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Autore: Sphaira    01/07/2012    1 recensioni
[Ao Oni]
Iniziò il gioco del mostro.
Iniziò la sfida a sopravvivere.
Iniziò un Inferno da cui non tutti sarebbero usciti incolumi.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Takeshi

La stanza dove mi ero rifugiato era buia e fredda. Stavo rannicchiato in quello che credevo fosse uno dei quattro angoli. Mi tenevo strette le gambe al petto e tenevo chiusi gli occhi per non vedere, e pensavo a quello che avrei dovuto fare il giorno dopo, di quello che avrei dovuto raccontare a scuola sulla villa – magari avrei potuto dire di aver fatto qualcosa di diverso dallo stare rintanato in un cantuccio, qualcosa di eroico e fico per far colpo su qualche ragazza, – e che tra non molto sarei scappato di lì insieme agli altri.
Dopo che Hiroshi mi aveva scovato nel mio primo nascondiglio a tremare, non avevo visto più nessuno, in verità. Speravo che stessero tutti bene, ma continuavo ad avere una bruttissima sensazione e un pressante senso di colpa per via della mia proposta di venire ad esplorare quel luogo maledetto. Ma evitavo di pensarci. Sì, era tutta colpa mia, ma ancora c’era speranza, bastava aspettare.
Aspettare.
Con un leggero “tic” di un accendino, non sapevo dire quanto tempo dopo l’essermi accucciato lì, la luce di una candela mi costrinse ad aprire gli occhi, e sobbalzai. Mi guardai intorno; la stanza era piccola, col muro violaceo e il pavimento bordeaux scuro, entrambi a tinta unita. Ero vicino ad un busto di una statua e ad un mobile, e trasalii di nuovo realizzando di aver solo creduto di aver trovato il muro. Ero quasi al centro della stanza, e il mostro avrebbe potuto benissimo inciamparmi vicino e trovarmi in un lampo. Per mia fortuna non era successo, ma ora qualcun altro mi aveva trovato, e la mia preoccupazione si attenuò solo quando riconobbi il ragazzo albino.
Hiroshi era vicino al tavolino con la candela, l’accendino ancora acceso in mano, probabilmente spaesato e spaventato quanto me di aver trovato qualcun altro nella stanza, ma anche sollevato, probabilmente perché anche lui doveva aver temuto di vedere il mostro. Nonostante la tensione persistente che riuscivo a percepire nei suoi movimenti meccanici e veloci, in quel suo studiare ciò che aveva intorno senza abbassare mai la guardia, sembrava particolarmente padrone di sé e sicuro di ciò che faceva. Ma il vederlo solo mi fece sprofondare nelle mie paure.
Dov’erano tutti gli altri? Lui era l’unico sopravvissuto? Takuro e Mika forse erano già stati presi, portati chissà dove, o uccisi chissà come. Una marea di terrore mi investì ponendo davanti ai miei occhi le infinite possibilità di pericoli che quel mostro poteva rappresentare per noi. Non riuscivo a distinguere bene le folli visioni che il mio cervello formulava nel rivedere i volti dei miei amici atterriti e quello del demone impassibile e immobile, che trasmetteva le sue intenzioni, emozioni, reazioni solo con lo scintillio di quegli occhi enormi e profondi come il vuoto. Sapevo solo che erano una più terribile dell’altra.
Anziché chiedere ad Hiroshi se gli altri due stavano bene, in modo da interrompere quel flusso assurdo di paranoie, l’istinto mi fece solo portare a galla il ragionamento che mi ero preoccupato di nascondermi pur di rimanere calmo. Dissi che era solo questione di tempo, e che prima o poi saremmo stati presi anche noi. E mi rinfacciai ancora la cruda verità, che era tutta colpa mia, nonostante Hiroshi cercasse inutilmente di calmarmi.
