Ciao a tutti!!!
Allora, per prima cosa ringrazio tutti quelli che seguono la storia (che tra parentesi è ancora ben lontana dall’esser conclusa, anche perché è divisa in due parti ^__^), e in particolare Jame.
Come al solito, sono un po’ di fretta, e quindi vi lascio alla lettura del prossimo capitolo. Ancora una volta, Alessandra e Sesshomaru non ci saranno, anche se, in verità, l’ultimo paragrafo riguarda il nostro bel demone da piccolo. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Buona lettura!!!
§§ questo segno indica un ricordo, aprendolo e chiudendolo
CAPITOLO 28
ALLEATI
Betulla.
Il vento portava con sé l’odore
delicato della betulla. E un soffuso profumo di fiori. Anzi, di un fiore.
Bello. Dalle sfumature incantevoli. Ma che non fiorisce certo in inverno.
L’iris è un fiore del sole, non del gelo.
Quel profumo…Era lei. Ne era
sicuro. Come era altrettanto certo di non volerla vedere. Di non volerle far
del male. Maledizione! Ma perché doveva essere così testarda? Non riusciva a
capire che lo faceva per lei? Non era sicuro di aver un futuro. Un presente sì,
con uno scopo ben delineato nella sua mente. Ma non un futuro. Un avvenire. E
con queste premesse, non se la sentiva di impegnarsi con lei. Di illuderla e
poi deluderla. Di farla aspettare. Inutilmente. Perché lui non sarebbe tornato.
Koga sorrise. Amaramente.
Testarda. Testarda. Ma anche infinitamente dolce. Lo ricordava benissimo. Due
occhi sognanti. Due gemme in cui la determinazione si fonde con la
fanciullezza. Sotto certi aspetti, era ancora una bambina. La bambina che aveva
salvato. La bimba cui aveva fatto una promessa impossibile. La bimba di un
ricordo smarrito nel tempo.
Si decise ad abbassare finalmente
lo sguardo. Eccola lì, la bambina impaurita della sua mente. Una ragazza, bella
e fiera. Si era materializzata d’improvviso fra loro, mentre stavano riposando.
Avvolta da piccole foglie verdi. Avvolta dal profumo dei boschi. L’youkai
l’aveva ignorata. Era rimasto immobile, seduto sull’albero a fissare
l’orizzonte bianco. L’aveva ignorata. Volutamente. Con la speranza che si
stancasse di aspettare e se ne andasse.
Non aveva voglia di sentire di
nuovo proposte di matrimonio. Obblighi da assolvere. Non aveva voglia di
sentire la sua voce parlare e ridere. Non voleva star male. Di nuovo. E invece,
la ragazza era ancora là, e il suono della sua voce era una melodia struggente
nelle orecchie.
Si smarrì nella sua risata. Nel
modo innocente con cui gettava indietro la testa ridendo, mentre i lunghi
capelli rossi le solleticavano il collo. Si perse nel bianco dei denti che
faceva timidamente capolino fra le labbra rosse e piccole. La bocca di una
bambolina. Bella ed innocente.
Stava semplicemente parlando con
Ginta e Hakkaku, eppure da lei emanava un fascino conturbante. Una seduzione
schiva e intrigante. Forse era solo la sua fantasia, ma
Koga ebbe il sospetto che l’essere ignorato facesse parte di un gioco strano.
Un gioco di cui solo la ragazza conosceva le regole precise, ma che aveva lo
scopo di farlo perdere. Capitolare. E se avesse continuato così, avrebbe vinto,
accidenti a lui.
Ormai, lo aveva stregato. No,
anzi. Lo aveva fatto già molto tempo prima. La prima
volta che l’aveva rivista. Ma allora non aveva voluto accettarlo. Non aveva
potuto. Aveva anche mentito, perché invece la promessa se la ricordava bene.
Ricordava quella notte di pioggia leggera, quando la luna era stata
attraversata da un arco policromo. L’aveva ricordata perfettamente, eppure le
aveva mentito. Spudoratamente.
Allora, c’era anche una scusa
pronta. Kagome. Fingere l’amore per lei. L’infatuazione terribile e la determinazione
a volerla. Mostrare rabbia per celare dispiacere. Azzuffarsi con Inuyasha per
confermare una realtà di schermo. Un’illusione.
