Titolo: Meant
To Be
Pairing: Kurt/Blaine end-game
Rating: Arancione
Spoiler: (se così
si possono più chiamare ormai) fino alla 2x6,
accenni alla 2x8
Disclaimer: I personaggi e i
luoghi citati sono di proprietà della
Fox. Quello che c’è di mio è solo la
fantasia.
Nota: Questa storia
è iniziata esattamente un anno fa, il 3 luglio del
2011 ed è per questo che, a un anno di distanza, mi sono
finalmente decisa a
postare il primo capitolo. Avendola scritta prima della terza stagione
non
credo sia necessario dirvi che non ne tiene conto (a parte qualche
piccolo,
microscopico dettaglio). Quello che c’è
d’importante da dire è che questa fan
fiction inizia con il trasferimento di Kurt alla Dalton e che tiene
conto degli
eventi accaduti fino a quel momento solo in parte: Kurt e Blaine, pur
essendosi
incontrati alla Dalton, non sono mai diventato amici. Vi anticipo solo,
tanto
per rassicurarvi ;) che tutti i cambiamenti avvenuti saranno presentati
tra
questo e il prossimo capitolo.
Meant To Be
Capitolo 1: La
La prima volta che Kurt vide
la Dalton
Academy fece caso a molte cose.
La scuola era invisibile dalla
strada principale, persa nel verde
degli alberi, un aspetto che al tempo stesso lo sorprese e lo
affascinò: dava
al luogo un’atmosfera tranquilla e fresca, umida anche, come
quella di un bosco.
Il cancello nero in ferro
battuto e la targhetta d’ottone con inciso
il nome della scuola erano gli unici elementi a mostrare che oltre quel
muretto,
che sembrava non finire mai, ci fosse un posto unico e diverso da tutti
gli
altri.
La strada pavimentata che
conduceva dal cancello all’entrata della
scuola durava quasi un minuto in macchina. Lentamente le fronde si
facevano più
rade e gli alberi si distanziavano tra di loro, lasciando filtrare
ritagli di
cielo e fasci di luce, fino ad aprirsi sulla facciata della scuola. Il
viale terminava
girando intorno ad una fontana in pietra grigia dalla base circolare,
liscia e
lineare, il cui bordo si confondeva con la superficie limpida
dell’acqua.
Circondato da erba verde,
siepi curate e da alberi che andavano
perdendo le foglie e che sembravano estendersi all’infinito,
l’edificio
toglieva il fiato: alto tre piani, era stato realizzato con mattoni in
pietra
grezza e irregolare di un color marrone rossiccio - coperti sul lato
sinistro
dell’edificio da un leggero manto d’edera
rampicante; le finestre dagli infissi
chiari erano scandite, sulla facciata del pian terreno, da semicolonne
rettangolari in marmo e anche il portone principale in legno scuro era
incorniciato
dallo stesso marmo grigio; l’ampia e lunga scalinata
antecedente il portone lo
collegava, infine, al vialetto, da cui era rialzato di quasi mezzo
metro da quello
che sembrava, dall’esterno, un seminterrato.
Dall’entrata
principale era impossibile capire la forma precisa
all’edificio o dedurne l’ampiezza.
La prima volta, Kurt rimase a
fissare il paesaggio a labbra dischiuse,
lo sguardo incapace di contenere tutta quella bellezza. Non era il suo
stile,
ma gli tolse comunque il fiato.
Ora, in macchina con suo
padre, tutto ciò che vedeva era il riflesso
del cielo nuvoloso e grigio sul vetro del finestrino.
I suoi occhi si focalizzarono
sul proprio riflesso, sul viso, le
guance, il naso, la pelle pallida, poi i suoi occhi.
Fissò se stesso e
cercò di evitare l’amarezza e la delusione
riflessa.
Distolse lo sguardo e suo
padre parcheggiò la macchina di fronte
all’entrata, ignorando i parcheggi che si aprivano ai lati
del piazzale i quali,
sebbene affollati, avevano ancora dei posti liberi.
