Prima però credo lo facesse gareggiare in un’altra arena, a Baia dei Mercanti. Ha portato il ragazzo qui solo da qualche mese. Ancora un paio d’anni e sarà libero, sempre che continui ad avere fortuna e non muoia.»

Fissando la gente che sfollava dagli spalti scoppiò a ridere con voce tonante. «Ah ah ah… ragazza mia, sei davvero risoluta, non è così?» 

«Ma probabilmente sei l’unica che ce la può fare. Staremo a vedere», commentò. 

Scossi la testa mentre se la rideva di gusto: era un burlone e non sarebbe mai cambiato. «Andiamo a fare visita a Vasil, dai», dissi alla fine. «Spero sarà contento di vedermi.»

«Puoi scommetterci, bambina», disse, avviandosi verso l’uscita.

Si era fatta sera, nel frattempo. Seguii Calis ripensando al passo che mi accingevo a fare. Non esisteva garanzia che avrei trovato la soluzione ai miei problemi, ma era comunque meglio di non avere alternative.

 
 

 

NOTE:
Eccoci al 5° capitolo! 
Accetto qualsiasi parere, spero sempre di migliorare.
Se ci sono degli errori perdonatemi: se ne notate alcuni, segnalatemeli pure, provvederò alla correzione! <3
Grazie a tutti quelli che seguono la mia storia! *^* Soprattutto grazie ad Aelle Amazon che ha praticamente commentato tutti i capitoli fin ora pubblicati e mi ha aiutato nella correzione di alcune frasi =D
pero che anche questo capitolo ti piaccia e soprattutto ti metta curiosità! 
Alla prossima,
Ryo13

   
 
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