Ora, però, non aveva neanche più
quella via di fuga. Era arrivato il tempo di crescere. E di smettere di mentire
agli altri e a se stesso. Soprattutto, a se stesso. Non aveva più nessuna
scusa, ormai. Kagome non era più la ragazza contesa; lei aveva scelto. E adesso
era al fianco di Inuyasha con piena consapevolezza. C’era per qualcosa in più
di un semplice impegno a riparare il danno fatto.
Gli metteva tristezza ed euforia
il ricordo di quei due. Li aveva sorpresi abbracciati in una capanna. E si era
divertito a vedere il loro imbarazzo, soprattutto quello dell’hanyou. Potevano
anche esser consapevoli che ragazzi in eterno non lo si
resta, ma la voglia di scherzare e provocarsi non svanisce da un momento
all’altro. E benché debilitato, Inuyasha non aveva perso l’occasione di
provocarlo, inciampando alla fine nelle sue minacce, alle allusioni innocenti e
maliziose di Koga.
E adesso, con quella ragazza
davanti agli occhi, gli tornavano alla mente le parole che l’hanyou gli aveva
detto prima che se ne andasse. Gli aveva consigliato di non scappare dai
sentimenti, perché il rischio è accorgersi troppo tardi di non aver più tempo
per viverli. Allora, aveva solo fatto un cenno di sufficienza e se ne era
andato. Per lui, era facile parlare così. Ora credeva di essere il detentore di
una verità certa; eppure non riusciva a dargli torto del tutto.
Scese dall’albero e prese la ragazza
per un braccio, trascinandola verso il boschetto. Si lasciava dietro i suoi
compagni stupidi e confusi e il suo silenzio. In quei mesi aveva riflettuto
molto. Su di lui, sul legame che aveva con Kagome e su quello con la ragazza
dietro di lui. Aveva riflettuto, e aveva preso una decisione. Ma adesso gli
sembrava così sbagliata da volerla cambiare. Subito.
“Koga?...”
Ayame si massaggiava il polso e
fissava il principe, di schiena. L’aveva portata sulle rive di un ruscello;
l’aveva lasciata andare e si fermato a qualche passo da lei. Muto. Pensieroso.
Non gli aveva ancora sentito dire una parola. Eppure sapeva che non la stava
ignorando. Sapeva che l’aveva portata lì per dirle qualcosa di importante,
lontano da orecchie indiscrete.
Se fosse stata un’altra
occasione, Ayame si sarebbe sentita morire dall’agitazione e avrebbe iniziato a
fantasticare sulle parole che il ragazzo avrebbe potuto dirle. Perché lei
voleva bene a quel principe testardo e orgoglioso. Al ragazzo che l’aveva
salvata da bambina e che la proteggeva allontanandola da sé. Dal dolore.
Fissò la sua schiena ampia,
protetta dalla corazza e accarezzata dai lunghi capelli neri. Il fisico
prestante e armonioso, indomito e selvaggio, nella muscolatura guizzante e
nelle vesti di pelliccia. Si sorprese a immaginare il profumo della sua pelle,
il calore del suo corpo. Arrossì al pensiero delle mani dell’youkai che
l’accarezzavano e del gusto delle sue labbra.
Non adesso. Non era lì per ricordagli una promessa. Non era lì per lei. C’era dell’altro.
Aveva un compito da svolgere. Doveva farsi forza e sfoggiare tutta la sua
grinta per persuaderlo. Non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscita.
“Koga”. Di nuovo, non ottenne
risposta. Prese un respiro profondo. Doveva dirglielo. Subito. Prima che il
coraggio le venisse meno. “Devi tornare con me sulla montagna. Il nonno ti deve
parlare. È importante”
Aveva parlato troppo in fretta.
Parole pronunciate veloci, con l’intonazione del comando, dell’ordine che non
ammette risposte negative. Lo vide girarsi con una luce strana negli occhi.
“Ayame…Io non posso sposarti, se
è questo il motivo della convocazione”
Gli faceva male dirlo, ma non
poteva esimersi dal farlo. Poteva anche accettare di amarla, di non riuscire a
togliersela dalla testa, ma non poteva in alcun modo legarla a sé, per poi
abbandonarla. No. L’avrebbe amata in silenzio, con gli occhi e il ricordo.
Lasciandola libera di vivere.
