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Autore: Pink_lemon    02/07/2012    2 recensioni
Un forte trauma colpisce Bella durante la sua vita a Phoenix. Per aiutarla, Renee la manda a vivere con suo padre a Forks. Riuscirà Bella a ritrovare la serenità e a tornare a parlare?
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più libri/film
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Salve a tutte o a nessuno !! XD okey sono in ritardo? Non so a questo punto credo di essere così in ritardo da potersi considerare anticipo… vabbé basta con le sdrammatizzazioni, io sono perennemente in ritardo e il fatto è che conciliare la scuola con questa fanfiction mi risulta molto difficile, visto inoltre il mio momentaneo blocco per il proseguimento della storia… Devo inoltre confessare che sono stata preda di un’ ispirazione improvvisa per un'altra storia di cui ho dovuto immediatamente buttare giù i primi capitoli. Comunque per non farvi attendere sempre così a lungo  forse deciderò di bloccarmi per qualche mese e scrivere più capitoli per poi pubblicarli a pause regolari… non ne sono ancora sicura vedrò come va la scrittura.  Intanto  vi passo questo capitolo più lunghetto del solito seguendo alcuni consigli a me molto graditi… spero mi lascerete  un commento anche per farmi sapere se preferite una pausa di  un tot di tempo o dei capitoli a sorpresa sparsi nel tempo come fino ad ora... vi lascio alla lettura!

 

LA  FINE DEL MONDO

 

 

Le coperte calde mi coprivano come una sorta di corazza che mi manteneva al caldo. Il tutto fu bruscamente interrotto dal suono ripetitivo della sveglia che mi riportò non proprio cosciente alla realtà. Mi guardai intorno,  ancora confusa e spaesata dal trovarmi nella mia vecchia cameretta.

Il suono della sveglia, i vestiti già  pronti appesi sulla sedia e lo zaino malamente poggiato a terra  pieno di libri: tutto mi ricordava che oggi sarebbe stato il mio primo giorno di scuola alla Forks High School . La fine del mondo, l’apocalisse e varie calamità naturali erano tutte cose che avrei sopportato maggiormente e con sano entusiasmo. Tutto  pur di evitare questo maledetto lunedì.

La notte si era trascinata in una sorta di dormiveglia, dove immagini e ricordi dalla mia vecchia scuola e dei miei vecchi “amati” compagni mi attraversavano la mente come camion e mi lasciavano tramortita nel letto. Chissà a quale nuovo scherzo mi avrebbero sottoposta i nuovi?

La mia speranza fin da quando ero piccola era sempre stata la stessa: stare sola! In fondo non chiedevo molto… Ma la gente continuava ad accanirsi contro di  me come se gli fosse stato imposto da qualcuno.

E in preda a immagini e pensieri spiacevoli mi ero rigirata nel letto tutta la notte, sperando che il sole non sorgesse più.

Ma purtroppo come tutte le mie richieste nemmeno questa fu accolta, perché sebbene qui a Forks “il sole non sorgesse”  le nuvole, come sue vicarie, lasciavano penetrare quel poco di luce che serviva alla popolazione di questo buco di città per definire il sole sorto.

Mentre mi apprestavo ad alzarmi mi accorsi di stringere qualcosa nelle mie mani, la luce era troppo poca per vedere l’oggetto ma  tastandolo meglio capì che si trattava di una fotografia, anzi “della fotografia”.

Da quando sabato pomeriggio Jacob l’aveva infilata sotto il portone dopo essersene andato, l’avevo osservata così tanto che se fosse stato possibile consumarla con lo sguardo, a quel punto l’avrei già corrosa.

Avevo tante foto  che coprivano la mia infanzia dai sei anni fino ai dieci, ma del periodo precedente non rimaneva più niente, opera di mia mamma che voleva sbarazzarsi di tutto ciò che le ricordava Charlie.