“Siamo
arrivati,” disse con lo stesso tono che usava per svegliarlo
quando Kurt era ancora bambino e si addormentava in macchina.
Entrarono e anche se era
già stato qui prima – con suo padre e senza
–
lasciò che fosse lui a far strada e guidarlo per i vari
corridoi e scale. Prima
che se ne rendesse conto, si ritrovò nell’ufficio
del preside, seduto nella
stessa poltrona dell’ultima volta. L’uomo seduto
dall’altra parte della
scrivania stava parlando con suo padre e nonostante da seduto non si
notasse,
Kurt sapeva che non era un uomo alto. Affatto. Era più basso
di lui, probabilmente
anche più basso di Rachel, ma questo non sembrava affatto
dare problemi al suo
carisma. Non era il genere di persona che indossava un sorriso dolce e
studiato
in ogni circostanza, ma piuttosto il tipo affabile, che tra strette di
mano e
pacche sulla spalla, era capace di mostrare uno sguardo gentile.
“Non si preoccupi.
Se ha dubbi telefoni pure. Lasciamo ai nostri
studenti libero uso di telefoni cellulare e computer portatili fuori
dall’orario delle lezioni. Può chiamare suo figlio
quando vuole,” disse il
signor Turner. “So di averlo già detto, ma i
finesettimana sono liberi. Gli
studenti tornano a casa spesso. Anche se vorrei ricordarvi che la
Dalton non è affatto
una scuola semplice e ogni minuto di tempo libero può
tornare utile per
studiare.”
Burt annuì
sorridendo grato. Sapeva che questo era un luogo sicuro per
Kurt. Un’ottima scuola, con un programma eccezionale,
insegnati competenti e
quello che sembrava essere un preside cui interessasse davvero il
futuro dei
propri studenti e il loro benessere. Nonostante questo, la Dalton era
lontana
da casa. Era lontana da lui. Burt sapeva di poter proteggere suo figlio
meglio
di chiunque altro, sapeva che non avrebbe affidato quel compito a
nessun altro
se le circostanze fossero state diverse,
ma l’ambiente scolastico sembrava un mondo fuori
dalla sua portata e la
Dalton sembrava la migliore soluzione. Kurt era un ragazzo intelligente
e
meritava di poter fare il suo lavoro nella stessa
tranquillità mentale che era
garantita a tutti gli altri studenti.
“Bene. Ora
suggerirei un giro dell’edificio: le classi, i laboratori,
la sala da pranzo, la libreria e l’aula magna. E ovviamente i
dormitori. Penso
che poi possa lasciarvi a disfare i bagagli. Avete portato qualcosa con
voi,
vero?” Il Sg. Turner ripose un plico di fogli; Kurt non era
certo cosa fossero,
ma immaginava avessero a che fare con il suo trasferimento.
“Sì. Non
molto. Giusto quello che entrava in macchina,” Burt
guardò
con la coda dell’occhio suo figlio che se ne stava seduto
immobile sulla
poltrona, la gamba sinistra accavallata sulla destra, le mani unite
sopra le
ginocchia. Lo sguardo fisso.
Era rimasto un po’
perplesso quando aveva visto Kurt portare con sé solo
una parte dei propri abiti, sistemandoli in un’unica valigia.
Ma poi aveva
capito che non era affatto facile decidere cosa portare - e quanto - non
sapendo con precisione lo spazio che aveva a disposizione nel
dormitorio; e lasciare indietro una parte nel suo guardaroba voleva
dire anche
- e soprattutto
– che Kurt sarebbe
tornato presto a casa. Non poteva che esserne felice.
“Bene. Allora
è meglio che ci affrettiamo. Abbiamo poco più di
un’ora
e mezza e la scuola è grande,” disse il preside
sorridendo e alzandosi dalla
propria poltrona dietro la scrivania. Burt seguì subito il
gesto e si alzò,
riabbottonandosi la giacca. Entrambi in piedi guardarono Kurt, che solo
dopo
qualche secondo si rese conto di essere osservato. Sbatté le
palpebre un paio
di volte prima di guardare in alto, prima verso suo padre e poi verso
il
preside, e infine alzarsi.