“No!”. La yasha scosse con forza
la testa. Possibile che dovesse sempre aver da ribattere? Possibile che pensasse
sempre ad una trappola? Non era per parlare di loro che era venuta. Era stato
solo per comunicargli la convocazione. Certo, così avrebbe anche potuto passare
un po’ di tempo con lui, ma questo era un fatto secondario. O almeno voleva
convincersi che era così.
“Possibile che tu non voglia mai
ascoltarmi? Non è per la promessa che mi hai fatto. È il nonno che mi ha detto
di chiamarti. È per via di…”. Ayame si fermò, come intimorita. Dannazione. Si
era lasciata sfuggire una parola di troppo. Forse lui
non l’aveva sentita. Ci sperò. Perché sapeva che quell’argomento gli faceva
male. Come può far male ad un demone, certo, ma sempre di dolore si tratta.
“Di…?”. Koga le
si era avvicinato. Gli era sembrato strano che non completasse la frase
e adesso, alla sua domanda, Ayame si mordicchiava un labbro, incerta se parlare
o meno. La sfiorò con una carezza, per
tranquillizzarla. Sembrava così spaventata, ma da lui non aveva nulla da
temere. Lo sapeva bene.
Un tocco leggero che la fece
rabbrividire. Koga la stava accarezzando. Piano. A darle coraggio. Qualunque
cosa avesse da dire, lui l’avrebbe ascoltata. Chiuse gli occhi. Ormai, il danno
era fatto. Avrebbe dovuto dirglielo. Anche se poi non sarebbe stata in grado di
fornirgli altre spiegazioni. Le risposte le aveva solo il nonno.
Sentì le dita dell’youkai
disegnarle il volto, sfiorarle la frangia ribelle, soffermarsi sulle labbra. Si
muovevano in modo dannatamente sensuale. Cosa diavolo gli stava prendendo?
Perché quei gesti? Koga non riusciva a smettere di accarezzarla. Facoltà
cerebrali ridotte a zero. Averla davanti a lui era una tortura incredibile.
Sapeva di essere geloso, ma non si sarebbe mai immaginato che lo sarebbe stato
anche solo del pensiero che qualcun altro avrebbe potuto avere Ayame.
…la mia Ayame…
Si piegò su di lei e le sfiorò le
labbra con un bacio. Un contatto leggero, un semplice sfiorarsi delle labbra.
Ayame tremò a quel contatto, ma non si sottrasse. Gli passò le braccia attorno
al collo e lo ricambiò, per poi nascondere il viso nell’incavo della sua
spalla.
“Chi riguarda?...”.
La sua voce roca nelle orecchie era anche più sensuale della mano che si
insinuava nei suoi capelli. Chiuse gli occhi stringendolo di più. Non sapeva la
sua reazione, ma lei era lì per sostenerlo.
“Tuo padre”
*****
Anziano.
Il patriarca era un anziano e
autoritario lupo bianco. Da giovane, era stato il vanto degli Ookami, un
condottiero fiero e invincibile, un signore giusto e un uomo molto
affascinante, anche se ormai preferiva non mostrarsi più in forma umana.
Ma nonostante il corpo un po’
scheletrico e le membra non proprio toniche, gli
occhi, sotto quelle volte sopracciglia bianche, erano vivi e guizzanti. E in
quel momento stavano scrutando il giovane principe in ginocchio davanti a lui.
Ayame era riuscita a portarlo
sulla montagna. A portarlo al suo cospetto. Ma lui si era accorto che doveva
essere successo dell’altro fra i ragazzi. Lo aveva letto nella felicità
racchiusa negli occhi della nipote. Doveva essere successo qualcosa di bello.
Di molto bello.
Koga avrebbe dovuto
spiegarglielo. Prima di andare, avrebbe dovuto rispondere ad alcune delle sue
domande. Ma in quel momento, era più importante comunicargli gli ordini e il
compito che il clan gli affidava.
“Guiderai l’esercito in
battaglia”
“No”.
Koga aveva abbassato di più la
testa, ma la risposta era stata decisa e irremovibile. Lui non aveva alcuna
intenzione di essere un generale, un comandante e di prender parte ad una
guerra. La sua guerra lui la stava già combattendo, e di interromperla non se ne
parlava proprio. Voleva Naraku, e lo avrebbe avuto. Senza possibilità di
distrazioni.
