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Autore: raganellabyebye    01/07/2012    1 recensioni
Il '43 e il '44 attraverso gli occhi di Maria Vargas, la piccola Città del Vaticano, costretta a tirar fuori tutta la sua forza per proteggere una sorella che ora più che mai ha bisogno di lei.
Genere: Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Red Carnations'
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Salve...
Si, lo so, sono in un ritardo infame, e non vi chiedo di scusarmi, dal momento che ho fatto ciò che mi ero ripromessa di non fare, e mi odio per questo. Posso dire che è anche colpa della storia: come avevo già detto, questo capitolo mi stava dando un sacco di rogne. Ogni volta che scrivevo, mi piantavo poco prima del finale, sicché non riuscivo a dividerlo i due capitoli (il 6 dal 7); avrei potuto evitare la divisione, ma veniva fuori una cosa troppo lunga, e non lo potevo assolutamente spezzare così alla boia. Insomma, lo lasciavo decantare dai due ai cinque giorni, poi lo riaprivo e scrivevo il finale, per poi scoprire che quello che avevo scritto in precedenza era tutto da rifare. Alla fine, mi è saltato fuori un mattone da tre capitoli! Sono riuscita, quantomeno, a individuare il 6: adesso, si tratta di rifare lo stesso lavoro con il 7 e l’8. Spero di impiegarci meno tempo.
 
Vi prego, non fatemi scrivere le avvertenze, non è proprio giornata!
 
Capitolo 6:
Preso: parte prima
 
Dopo una lotta estenuante, Francis e Arthur sono riusciti a strappare il telefono all’italiano, temendo che stesse passando informazioni al fratello. Alla fine lo hanno bloccato, facendo leva sulle braccia piegate dietro la schiena. Ora è legato a una sedia, mani e piedi: la sua bravura nella fuga è un talento universalmente riconosciuto. Il broncio è ancora più pronunciato del solito, come la sua ostilità nei loro confronti – nonostante abbiano appena firmato una tregua che l’ha tirato fuori da un mare di guai – e l’ereditaria testardaggine, concentrata pienamente nel compito di farli impazzire: qualunque cosa stesse dicendo a Maria, si era incaponito a non volerla svelare. Poco ma sicuro che non l’aveva chiamata per chiederle come stava. La conclusione più logica è che stesse passando a Maria informazioni da inviare a Feliciano, ma non possono certo precipitarsi in Vaticano e accusare la ragazzina; di cosa, poi? Tradimento? Insomma, l’unica è far parlare l’italiano, tuttavia Francis insiste a rimandare gli incentivi proposti dagli alleati per persuadere Lovino a confermare i loro sospetti, convinto che la risposta sia tutt’altra. L’inglese, nient’affatto persuaso, anche per questioni di principio (mai avrebbe dato ragione a Francis fuori da casa loro), sfoga la sua frustrazione con insulti degni del suo prigioniero, così silenzioso da destare la preoccupazione del cinese e la curiosità del russo, rimasti lì perché sorbirsi Alfred senza i suoi tutori a fargli la guardia è più di quanto possano sopportare. Siccome questi due si sono astenuti da qualsiasi tentativo di votazione e la coppia bionda si ritrovava in parità, Arthur propone di telefonare ad Alfred, occupato altrove. Il francese, insospettito, tentenna, intuendo che l’amante ha in mente qualcosa, ma in mancanza di altre soluzioni, si affida alla fissazione del figlio, per salvare lo scontroso insalamato.
“Alfred, senti, qui c’è un problema”
A parlare è Arthur, con tono calmo, ma con un sorriso davvero troppo somigliante a quello di Ian, per i gusti dell’affascinante uomo dagli occhi blu.
Sorry, but, you know, qui sono un po’ occ-  oh, fuck!”