A volte, da bambina, credevo che volesse sbarazzarsi anche di me, che glielo ricordavo più di qualsiasi oggetto che avesse mai buttato, strappato o bruciato. Ma non potendo né buttarmi, né  bruciarmi né tantomeno strapparmi, aveva preferito essere sempre il più lontano possibile da casa, con orari lavorativi improponibili.

Così ogni volta che lei mi diceva che avevo gli occhi di mio padre per me equivaleva ad un modo tutto suo di scacciarmi.

perché i miei occhi erano gli occhi del suo unico amore, anche se lei cercava di nasconderlo a tutti -prima fra tutti se stessa- Reenè  aveva amato ed avrebbe sempre amato solo un uomo: mio padre.

Nella foto che stringevo in mano avevo sì e no 5 anni, ero immersa nella sabbia con affianco un bambino dalla pelle scura, che contrastava non poco dalla mia carnagione color latte… i due bambini erano alle prese con quel che sembrava un castello di sabbia, in lontananza s’intravedeva Reenè che sembrava parlare con una bellissima donna dai tratti indiani appena accennati.

Il viso della donna, che sembrava rivolto verso il mio compagno di giochi, era colmo d’amore. Vedere quella foto sul pavimento dell’ingresso aveva risvegliato in me qualcosa di sopito, sentimenti che in quel momento stentavo a credere di aver mai provato: affetto, nostalgia, addirittura compassione, non so di preciso quali di questi fosse il più corretto a definire come mi ero sentita, forse tutti o forse nessuno.

Non so spiegarmi bene nemmeno il perché di quella reazione ma il dubbio aveva continuato a tormentarmi, e come se non bastasse aggiungendo a tutto ciò un po’ di “stress da primo giorno”, tutti gli ingredienti avevano dato il via ad un pasticcio perfetto!

Con il solito mal di stomaco, ormai mio intimo amico, mi diressi verso il mio nuovo mezzo di trasporto, nonché regalo di benvenuto  del mio magnanimo padre!  “Bel tentativo Charlie. Se volevi farti perdonare per tutti questi anni di assenza avresti  dovuto puntare su una Ferrari, altro che questo”.

Ma dissi a me stessa che sarebbe potuta andarmi peggio: avrebbe potuto accompagnarmi lui a scuola.

 

***

 

La scuola non distava molto da casa, e nemmeno vi era un percorso particolarmente complesso, ma il mio “dolce paparino” aveva avuto la premura di farmi una simpatica mappa!

Arrivata al parcheggio notai con mio sommo piacere che questa era un terzo della mia precedente scuola… Ma nonostante ciò scendendo dalla macchina mi ritrovai tutti gli occhi puntati addosso. Doveva trattarsi del tipico effetto da paesello, in un posto grande non fai caso alle novità, ma evidentemente a Forks tutto poteva essere ritenuto uno svago dalla monotonia della routine.

La mia reazione fu istintiva, afferrai la borsa, e a passo troppo veloce per una persona normale, mi diressi verso l’interno della scuola, come unica meta il bagno!

Mentre camminavo un ragazzo, credo asiatico, mi si affiancò.

-ehi! Piacere…- non gli diedi tempo di finire perché accelerai se possibile ancora di più, ed in pochi secondi stava scomparendo alle mie spalle.

Girovagavo per i corridoi della scuola da ormai una decina di minuti, quasi rassegnata a non trovare il bagno, ma alla fine trovai qualcosa di meglio: lo sgabuzzino del bidello!

Dopo essermi assicurata che il corridoio fosse  libero ci entrai in modo discreto…

Era totalmente buio, ma non avevo paura, anzi, mi sentivo totalmente a mio agio… come se ne facessi completamente parte. Era strano come io, che avevo paura praticamente di tutto, non temessi una delle cose che generava le fobie più comuni.

Ma il tempo mi aveva insegnato che il buio a volte poteva essere un ottimo rifugio dove nascondere se stessi…  come un mantello che ti copre e magari a volte riesce  a salvarti.

Seduta per terra in quello sgabuzzino, dove a malapena vedevo le mie mani, lavoravo sul mio respiro, aiutandolo a tornare regolare.  Ma in quel momento La campanella squillo; a malincuore mi alzai e usci cautamente da lì.