Come diavolo mi era venuto in mente di fare quella “gitarella al maniero abbandonato fuori città”? Già quando me l’avevano raccontato, sebbene non l’avessi dato a vedere, nel profondo stavo tremando di paura; eppure ero stato ugualmente tanto sfacciato da dimostrare il contrario con un’incredibile falsa sicurezza, trascinando con me i miei migliori amici, e avevo ottenuto nulla più che rischiare la mia vita e quella altrui e di vedermi miseramente strappata la stessa maschera che avevo mantenuto fino a... quella che doveva essere stata un’ora, forse. Oppure eravamo lì da più tempo? O forse da meno? Non ne avevo più idea.
Urlai, non riuscendo a sopportare tanta confusione, e fuggii senza dare modo ad Hiroshi di aiutarmi o di fermarmi.
Dopo una lunga corsa in quel labirinto, mi ritrovai in un’altra camera buia.
Doveva essere una gemella di quella in cui ero rimasto fino a poco prima; nella penombra che avvolgeva i mobili, si vedeva un armadio sulla destra, e un mobiletto su cui era poggiata una lampada. Stranamente, mancava il bulbo della lampadina. Forse si era rotto e i proprietari del maniero non l’avevano cambiata, o cose del genere… o forse l’abitante di quella struttura era solo quell’orribile demone, che non aveva bisogno di provvedere a queste cose. Credevo almeno che il motivo riguardasse questo, bene o male. Oppure chi poteva saperlo?
Evitai di nuovo l’argomento ed uscii, cercando di darmi una calmata. Dovevo cercare Hiroshi..? No, Hiroshi era abbastanza in gamba da potersela cavare da solo. Dovevo uscire di lì, e in fretta.
Mi diressi in punta di piedi e con le spalle al muro verso una stanza di fronte alla mia. A giudicare dalle rampe di scale, dovevo essere arrivato al primo piano.
Cercai di ridurre al minimo il rumore dato dallo scatto della porta quando la richiusi dietro di me, quindi studiai frettolosamente quella che sembrava una sala da pranzo. Il pavimento era danneggiato in alcuni punti, ma le sedie erano a posto e l’argenteria già preparata, come se si sarebbe dovuto svolgere un banchetto di lì a poco. Oltre l’entrata non c’era via di fuga. Vicino alla porta da cui provenivo, c’era una statua simile a quella vicino a cui stavo rannicchiato in precedenza ed un camino.
Mi abbassai a dare un’occhiata: la legna era fresca e pronta per essere bruciata, però abbandonata.
Rabbrividii per qualche motivo guardando nel buio del cunicolo, quindi decisi di affrettarmi a cambiare stanza. Salii al piano superiore, il cui corridoio portava ad un’unica stanza, in fondo. Quando un lampo illuminò per un attimo tutto l’ambiente e un tuono tremendamente vicino squarciò il silenzio, sentii il cuore battere forte in petto, costringendomi a dover trattenere un gemito di terrore. Ripresi fiato cercando di tranquillizzarmi; quando più o meno mi fui ristabilito, entrai con cautela nella stanza, controllando prima che non ci fosse nessuno all’interno, poi aprendo la porta e richiudendola dietro di me, in silenzio come già avevo fatto molte volte.
Non riuscivo a capire il ruolo di quella stanza nella casa. C’era una sorta di… cassapanca o tavolo quasi davanti all’entrata. Sul muro più sporgente a sinistra, una sorta di quadro, un quadro bianco e vuoto, poi due rientranze, una delle quali aveva un brutto buco nel pavimento tappato con una cassa. L’armadio a cui portava era vuoto, mentre dall’altro lato non c’era nulla.
Sconcertato da quel vuoto, decisi di tornare indietro, ma quando sentii qualcosa rompersi in lontananza sussultai l’ennesima volta e mi richiusi nella sala da pranzo. Una visione sconcertante apparve ai miei occhi, che oramai erano annebbiati dal mio stato di quasi-follia dovuto al panico represso, quindi mi avvicinai ancora al camino.
Adesso era acceso, e al suo interno giaceva il corpicino di una bambola di legno semplice, che lentamente stava andando incontro alla rovina e al diventare solo un mucchietto di cenere. Lo interpretai come un avvertimento del mostro. Qualcosa del tipo: “verrai bruciato vivo”, oppure prendendo il fuoco come metafora, “brucerai all’Inferno”, insomma, detto in parole povere, “morirai”. Ora come ora posso dire che o avevo molta fantasia, o dovevo veramente aver oltrepassato il limite di sopportazione di quella situazione.