“Al!” Ma il coretto dei genitori preoccupati/scandalizzati può limitarsi a quel piccolo grido che ha quasi sfondato il microfono della cornetta.
Ya, I’m here! Quick, please, ci stanno sparando addosso e avrei bisogno di tutte e due le mani...”
Arthur si ricompone immediatamente, mentre Francis ha bisogno di un paio di tentativi, primi di riuscire a richiudere la bocca: a certe cose non si è ancora abituato.
“Lovi ha fatto una telefonata alquanto sospetta a Maria, ed è fermamente intenzionato a non dirci di che parlavano; pensi sia lecito convincerlo con metodi più diretti?”
Francis spalanca gli occhi, inorridito: il ghigno da pirata è tornato.
Do as you wish, Iggy! Adesso vado, ho da fare, bye bye!”
L’inglese si gira, con un sorriso soddisfatto sul volto, incontrando un paio di scettici occhi blu.
“Starai scherzando, spero?”
Mentre riaggancia il telefono, risponde incurvando ulteriormente le labbra, un guizzo di luce nelle sue iridi verdi a sottolineare l’eccitazione. E’ forse proprio questo ultimo lampo ad allertare Francis
“Arthur, qualunque cosa tu abbia in mente, NO! E poi, che razza di votazione era questa?”
Lo sconcerto montante nella voce del compagno ha solo l’effetto di divertirlo ancora di più.
“L’hai sentito, no? Ha detto di-“
“Ah! Mi stai prendendo in giro!?! Se credi che qualcuno qui dentro prenda per buona questa votazione, ti sb-“
“E perché, di grazia?”
Il tono è leggero e canzonatorio.
“Perché la domanda era... interpretabile in più modi, ecco! Alfred non ha capito quello che volevi dire!”
Francis si lascia andare, non furibondo, ma decisamente irritato: non sopporta di essere trattato in questa maniera. Mentre l’altro adora prenderlo in giro a quel modo, soprattutto quando ha la possibilità di tirare avanti la pantomima e vedere il compagno affondare. Spalanca quindi gli occhi in un’espressione di sorpresa scandalizzata, quasi shoccato,
“Davveeero? E dimmi, tu come fai a sapere che le ha interpretate nel modo sbagliato?”
Appena finito di parlare, le labbra si distendono nuovamente in un sorriso sornione, alla vista della bocca dell’altro aperta, senza parole, il dito accusatorio puntato verso di lui che si ritira lentamente, sconfitto. Incrocia le braccia, fissandolo con sguardo truce, scurito, come un cielo che promette fulmini e saette.
Arthur si avvicina al San Sebastiano seduto sotto lo sguardo atterrito del francese, battendo sulla mano destra un frustino sbucato dal nulla. La somiglianza con il fratello scozzese riesce a inquietare anche Russia: Ian non è il suo rivale per il titolo “nazione più sadica dell’anno” per niente (certo, Natalya arriva regolarmente prima, ma loro due si litigano sempre il secondo posto).
“Ti do un paio d’ore per riflettere circa la tua condizione attuale. Quando tornerò qua, se non avrai cambiato idea, mi troverò costretto a convincerti con metodi che temo non saranno piacevoli... per te”.
E con un ghigno piratesco, gira sui tacchi, dirigendosi verso la porta. Con un lieve gesto della mano, fa segno agli altri di seguirlo, e l’evidente instabilità emotiva dell’inglese li spinge a obbedire, meno Russia, che vuole semplicemente una bottiglia di vodka.
Lovino sospira di sollievo, e lascia che i brividi fino ad allora trattenuti lo scuotano: si sta cagando addosso. Quello squilibrato sembra aver recuperato tutta la ferocia persa negli ultimi due secoli, e non ha bei ricordi dei suoi trattamenti. Basti dire che Antonio lo usava al posto dell’uomo nero: il bastardo d’oltremanica faceva molta più paura.
Eppure, nonostante questo, non parlerà.
 