Il patriarca sospirò. Quel
ragazzo aveva davvero una cocciutaggine sorprendente. Neanche un suo ordine
accettava senza discutere. Era davvero ribelle e inconsapevole di obblighi e
compiti. Ma, in fondo, era cresciuto lontano dal centro del potere del loro
clan. Era cresciuto fra i boschi, perché l’erede del clan dei lupi doveva
essere come loro. Libero e selvaggio. Tanto solitario quanto attaccato al suo
clan e al suo benessere.
Koga aveva visto i suoi compagni
massacrati e usati sotto i suoi occhi. Era stato costretto a ucciderli di
nuovo, a macchiarsi del loro sangue. Del suo stesso sangue. Aveva visto
decimata la schiera che a lui faceva capo per discendenza diretta. Aveva visto
morire la sua famiglia.
“Ayame…Per favore, lasciaci soli”
La ragazza sussultò
impercettibilmente e fissò prima il nonno e poi il ragazzo. Koga le sorrise e
le fece un leggero cenno del capo, e la guardò andarsene. Intensamente. Poi,
concentrò di nuovo la sua attenzione sul patriarca e gli si affiancò
quando questi lo invitò a seguirlo.
“Avrai avvertito anche tu l’aura
maligna che ha spazzato la regione una settimana fa. Era una potenza smisurata,
che erano secoli che non avvertivo più”
Koga lo ascoltò attentamente,
assottigliando gli occhi azzurri. Certo che aveva avvertito quell’aura
demoniaca, in mezzo alla quale aveva sentito anche quella di Naraku. Ma non
ricordava di averla mai percepita prima. Per lui era completamente estranea.
“Koga… È a causa di quell’aura
che sono stato costretto a radunare il nostro esercito. Mi è stato chiesto
aiuto, in base ad un vecchio accordo. Ad un accordo basato su un’antica
amicizia. Non ho potuto rifiutare. Adesso, tu dovrai comandare quelle truppe”
“Non posso”. L’youkai si strinse
nelle spalle. Non riusciva a capire cosa c’entrasse suo padre in tutto quel
discorso, ma sapeva che non avrebbe mai dovuto rifiutare. E invece, lo aveva
appena fatto. Lo diseredassero pure. Non gli
importava. L’unica cosa che gli premeva era vendicare i suoi compagni.
“Devi, invece. Sei tu il nostro
ultimo erede”.
Se non lo avesse convinto,
sarebbe toccato ad Ayame prendere il suo posto a capo delle truppe. Ma per
quanto forte restava pur sempre ancora una ragazzina, inesperta di guerra perdi
più. Koga invece, almeno nei primi anni di vita, aveva ricevuto dal padre i
rudimenti base e poi aveva già fatto esperienza di comando, in modo eccellente.
“Se non accetterai, sarà Ayame a
dover assumere il comando”. Lo vide sussultare, dilatando appena gli occhi.
Anche se non lo voleva mostrare, doveva tenerci alla ragazza. E molto anche.
“Riflettici”. S’incamminò per lasciargli il tempo di pensare, ma dopo alcuni
passi si fermò. Aveva ancora una carta da giocare.
“Ah, un’ultima cosa…Da fonte
certa sappiamo che fra gli ufficiali che dovresti combattere si trova anche
colui che stai cercando”
Naraku…
Koga valutò a lungo a proposta,
soppesando ogni parola, ogni possibile conseguenza delle sue scelte. Se avesse
rifiutato, Ayame sarebbe stata costretta a esporsi, a rischiare la vita in
prima persona. E lui non lo avrebbe mai permesso. Non lo accettava. Ma,
acconsentire, significava mettersi agli ordini di un qualche spocchioso demone e
venir deriso da tutti per l’abitudine a vivere nei
boschi. Non era certo che non avrebbe risposto alle provocazioni. La vita
militare gli piaceva da piccolo, ma erano passati troppi anni perché si potesse
riabituare subito. Comunque, se c’era la possibilità di trovare Naraku, non
avrebbe lasciato nulla di intentato.
Era notte fonda
quando raggiunse il patriarca, sotto un cielo terso e accecante. Ayame
gli andò in contro e non trattenne le lacrime quando
vide la determinazione nei suoi occhi. Aveva deciso di accettare. Non aveva
neanche bisogno di dirglielo. Lo aveva capito benissimo da sola. Non era una
sciocca.