Non so come riuscii a trattenere un secondo urlo. Scappai ancora. Corsi giù per le scale, e optai per seguire la direzione della porta che avevo più o meno davanti piuttosto che seguire il corridoio che portava verso un’altra ramificazione. Troppo labirintico; i corridoi non mi piacevano, e il mio istinto lo sapeva.
Un’altra ondata di sgomento mi invase nel vedere la statua a cui ero appoggiato prima rotta ai piedi di un’altra rampa di scale. Il mostro aveva capito che ero lì e aveva rotto la statua perché era arrivato tardi, conclusi inconsciamente in mente mentre continuavo a fuggire.
Seguii la strada alla mia destra, ed arrivai in una sorta di cantina, con una fila di armadi, di cui i due al muro erano spostati per mostrare una cassaforte aperta. Ancora, la mia immaginazione malata non si fermò, e immaginai il più terribile e affilato dei coltelli tirato fuori da lì per venire a uccidermi saettarmi davanti in una frazione di secondo. Inciampai e caddi.
Mi rialzai dopo qualche secondo mettendomi a gattoni, e mi sorressi con le mani riprendendo aria. Avevo il fiatone, ma quella caduta magari poteva bloccare quella perdita di controllo e farmi tornare ad uno stato più o meno di tranquillità; avrei potuto trovarmi un altro nascondiglio, stavolta più sicuro del precedente, ed aspettare con calma che Hiroshi mi trovasse. No, non ero capace di uscire da quella tortura da solo; avevo bisogno d’aiuto. Mi sentii un infimo codardo al solo ripensare di aver scelto di abbandonare qui un mio compagno, quando sapevo che lui non l’avrebbe fatto mai, qualunque fosse stata la situazione.
Strinsi i denti e battei il pugno a terra dal nervoso, ferendomi appena alle nocche, quindi imprecai. Quando ripresi a prestare attenzione a ciò che mi stava intorno, notai un’ombra stagliarsi su di me.
Deglutii. Era troppo grande per essere Hiroshi, ma… Una forma strana del cranio mi costrinse ad alzare gli occhi e a guardare nuovamente quell’orribile figura che avevo incontrato nell’ingresso in passato.
Gli occhi erano gli stessi. Il corpo, ugualmente antropomorfo ma indefinito, aveva delle forme più incurvate rispetto a quello che avevamo visto all’inizio, come se fosse stato un esemplare di donna. Ma quando vidi il capo, persi totalmente il senno. I capelli lunghi e castani dell’essere ricadevano sulle spalle, e intorno al suo collo pendeva uno straccetto rosso di quello che in precedenza doveva essere stato il suo fiocco rosso della divisa scolastica.
Mika.
Mi alzai indietreggiando di due passi alla sua vista, ma non riuscivo a muovermi di un centimetro in più, come se fossi stato paralizzato. Non potevo credere che quella fosse Mika. Che alla fine davvero lei e Takuro non ce l’avessero fatta, come avevo immaginato. Che Hiroshi fosse stato solo. La messa di fronte a quella tristissima realtà mi stava uccidendo dall’interno.