Usciti dall’ufficio
del preside, il signor Turner intavolò una
semplice conversazione sull’origine dell’edificio,
i vari architetti che
contribuirono alla sua costruzione, l’arredamento degli
interni, un’importante
statua donata da un gruppo di ex alunni.
Il continuo chiacchiericcio
del preside e la mano di suo padre che
ogni tanto gli stringeva la spalla lo tennero attento, tanto che
riuscì a
capire di trovarsi al primo piano. Il preside spiegò che
insieme alla
presidenza e alla segreteria erano collocati nella parte nord
dell’edificio
anche i vari laboratori. Nell’ala ovest e a sud si trovavano
le aule dove si
tenevano le lezioni, mentre nell’ala est del primo piano e
del piano terra si
trovava la biblioteca.
Mentre il preside si dilungava
nella descrizione delle varie sezioni
della biblioteca, Kurt si ritrovò a guardare fuori dalle
finestre che si
affacciavano dal corridoio. Quello che vide furono soltanto alberi:
alcuni dal
tronco talmente scuro da sembrare nero e le foglie di un giallo dorato,
altri
argentati già quasi completamente spogli; i più
erano dei sempreverdi dal
colore verde cupo. Alberi di diverse forme e colori, alcuni
più spogli di altri
per via dell’autunno, ma pur sempre alberi.
E monotonia.
Rientrò nella
conversazione quando il Sg. Turner menzionò le varie
scale presenti nell’edificio e la loro collocazione. Kurt
riconobbe con uno
strano brivido sulla pelle quella da cui stavano scendendo in quel
momento. Non
era la stessa che avevano usato l’ultima volta che erano
stati qui lui e suo
padre. No, era quella che Kurt si era ritrovato a scendere quasi un
mese prima,
in una scuola che non conosceva affatto, chiedendo aiuto a un ragazzo
che
sostava qualche gradino più in basso rispetto a lui e che da
allora aveva
rivisto soltanto una volta1.
“Bene. Al pian
terreno si trovano la sala da pranzo, nell’ala ovest, e
l’entrata per la biblioteca, in quella est,”
proseguì il preside facendo strada
nei corridoi deserti e silenziosi. Si fermò di fronte a una
targhetta dorata
cesellata da una scritta in corsivo e una freccia verso sinistra:
“Sala da pranzo”.
Dall’altra parte del
corridoio una targhetta identica con una freccia che puntava verso
destra riportava
la scritta “Biblioteca”.
Kurt capì di
trovarsi nel corridoio principale che attraversava tutto
l’edificio.
“Percorrendo il
corridoio verso nord troverai l’infermeria e la
caffetteria. Suppongo di averlo già detto, ma le lezioni
iniziano alle otto e
mezzo. A mezzogiorno e quaranta inizia la pausa pranzo di mezzora, poi
le
lezioni proseguono fino alle tre e trequarti,”
spiegò l’uomo tenendo le mani
unite dietro la schiena.
“Poi fino alle
diciassette ci sono le attività extrascolastiche. Ti
consiglierei di scegliere almeno un club cui unirti. Qui alla Dalton
guardiamo
molto all’interazione tra studenti,” disse questa
volta volgendosi direttamente
a Kurt che annuì semplicemente.
“Bene.
Vediamo… Cosa manca? Ah, sì, nella zona sud si
trovano le sale comuni
lasciate a disposizione dei club,” concluse il signor Turner
riprendendo a
camminare.
“Immagino che i
dormitori si trovano al secondo piano,” prese la
parola Burt seguendo l’uomo. Kurt rimase a qualche passo di
distanza, sforzandosi
ora di capire dove stessero andando. Se prima aveva cercato di prestare
attenzione, ora si guardava intorno cercando di orientarsi e di capire
se per
quel corridoio c’era già passato.
Avvicinandosi alla parte nord
dell’edificio la luce nel corridoio si
fece più intensa e quando giunsero alla fine capì
perché. Su gran parte della
parete di fondo si trovavano porte finestre che si affacciavano
sull’esterno,
dove Kurt notò delle stradicciole pavimentate che portavano
ai campi da gioco
esterni.