Estrassi dalla tasca gli orari delle lezioni che “gentilmente” da bravo padre Charlie era andato a prendere a scuola - informandoli, fra l’altro, che sua figlia era “particolare”, e se pure tutte queste premure mi avevano aiutato parecchio, mi snervava  tutta questa attenzione  da parte di Charlie.  “Vuole solo essere un buon padre” mi ripetevo, “non puoi scordarti per dieci anni di avere una figlia e poi diventare il padre dell’anno" mi rispondevo maligna…

Cercando i miei orari sul foglietto mi accorsi, felicemente, che tra i vari moduli da compilare e gli orari vi era una mappa dell’istituto. Quindi seguii le indicazioni per l’aula ventidue, felice di scoprire che avrei avuto due ore di letteratura.

Arrivata davanti la porta dell’aula notai che l’insegnante stava per chiudere la porta, segno che la lezione stava cominciando, ma quando mi notò si fermò di colpo.

Dopo avermi osservato per alcuni istanti con uno sguardo freddo disse:

-Isabella Swan?-

Io mi limitai ad un debole cenno per confermarlo.

Probabilmente  oramai tutti gli insegnanti erano stati avvisati della mia particolare condizione. Infatti con mio enorme sollievo non mi venne chiesto nulla, mi accomodai in un banco in fondo all’aula e a testa bassa attesi in silenzio l’inizio della lezione.

 

***

Lo squillo della campanella decretò la fine delle lezioni, ma non per me…  la signora Bennet, una donna  sulla cinquantina, bassa e grassottella, mi aveva invitato a restare per rispondere ad un questionario.

-Voglio essere sicura del fatto che… magari ti troveresti meglio in un’altra classe, con… ragazzi come te… ragazzi particolari-

 La parola “ritardati” aleggiava nell’aria più pesante di qualsiasi cosa detta, e nel suo tono come nel suo sguardo trapelava il suo sdegno, ma mi ero abituata anche alle persone che mi ritenevano stupida. Avevo anche creduto che più la gente mi riteneva tale più sarei passata inosservata, non capendo che i miei compagni erano solo più incitati a ridere di me…

Iniziai a rispondere a quello che per l’insegnante doveva essere un test particolarmente difficile, perché quando notò la facilità con cui rispondevo aveva un’aria  molto più che stupefatta…

In fondo essendo solo cinque domande tutte inerenti alla letteratura inglese dei primi dell’ottocento non fu davvero molto difficile rispondere: per me che ero un’accanita lettrice era molto banale - come banale era il mio rifugiarmi nei libri, nel vano tentativo di scordare la mia vita.

Se me ne fosse importato qualcosa mi sarei dovuta offendere per la faccia stupita che era dipinta sulla signora Bennet… ma in fondo come darle torto? Non dovevo avere la faccia molto sveglia con l’aria perennemente stanca ed assonnata che mi accompagnava.

Era sufficiente indossare maglioni larghi e mettere su del fondotinta per coprire il mio malessere? Inutili i tentativi, non servivano quasi a nulla. Nella maggior parte dei casi passavo inosservata, scivolavo via dalle vite delle altre persone come la pioggia, ma credo che uno sguardo più attento non sarebbe stato ingannato da ciò… per fortuna ero solo pioggia, e chi si ferma ad osservare la pioggia?

Poi un'altra importante questione era quella di perdermi di continuo tra i miei pensieri. Non doveva darmi un’aria molto intelligente…

La mattinata trascorse in maniera inaspettatamente tranquilla, la simpatica idea della signora Bennet  non venne emulata da nessun altro insegnante.

L’ultima campanella, che risuonava tra le varie aule, risvegliava gli studenti come i topolini che ballavano sotto l’effetto della melodia del pifferaio… l’euforia sembrava dilagare nell’aula, tutti che, recandosi verso la mensa, radunati in gruppetti parlavano del più e del meno,  con una tale enfasi da sembrarmi  irreale.