Iniziai a tremare e a emettere gemiti spezzati dal terrore e dal dolore di aver perso due dei miei amici più importanti… anche se un po’ di ottimismo, seppur disperato, tornò, e mi fece restringere il campo unicamente a Mika, di cui avevo la certezza che fosse persa per sempre. Lei si avvicinò, con passi lenti e pesanti. Con una mano mi toccò il collo e lo strinse, come se avesse voluto strozzarmi, ma non abbastanza da soffocarmi seriamente. Mi dimenai, ma la sua presa era salda e anomala per una ragazza. Non era rimasta traccia della Mika che conoscevo. I suoi occhi neri e inanimati erano fissi nei miei, sgranati a tal punto da farmi male, e quella sua espressione immobile con quella specie di sorriso demoniaco mi pietrificava nel profondo. Sentivo un dolore strano al collo, come quando le ventose di una medusa si attaccano per iniettare il loro veleno, però non era bruciante né davvero penoso come credevo. In un batter d’occhio, all’improvviso fui lasciato, e stavolta fu lei ad indietreggiare. Mi guardai intorno: ero in un’altra stanza dal pavimento bordeaux e le pareti bluastre, ma quando tornai a guardare la sua figura, Mika non c’era più. C’era solo una sedia, e più su rispetto a me, una raccapricciante, cupa, tetra corda appesa al soffitto, già legata in un cappio. Trattenni il fiato per un tempo che mi sembrò infinito. Voleva forse che mi uccidessi da solo per risparmiarsi la pena? No, sicuramente no, che cosa le poteva importare di me, ormai? Mika era morta. Quello era solo un mostro con i suoi capelli ed il resto del suo fiocco. Nulla di più.
Era morta.
Morta e irrecuperabile.
Già, oramai non c’era più via per tornare indietro. Alla morte non c’era rimedio. Continuai a fissare la corda e mi portai le mani al collo, dove le aveva tenute il mostro.
Era stata colpa mia, mia e di nessun altro.
Avevo trascinato i miei amici nelle fauci di un demone terribile che già aveva tirato negli Inferi la prima vittima.
Non c’è più nulla da fare, mi disse una voce nella mia testa con tono spaventoso, quindi me la tenni, sul punto di impazzire ancora una volta. Aveva ragione, non c’era più nulla da fare.
E’ colpa tua, disse ancora, e gemetti dal sentirmelo dire, come se m’avessero condannato a morte. Ed in effetti, era davvero la mia condanna a morte.
Chiedi scusa ai tuoi amici liberandoti da questa colpa.
Sussultai. Ma certo, era ovvio: ancora una via di fuga, per quanto infelice, c’era. Sorrisi insanamente fissando i dettagli del cappio, quindi salii lentamente sulla sedia.
Erano le mie scuse ai miei amici per averli portati in quel posto. Come Mika, anch’io avrei terminato il mio esistere lì.
Chiesi scusa mentalmente alla ragazza, e di perdonarmi mentre infilavo la testa nel cappio, fissando il pavimento lontano da me. Chiesi scusa a Takuro, che era sparito, o che almeno non avevo visto. Chiesi scusa a Hiroshi per averlo costretto a dover trovare la via di fuga anche per me fino a quel momento, e per aver pensato di abbandonarlo.
Ridendo, con i piedi feci ribaltare la sedia alla mia sinistra, e penzolai un po’ dal soffitto sentendomi mancare l’aria.
Con le lacrime agli occhi per lo sforzo di fissare così intensamente ciò che mi circondava, per il bruciore che ora ricopriva quel dolore sordo del tocco di Mika, chiesi scusa anche ai miei genitori e parenti, agli insegnanti, agli altri conoscenti a scuola, anche a chi non conoscevo, come un pazzo disperato in piena regola. Mi ritrovai ad urlare scuse con l’ultimo respiro che riuscii a prendere, soffocato dalla corda, dicendo con voce strozzata qualcosa che non riuscii a sentire nemmeno, tanto che stavo farneticando. La mancanza d’aria iniziava a farsi sentire, e percepii la coscienza scivolare via a poco a poco. Continuavo a fissare avanti a me anche se non ero quasi più cosciente, ma in qualche modo, non ne volevo sapere di morire. Cominciai a chiedermi il perché dopo una trentina di secondi di sofferenza, senza aria, ma poi vidi Hiroshi correre ai miei piedi, scuotermi, chiamarmi. Non risposi e lo ignorai, continuando a farmi domande. Allora lui, con mani tremanti, s’allontanò, e tirò fuori la testa di una bambola simile a quella che avevo visto bruciare nel camino. Sentii una lacrima di sangue sgorgarmi dall’occhio destro e rigarmi una guancia per via dello sforzo, ma continuavo a non sentire dolore, come se fossi stato sotto l’effetto di chissà quale sostanza. Era stato lui a bruciarla? Era lui il mostro?