“Questa, infine,
è l’aula magna,” disse il preside
poggiando la mano
sulla porta di legno, con intarsi lungo i bordi a forma di grappoli
d’uva e
foglie di fico, le maniglie in ottone. Una targhetta dorata, come le
precedenti,
riportava la scritta “Aula Magna”.
“Viene usata per
feste, conferenze, assemblee e ovviamente nel giorno
dei diplomi,” disse con un sorriso. Kurt non poté
far a meno di notare come vicino
a suo padre il preside sembrasse ancora più piccolo, avvolto
in una giacca
gessata verde scuro, che faceva da completo con i pantaloni.
Rivolgendosi a suo padre, il
preside continuò a parlare. “All’esterno
abbiamo un campo da baseball, un campo da football, uno
d’atletica e uno da
tennis. Il campo da basket si trova insieme alla palestra interna nel
seminterrato della scuola. E abbiamo anche una piscina, non molto
grande, ma
sufficiente per le lezioni di nuoto.”
Il sorriso genuino del preside
si accordava perfettamente con
l’espressione sorpresa e al contempo colpita dipinta sul
volto di suo padre,
l’uno davvero orgoglioso della propria scuola,
l’altro soddisfatto di mandarci
suo figlio.
“Bene. Ora ci
dirigeremo al secondo piano, dove sono collocati i
dormitori,” disse il preside iniziando a camminare di nuovo,
rivolgendosi a
Kurt. “I dormitori sono divisi in base all’anno
accademico. Il dormitorio del
terzo anno si trova nell’ala est.”
Giunti all’ultimo
piano e attraversati un paio di corridoi Kurt
cominciò a capire la struttura della scuola che, sebbene
molto grande, era
perfettamente geometrica e regolare.
Il preside si fermò
di fronte una porta e, infilata la mano nella
tasca interna della giacca, ne estrasse una chiave e la porse a Kurt,
che la
prese e la rigirò tra le dita.
“Come tutte le
stanze qui alla Dalton, anche questa è una doppia. Il
tuo compagno di stanza sarà a lezione e probabilmente non lo
incontrerai prima
del tardo pomeriggio, ma è stato informato del tuo arrivo.
Sono sicuro che
andrete d’accordo, è un ottimo
studente,” disse il preside sorridendo
rassicurante a suo padre.
“C’è
un orario per il coprifuoco?” chiese allora l’uomo.
Burt non
poteva fare a meno di preoccuparsi per questo genere di cose: aveva
cresciuto
Kurt con il rispetto verso certe regole e temeva che agli studenti
fosse
lasciata troppa libertà senza genitori a rimetterli in riga
in una scuola così
grande.
“Certamente. Alle
dieci di sera il responsabile di dormitorio
controllerà che tutti gli studenti siano in
stanza,” rispose il preside
sorridendo ancora una volta a suo padre. Ne aveva visti tanti di
genitori
apprensivi e comprendeva perfettamente il loro atteggiamento, a maggior
ragione
quello del signor Hummel, dopo tutto quello che
suo figlio aveva dovuto subire nella sua vecchia scuola.
“Terrei a informarla
che gli studenti non sono gli unici a risiedere
nei dormitori. Oltre ai responsabili, anche il personale scolastico e
alcuni
professori hanno assegnate delle stanze all’interno di
ciascun dormitorio, in
modo da controllare che l’orario del coprifuoco sia
rispettato e che non si
faccia baldoria la notte. Gli studenti non sono mai lasciati a se
stessi, ma
sono continuamente sorvegliati,” e con un sorriso
continuò, “Ovviamente non
possiamo punire i nostri studenti se rimangono alzati per studiare o
ripassare
o finire di scrivere un saggio. La Dalton è una scuola
competitiva e
stimolante. Sta poi agli studenti decidere se passare la notte in
bianco o
riposarsi per affrontare meglio le lezioni.”
Burt sembrò
finalmente soddisfatto della risposta e rilassò la fronte
che fino a quel momento era rimasta corrucciata e solcata da rughe.