Il pomeriggio estivo napoletano è il frutto di una qualche punizione divina, di questo è convinto. E la notte che segue quel pomeriggio non è da meno.
Il piccolo Lovino, coperto dalla sua piccola tunichetta, si rigira nel letto, inseguendo la brezza. Ogni tanto la sente, ogni tanto no. Magari dovrebbe alzarsi a spostare le tende, ma è troppo stanco per farlo, così continua a spostarsi da un lato all’altro del letto. Condannato all’insonnia, i suoi pensieri tornano al giorno appena trascorso, un altro triste capitolo della sua vita: il nonno voleva portarli a pescare. Una frase estremamente innocente, non fosse per il fatto che quel plurale si era rivelato una semplice cortesia, tanto per cambiare. Messagli la canna in mano, una volta attaccata l’esca, si era subito dedicato a Feli. Come un bambino dotato di capacità manuali innaturali per la sua età potesse essere così negato per le cose più pratiche e semplici, gli rimaneva del tutto oscuro. Come non capiva perché, a parti invertite, il nonno passava il tempo a elogiare i lavori di Feli, piuttosto che aiutare lui a disegnare decentemente. E invece no: gli dava un consiglio, un sorriso, poi via a cercare il piccolino.
Dannazione.
Dopo essersi rotolato tanto, come un fachiro incapace sui carboni ardenti, Lovino si ferma, sdraiato di schiena, le braccia e le gambe aperte a stella. La corrente si è stabilizzata, e ora si gode la frescura della notte, i capelli che si spostano lievemente, come la tende che le sue palpebre chiuse gli nascondono. Si sentirebbe forse meglio senza il magone che gli blocca la gola, o senza il pizzicore agli occhi, quello che gli viene quando sta per piangere. Tira su col naso, una, due, tre volte, tanto che inizia a non sentire più l’odore dei gelsomini. Immobile, lascia che una lacrima gli coli lungo la guancia, silenziosa.
In quell’immobilità caratteristica della notte fonda, sente un movimento. Un fruscio di vesti, seta e lino, un leggerissimo passo scalzo, poi la porta della sua camera che si schiude. Irrazionalmente, pensa che il nonno sia venuto a controllare se dorme, ma la leggerezza del passo è troppa anche per quell’uomo che, malgrado la stazza, sa muoversi come un topino che corre sulle uova.
Vorrebbe scacciare l’intruso, ma è troppo stanco per drizzarsi: aspetterà che si avvicini per urlargli contro e spaventarlo, metodo di cui conosce approfonditamente l’efficacia.
La distanza è quella giusta, quando il suono lieve di un braccialetto lo ferma: è solo un bracciale, eppure, quel suono... ha un che di particolare, di famigliare...
Prima che possa ricordare, un’ombra si frappone fra lui e la flebile luce dei bracieri fuori dalla finestra, mentre la brezza gli porta alle narici semioccluse un odore come di... non avrebbe saputo dire... come di casa: c’era l’odore di fiume, di erba fresca, di bosco, e di qualcosa di marino, ma non proprio mare... più la vegetazione della costa...
Apre gli occhi verdi, umidi e irritati, incontrando due iridi scure tempestate di luce. La mano soffice di Lavinia gli carezza una guancia, asciugandogli la lacrima con il pollice; Lovi riesce a sentire un piccolo callo, sul bordo, dato dallo stilo. Vede gli occhi di sua sorella socchiudersi, le labbra curvarsi in uno di quei suoi sempre più rari e bellissimi sorrisi. Sono così dolci da far sembrare quelli di Feli un calice di fiele.
Lei non dice nulla: si china in avanti, baciandogli la fronte e gli occhi, per poi sfregare il naso contro il suo. Si gira, prende il lenzuolo e lo copre; il bambino è ancora nell’età di chi non capisce che non si può stare in corrente quando si è sudati, ma l’affetto insito nel gesto lo spinge a non rifiutare la coperta. Con un’ultima carezza, la ragazzina si alza e se ne va, senza mai dire una parola, come a voler rispettare il silenzio della casa.
E’ sulla soglia quando il fratellino, ora sdraiato su un fianco per poterla vedere mentre si allontana, sussurra
“Roma...”
Lei si volta, il viso addolcito da una lieve curva delle labbra; qualcosa, nel suo volto, lo incita a continuare
“Grazie.”
Lei risponde socchiudendo gli occhi, poi esce. La porta non si è ancora richiusa del tutto quando il bambino borbotta quello che il suo orgoglio non gli permette di dire ad alta voce, alla luce del sole, quando sembra che nulla si possa nascondere
“Ti voglio bene.”
I suoi occhi sono bassi, ma quando li rialza, attraverso il quasi inesistente spiraglio della porta, coglie uno sbrilluccichio dorato, accompagnato da una risposta così lieve da potersi scambiare per un suono creato dal vento
“Anche io ti voglio bene, Lovi.”
L’ultima cosa che riesce a pensare prima di addormentarsi, è che gli è sembrato di sentire un sorriso, nella sua voce.
 
L’Urbe è prossima a cadere. E non importa quanto scalci, quanto si dimeni, quanto gridi. Lei cadrà, e lui non può fare nulla.
Bisogno di aiuto? Io? Ma fammi il favore... non ho bisogno di eroi, Lovi; solo di un buon bicchiere di vino.
Gli aveva detto, il lungo bocchino fra le dita, il fumo che usciva leggero dalle labbra semiaperte tinte di rosso, brillanti come una ciliegia bagnata. Lei, che si era sempre salvata da sola, sbucando dalle macerie, sporca e lacera, stanca; per poi riprendere in mano i cocci e ricostruire tutto d’accapo.
Sente gli occhi che gli bruciano, una lacrima colargli lungo la guancia, ma Lavinia non è lì per asciugargliela. Ha promesso loro che sarebbe andato a prenderle, che avrebbe convinto Feli ad arrendersi, ed eccolo qua immobilizzato alla sedia.
Dannazione.
 
 
Perché non dice semplicemente che si tratta di Roma? Cosa lo trattiene? Ah, se vi chiedete perché non ha mentito è semplicemente perché non gli è venuto in mente niente sul momento, e adesso può solo fare lo stoico e sperare che finiscano. Capirete meglio nelle seconda parte!
byebye
 
  
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