O semplicemente avevo frainteso tutto ed ero impazzito per niente?
No, dire “per niente” era assurdo, avevo incontrato il mostro di Mika. Avevo tutte le ragioni per impazzire, anche se forse il primo movente era stato per ragioni infondate.
Qualcosa scattando mi riportò alla realtà: era il quadretto dove aveva incastrato la testa in quel momento di distrazione, che aveva scoperto un’altra cassaforte, simile a quella aperta in quella sorta di cantina dove avevo visto Mika.
Lo vidi mettere un codice con decisione, senza esitare, come se già lo sapesse. Come diavolo aveva fatto? Iniziavo a credere davvero che in realtà era lui il mostro, che si era nascosto dietro la mia proposta di andare alla villa per attirarci tutti qui ed ucciderci ad uno ad uno, che era un traditore. L’ira cominciò a bruciarmi lo stomaco.
Prese una chiave, e mentre era di fronte alla porta si voltò di nuovo verso di me, sobbalzando con fare innocente e puramente sorpreso. Stupido attore.
Ero caduto al suolo, e la corda si era allentata, ma potendo recitare anch’io a fare il morto rimasi inerme e ancora con lo sguardo vuoto che avevo mantenuto fino ad allora. Ancora non respiravo. Mi ero quasi abituato a quella assurda anomalia, sebbene mi desse un fastidio inammissibile.
Lo prenderò.
La voce sibilò ancora nelle mie orecchie, rimbombandomi stavolta amica nella mia testa, mentre mi alzavo e cominciavo a diventare blu. Mi guardai le mani: non erano più le stesse, e la corda all’ingrandirsi del mio collo si spezzò. I vestiti si strapparono, non potendo più contenere il mio corpo dalle forme imprecise e piccole rispetto alla testa, che ora doveva essere grossa e deformata come quella di Mika.
Era come se fossi morto anch’io, ma no: ero dalla parte del giusto. Almeno credevo di esserlo.
Ti prenderò, pensai all’unisono con la voce, rivedendo davanti ai miei occhi l’immagine recente del volto di Hiroshi che mi fissava dal basso.
Senza che dovessi muovere il mio corpo, quello andò all’inseguimento dell’albino, che sobbalzò e riprese a scappare. Rimasi in osservazione, sperando di prenderlo e di ucciderlo. Era un traditore, non meritava ancora la vita, non meritava di poter uscire da lì a differenza nostra per poter portare altre vittime da mutare in mostri.
Era lui il colpevole.
“E’ lui il colpevole!!”, pensai ancora, ma stavolta la voce non mi affiancò. Vidi, dall’altra parte della ramificazione che riconobbi dopo qualche secondo – quella alla fine del corridoio giù dalle scale – il mostro che aveva tentato di inseguirci all’entrata. Iniziai a rendermi conto di aver sbagliato tutto, che Hiroshi era innocente e che avevo perso totalmente il controllo.
Ero stato ingannato, e Mika mi aveva trainato nello stesso oblio in cui era stata trainata lei.
Provai a riprendere possesso del mio corpo e a girarmi verso il mostro per rivoltarmi contro di lui, ma il mio corpo non mi obbedì, nonostante i numerosi tentativi. Era tutto inutile: ero stato rimpiazzato da un mostro anch’io, ed ero fuori dal gioco, diventato un semplice osservatore. Anziché espiare la mia colpa come avevo in mente di fare, mi ero solamente accollato un altro errore, quello di essermi lasciato trasportare dalla follia e di essermi fatto usare da quella mente malvagia.
Era un diavolo quello che mi aveva ucciso, e che mi trattiene tutt’ora a guardare gli scempi e gli omicidi che il mio nuovo corpo autonomo commetteva.
Da allora rimasi prigioniero della mia disperazione e della mia follia per l’eternità. Non potrò mai più scordarmi di Hiroshi che cercava di farmi riprendere, sotto di me, mentre io dondolavo dal soffitto per mezzo della corda. E senza poterne sfuggire, sarò perseguitato per sempre da quegli occhi; dai suoi, e da quelli di Mika prima di stringermi la gola.

  
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