“Bene. Penso che sia
tutto. Ora vi lascerei liberi di sistemare i bagagli.
E, signor Hummel, non si faccia problemi
a chiamare. Davvero,” disse con un ultimo sguardo rivolto
all’uomo, stendendo
la mano destra.
Burt si avvicinò
con un leggero sorriso che gli tirava gli angoli
delle labbra. Gli afferrò la mano e la strinse, lasciando
poi che il preside
ripetesse il gesto con suo figlio.
“Benvenuto alla
Dalton, Kurt,” e poi si congedò, voltando
l’angolo da
cui erano venuti.
Rimasti soli lui e suo padre,
Kurt si affrettò ad aprire la porta.
Anche se all’apparenza la porta di legno sembrava pesante e
un po’ datata, i
cardini non cigolarono.
“Sembra una bella
stanza,” disse suo padre.
Kurt si concesse un momento
per guardare quella che sarebbe stata di
lì in avanti la propria camera.
La parete opposta alla porta
si apriva sull’esterno tramite una larga
finestra, per la maggior parte celata da pesanti tende blu navy. Solo
una
striscia di luce penetrava nella stanza, ma era sufficiente a
illuminarla.
Sulla parete di destra erano
posti, l’uno di fianco all’altro, due
letti singoli in legno, l’alta testata contro la parete. Ai
lati di ciascun
letto si trovavano un comodino e un piccolo comò con quattro
cassettoni,
entrambi in legno lucido.
Dai vari libri che poggiavano
in precario equilibrio sul comodino del
letto più vicino alla finestra e dai vari oggetti
presentì sul piano del comò,
Kurt capì che quello doveva essere il lato della stanza
occupato dal suo
compagno di stanza.
Al centro della parete di
sinistra, invece, erano presenti due porte di
legno chiaro. Ai lati erano collocate due scrivanie, affiancate da due
alte e
strette librerie, in legno scuro e venato.
Come per il letto, anche la
scrivania più lontana dalla porta su cui
sostava Kurt era coperta da libri, raccoglitori, fogli mezzi scritti e
da
quello che sembrava un notebook della Apple.
L’ambiente
nell’insieme non era male, ma era anni luce dal suo stile. La
sua stanza, a Lima, dalle pareti grigio Dior e la moquette color bianco
neve,
il comò in legno con la specchiera e tutti i suoi prodotti
per il viso e per il
corpo, l’armadio a muro immenso con i suoi
vestiti… Nulla poteva scostarsi di
più da quella che d’ora in poi sarebbe stata la
sua stanza: la carta da parati
blu oltremare, il parquet in legno lucido, ma consumato, il tappeto che
si
trovava tra i due letti e che Kurt non voleva
neanche iniziare a pensare che fosse un persiano.
Era sempre più
convinto che la Dalton fosse rimasta un paio d’anni
–
facciamo cinquanta? – indietro rispetto ai nuovi trend
dell’arredamento. Ma,
stranamente, riuscì a trovare piacevole quei toni scuri e
quell’uso massiccio
del legno. Confortante quasi. Davvero in sintonia col proprio umore.
Ciò non
toglieva che probabilmente dopo una settimana ne sarebbe uscito
esasperato.
“Non voglio
immaginare quale sia la retta intera per questo posto.” La
voce di suo padre, che intanto si era mosso all’interno della
stanza, lo
riportò alla realtà.
“Senti, che ne dici
se io vado a prendere le tue cose e tu intanto
cerchi di… Non so, ambientarti? Vedere dove mettere le tue
cose?”
Kurt distolse lo sguardo dal
copriletto blu e polveroso che ricopriva
il suo letto e che non lo rendeva affatto invitante e si
girò verso suo padre.
“Vengo a darti una
mano.”
“Nah, sono apposto. Non hai
portato tanto roba. Un paio di viaggi e credo di riuscire a portare
tutto,”
disse, ma il suo sguardo scese al braccio destro di suo figlio e al
tutore blu
che portava.
“Papà,
non dovresti affaticarti,” disse, ma senza fermento,
perché
sapeva già dallo sguardo avvilito di suo padre che
protestare sarebbe stato
inutile.