Io radunavo le mie cose, pregustando già uno dei miei famosi “pranzi al bagno”. Sarei passata dalle macchinette nel corridoio, mi sarei rifugiata nel bagno femminile, chiudendomi in una delle toilette alla ricerca di un po’ di pace, e ci sarei  riuscita se non fosse stato per un certo Mike Newton, che mi colse totalmente alla sprovvista.

Si avvicinò, semplicemente, presentandosi e invitandomi a pranzare con lui e i suoi amici, il tutto con un goffo utilizzo del linguaggio dei segni.  Sarei scoppiata a ridergli in faccia -lui credeva di avvicinarsi con l’utilizzo di un linguaggio che io stessa conoscevo a stento- ma evitai di ridere, in fondo potevo quasi ritenerlo un gesto gentile.

Avrei comunque rifiutato molto volentieri ma non mi diede minimamente tempo per rispondergli, e poi il rispondere non era più contemplato nei miei modi di fare, e anche potendo il:  “scusa devo chiudermi in bagno a mangiare e vomitare” non sarebbe stato il massimo…

Quindi in balia di questo esaltato raggiunsi la fantomatica mensa:  notai di nuovo con piacere che, seppur strapiena, non conteneva nemmeno la metà degli studenti della mia precedente scuola.

Ma ciò non bastava a rassicurarmi dalla insolita gentilezza delle persona che sembravano essere tutte come Mike. Il tavolo dove mi aveva condotto sembrava essere al centro della sala, che se non ricordavo male era sinonimo di popolarità, infatti dopo poco mi accorsi che molti dei ragazzi indossavano il giaccone della squadra di football, lo stesso Mike la indossava (come avevo fatto a non notarlo??)

-Vi ricordate Isabella Swan? Ha frequentato l’asilo con noi- le parole uscirono dalla bocca di Mike con una tale semplicità, come se fosse la cosa più naturale al mondo ricordarsi di me.

-ah! La piccola Bella! Andavi sempre alla ricerca di formiche, come procede il tuo hobby?- disse un certo Ben, nel tentativo, lo avevo capito, di mettermi a mio agio.

Io per tutta risposta arrossii, e feci un debole cenno di  no con la testa, mentre un minuscolo sorriso percorreva le mie labbra. Tutti cercavano d’inserirmi negli argomenti , rendendomi partecipe nelle conversazioni, insomma come meglio potevano fare con una muta! Era davvero così facile stare con i miei coetanei?

-Bella ci credo che sei così magra! Se mangi solo una mela per pranzo- In realtà la mela era rimasta intatta sul mio vassoio, non credo sarei mai riuscita a mangiare con tutte quelle persone che mi guardavano… ma il fatto che qualcuno (Ben)se ne fosse accorto mi lasciò interdetta per alcuni secondi.

Mi portai le mani sulla pancia come ad indicare un piccolo malessere.

-Ansia da primo giorno?- intervenne sarcastico Mike, scossi la testa per negare, ma nel farlo notai qualcosa di particolare, anche se non so se questo aggettivo sia ideale per la situazione.

Quattro ragazzi erano appena entrati dalla porta del cortile, e il tempo si era come congelato intorno alla loro venuta. Non sembravano minimamente dei ragazzi intenti con un normale giorno scolastico, erano come usciti da un film, ma la cosa più strana fu che nessuno sembrava accorgersene a parte me, che li stavo fissando come incantata delle loro movenze così eleganti da sembrare irreali.

Una voce mi riportò alla realtà, apparteneva a Jessica (o almeno credo si chiamasse così), seduta di  fianco a me.

-ehi , lascia perdere! Quelli sono i Cullen, non perderci troppo tempo – Disse con l’aria e il tono di chi ci fosse già passata…

 

 

 

Eccomi qua … di solito non scrivo mai nel fondo della pagina , ma volevo scusarmi dell’inutilità di questo capitolo… promettendovi che a breve ci sarà il ritorno del nostro amato Edward!!  

  
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