Quando finalmente
riuscì a risollevare lo sguardo, Burt cercò di
sorridere. “Mi dici sempre di fare più
attività fisica,” disse e uscì dalla
stanza, lasciando la porta aperta.
Kurt sospirò e
abbassò lo sguardo. Gli occhi gli caddero sul tutore
rigido che gli bloccava tutto l’avambraccio.
Risollevò immediatamente lo
sguardo, la bocca storta in un’espressione amara, e lo
fermò sulle due porte
chiuse, dirigendosi verso quella più vicina a lui. A tentoni
cercò
l’interruttore per la luce, dato che la stanza era buia e non
aveva finestre.
Quando lo trovò,
gli occorsero circa sette secondi per capire perché
ci fossero tutti quei ripiani di legno e gli sportelli e le grucce.
Era una cabina armadio. Una cabina
armadio!
Fissò con occhi
sgranati l’ambiente dalle pareti coperte da pannelli di
legno nocciola e la moquette blu al suolo. La parte destra della
stanzetta era
piena di magliette, giacche, cardigan, camicie - tante camicie, e
pantaloni.
Quella di sinistra era vuota. La parete di fondo, invece, era piena di
sportelli - che Kurt scoprì formavano una scarpiera.
Cercò di nascondere
l’entusiasmo, serrando forte le labbra, e
ripetendosi che la Dalton non doveva piacergli,
che non voleva cambiare idea e che era da superficiali farlo per una
cosa così
stupida; ma una cabina armadio era il sogno della sua vita e non poteva
impedire che una parte di lui si entusiasmasse tanto all’idea.
Con le sopracciglia
corrucciate, uscì dalla stanza e si diresse verso
l’altra, che scoprì essere un bagno. Un
bianchissimo e lucidissimo bagno, con
tanto di doccia, vasca – su cui passò lo sguardo
per ben due volte, giusto per
essere sicuro di non immaginarsela – sanitari, cesti per la
biancheria sporca e
un piano immenso con due lavandini e uno specchio, affiancato da due
armadietti.
Come al solito, solo un
armadietto era pieno di boccette e prodotti,
lasciando l’altro libero perché Kurt potesse
riporci le proprie cose.
Mentre cercava tra gli
armadietti sotto il lavello, Kurt si ritrovò a
pensare che il suo compagno di stanza dovesse essere o estremamente
maniaco
dell’ordine, o una persona davvero gentile. O perlomeno
educata. E vedendo il
disordine della scrivania, Kurt si ritrovò stranamente a
sperare che fosse
davvero per quest’ultima. Sapeva che era un comportamento da
persona civile
lasciargli libero il suo spazio, ma Kurt non era abituato ad essere
trattato
civilmente e non se lo aspettava più neanche. Ma era questo
il vanto della
Dalton, dopotutto: nessun tipo di discriminazione, nessun favoritismo,
duro
lavoro, disciplina e rispetto.
Con un’esclamazione
di vittoria, Kurt trovò lo spray per pulire le
superfici di legno e una pezza usata.
Quando Burt ritornò
in stanza con il trolley dei vestiti, il borsone
delle scarpe e uno scatolone chiuso, trovò suo figlio a
pulire una delle stanze
adiacenti alla camera.
“E questa che
sarebbe?”
Kurt smise di strofinare e si
girò di scatto verso suo padre,
sorpreso. “Papà! Mi hai spaventato,”
esclamò, una mano alzata a mezz’aria. A
parte lo spavento, il suo viso era rilassato, le labbra distese, gli
angoli quasi
incurvati in un sorriso e suo padre ne rimase piacevolmente sorpreso.
“E’ una
cabina armadio. Non è bella?” chiese, passando lo
sguardo
sulle superfici di legno appena pulite.
Burt guardò la
stanza e corrugò le sopracciglia. “Vuoi dire che
ti
cambierai i vestiti nella stessa stanza con un altro ragazzo?”
Kurt si fermò: non
ci aveva pensato. Abbassò lo sguardo, la fronte di
nuovo corrugata. Una stretta al petto che conosceva ormai molto bene
agitò il
suo umore, ma cercò di non darlo a vedere.
“Non dobbiamo
cambiarci insieme. E sarebbe stato peggio se ci fossero
stati semplicemente due armadi nell’altra stanza,”
disse. “E poi c’è sempre il
bagno. E’ nell’altra stanza.”
Suo padre annuì e
sospirò, non potendo evitare di seguire ogni
movimento del figlio con la coda dell’occhio. Sapeva che Kurt
non era contento
del suo trasferimento alla Dalton, come invece aveva sperato; Burt
stesso non
ne era entusiasta, ma sapeva di star facendo la cosa giusta per suo
figlio.
Vedere che il posto almeno un po’ gli piaceva lo sollevava
almeno in parte dal
peso che lasciarlo in quella scuola, lontano di casa, comportava.
“Ho portato su un
po’ di roba,” disse togliendosi il cappello da
baseball e strofinandosi la testa.
“Papà,
non avresti dovuto portare tutte quelle borse in una volta
sola,” disse Kurt, che nel frattempo aveva posato lo sguardo
sul mucchio di
roba che suo padre aveva già portato in camera.
“Dovresti stare
più attento alla tua salute,”
la voce gli tremò verso la fine, mentre lo
stomaco si serrava in una stretta quasi dolorosa. Un po’ era
il senso di colpa
per aver lasciato suo padre fare il viaggio da solo mentre lui se ne
stava a
pulire la sua nuova stanza, un po’ perché pensare
alla salute di suo padre lo
faceva agitare, ancor più se pensava che d’ora in
avanti non sarebbe potuto più
stare al suo fianco, controllandolo e accertandosi che stesse bene.
Inghiottendo il nodo che gli
si era formato in gola, disse con la voce
più ferma che riuscì a racimolare:
“Avanti, ti accompagno.”
Burt cercò di
spiegargli che non era un problema, visto che si era
fatto dire dove fosse l’ascensore, ma Kurt scrollò
il capo, continuando a
camminare per i corridoi silenziosi.
Lasciando che suo padre
portasse un solo scatolone per volta,
accorsero tre viaggi ai due per svuotare completamente il Van. Ora non
restava
altro se non disfare pacchi e valigie e trovare a tutto una
collocazione.
Dopo ben due ore la stanza era
tornata come quel mattino - senza più
scatoloni svuotati sparsi per terra, valigie e borsoni aperti sul letto
– con
l’aggiunta, però, delle cose che Kurt si era
portato da casa. A vedere tutto
così in ordine, si rese conto per la prima volta di quanta
poca roba si fosse
effettivamente portato, rispetto a quella che riempiva la sua stanza.
Aveva
rinunciato a molti dei propri vestiti, consapevole che a scuola ci
sarebbero
state ben poche occasioni per sfoggiarli, e così era stato
per le proprie
scarpe e per gli stivali, per i propri accessori – le miriadi
di spille e
bracciali e catenine, insieme alla selezione di cappelli, sciarpe e
guanti che
aveva pronta da luglio per quest’autunno-inverno.
L’unica cosa su cui era stato
completamente intransigente erano stati i suoi prodotti per il viso e
quelli
per il corpo ed i capelli.
La mano gentile e calda che
suo padre gli posò sulla spalla non lo
spaventò, anche se inaspettata, né lo fece
irrigidire come gli accadeva ormai
di solito con chiunque. Kurt alzò il proprio sguardo,
incontrando quello di
Burt, che era preoccupato anche se cercava di non darlo a vedere.
“Vedrai, la scuola
è bella e sono sicuro che riuscirai ad ambientarti
subito,” disse e il sorriso che rivolse a suo figlio, pieno
di affetto e
calore, era talmente sincero che Kurt si ritrovò ad
abbracciare suo padre più
velocemente di quanto si aspettasse. Burt ricambiò
l’abbraccio, stringendolo un
po’ più forte quando Kurt inspirò forte
dal naso, rilasciando un sospiro
tremulo. Passò le mani dure e callose sulla sua schiena del
figlio, cercando di
calmarlo e rassicurarlo, stando però ben attento a non
scombinargli i capelli.
Dopo qualche minuto Kurt alzò il capo e rivolse un sorriso
tremulo all’uomo.
“Mi
mancherai,” bisbigliò.
Burt alzò un angolo
della bocca, stringendo le spalle di suo figlio.
“Mi mancherai anche tu, ragazzino,” disse,
piegandosi un po’ per fissare suo
figlio dritto negli occhi. “Ma, Kurt, questa è la
decisione giusta e anche se
non la pensi così al momento, ci sarà un giorno
in cui, mettendoti nei miei
panni, capirai.”
Kurt distolse lo sguardo da
quello di suo padre, perché, veramente, non
riusciva a capire. Tutte le promesse del mondo non erano bastate per
convincere
suo padre a farlo restare a casa, vicino a lui, vicino a Carole e Finn. Non erano valse a farlo
tornare al McKinley, dove
sì, c’erano i bulli, ma dove c’erano
anche i suoi amici. Dove c’erano Tina e
Mercedes. Negargli tutto questo avrebbe dovuto farlo sentire meglio?
Perché non
era così. Perché in realtà si sentiva
sconfitto. Sentiva di aver deluso suo
padre e anche di aver perso parte della fiducia che l’uomo
aveva sempre riposto
in lui, perché non lo credeva più capace di
badare a se stesso.
Burt, vedendo
l’espressione contrita sul suo volto, lo avvolse ancora
una volta in uno stretto abbraccio. “Kurt, davvero, mi sento
molto più
tranquillo sapendoti qui al sicuro.”
E non c’era nulla
che Kurt potesse fare per cambiare questo. Suo padre
stava meglio sapendolo lontano, fuori dal suo occhio vigile, ma
credendolo al
sicuro e questa sarebbe dovuta essere la cosa più
importante. Questa era la cosa
più importante: la salute di
suo padre.
Così, con un
sospiro, Kurt scivolò dalla stretta di Burt, imponendosi
di sorridere e di sembrare sereno e se suo padre non notò
che quel sorriso non
raggiungeva i suoi occhi, o semplicemente si fece bastare lo sforzo che
ci mise,
Kurt non lo capì, perché suo padre semplicemente
gli sorrise di rimando.
Quando, inevitabilmente,
giunsero all’entrata della scuola e si
scambiarono un ultimo abbraccio, con la promessa di rivedersi quello
stesso finesettimana, Kurt
sentì un’improvvisa stretta allo
stomaco, perché suo padre sembrava davvero più
sereno e tranquillo ora,
vedendolo sistemato in quella scuola. Stringendo i denti,
cercò di non mostrare
il nodo che lentamente gli si stava formando in gola e
ricambiò con la mano il
saluto – l’ultimo – che suo padre gli
fece, prima di salire in auto e
confondersi, lentamente, tra le fronde degli alberi, fino a sparire
oltre il
cancello della Dalton.
Note: 1 ho
pensato che fosse necessario fare una nota qui
per spiegare il mio punto di vista. Nel telefilm, sempre nella puntata
2x06,
vediamo Kurt che va a spiare i Warblers e incontra Blaine sulla
scalinata, poi
Kurt che viene preso da parte da Wes, David e Blaine per parlare.
Secondo me,
Kurt va alla Dalton in due giorni diversi (infatti, indossa due outfit diversi) e così ho
scritto sopra. Il problema è
che non tutti la vedono così e perciò ho pensato
di farvi capire come ho
interpretato io il telefilm ^^
A parte questo, spero che il
capitolo vi sia piaciuto. C’ho messo
tanto impegno per metterlo giù e fino all’ultimo
sono stata indecisa se
tagliarlo o meno (sono quasi 5000 parole), ma poi ho deciso di
lasciarlo come
avevo progettato in origine. Per l’aggiornamento temo che
dovrete aspettare
fino al 17 luglio, perché, finiti gli esami, mi faccio una
settimana di
vacanza, finalmente :D
Fino ad allora,
Un bacio, Light