Koga le asciugò le lacrime e
l’attirò a sé, baciandola con infinita dolcezza. Non gli importava nulla del
fatto che la stesse mettendo in imbarazzo, che la stesse
baciando davanti al patriarca e che non avrebbe dovuto farlo se non fosse stato
il suo promesso. Se ne fregò di regole e convenzioni. Aveva desiderato solo che
lei non fosse triste.
“Accetto”. La strinse di più a sé,
mentre pronunciò quella parola. A darle la sua forza, e la sicurezza che
sarebbe tornato.
Il patriarca annuì, soddisfatto.
In quel momento il giovane principe somigliava tantissimo a suo padre. E
l’anziano ookami non potè impedirsi di ricordare un’altra notte di molti anni
prima. Una notte d’estate, in cui, sotto un cielo simile, il padre di Koga
aveva accettato di guidare un altro esercito in un’altra battaglia. E stringeva
fra le braccia la sua sposa, proprio come il ragazzo stava abbracciando Ayame.
Non li avrebbe separati. La
ragazza sarebbe andata con lui. Al castello non avrebbe corso nessun pericolo.
Non conosceva personalmente il nuovo signore dell’Ovest, né sapeva quanto fosse simile al padre. Ma era stato informato della sua
freddezza e dell’odio che nutriva verso tutto quello che era umano. Il
temperamento ardente di Koga aveva bisogno di un freno, altrimenti i due
principi sarebbero venuti alle mani molto in fretta. E quel freno era Ayame.
“Molto bene. Domani partirai per
l’Ovest”
“Un’ultima cosa…Con chi era stato
stretto il patto di amicizia?”
“Con tuo padre. Hidoshi.”
*****
Fredda.
La sala del consiglio era fredda
e buia. Solo poche candele spandevano intorno una luce
tenue e soffusa. Regalavano a quell’ambiente un’aria raccolta. Un’atmosfera che
invogliava ai ricordi. Alla malinconia.
Erano duecento anni che non
sedeva più a quel tavolo. Un unico pezzo, ricavato dal tronco di un albero
secolare. Piallato e cerato, fino a renderlo lucido e spendente. Scavato al
centro, per potervi incastonare le tessere che componevano l’emblema della
casata. La testa di un cane intrecciata ad uno
spicchio di luna.
Sfiorò il legno con la mano
vecchia e ruvida. Nonostante fosse sempre tenuto lucido, sotto le dita
avvertiva le tacche provocate nel tempo dal battere dei pugni coperti di
metallo sulla sua superficie. Erano quasi invisibili, a occhio nudo, tranne
una. A capotavola. Dove un tempo sedeva il suo vecchio amico.
C’era un piccolo avvallamento
sulla destra di quel posta. Gli sembrava di risentire
la voce adirata di Inutaisho e il rumore secco del suo pugno che si abbatteva
sul tavolo. Per un attimo, quel suono era rimbombato per tutta la stanza e
aveva anche temuto che il tavolo cedesse sotto la forza di quell’urto. Invece,
aveva retto, ma quella tacca profonda non era stata evitabile.
Un tempo, sedeva alla destra del
suo signore. Davanti a lui invece c’era Hidoshi. Chissà adesso quale sarebbe
stato il suo posto, sempre che lo avessero richiamato per farlo restare lì, per
farlo sedere ancora a quel tavolo. In fondo, lui era l’ultimo rimasto della
vecchia guardia del padre di Sesshomaru. O almeno, l’ultimo che non lo avesse
abbandonato.
Con Morigawa le cose erano
degenerate all’improvviso e si era allontanato spontaneamente, prima di quella
tragica notte. L’altro…l’altro non avrebbe neanche saputo dove cercarlo. Ma il
vecchio generale era perfettamente consapevole del fatto che, nonostante la sua
età, se avesse ritenuto necessaria la sua presenza, si sarebbe presentato. E
sarebbe stato al corrente di tutto. Senza il bisogno che qualcuno gli spiegasse
nulla.
Si lasciò cadere su uno dei
preziosi cuscini disposti attorno al tavolo. Era molto stanco. Avrebbe dovuto
fare nuovamente l’abitudine a quella vita, fatta di sveglie all’alba e di nottate
insonni. Una vita in cui non è possibile distrarsi, specie sul campo. In cui
devi sospettare di tutto e di tutti. In cui sei talmente sotto pressione che
basta un nonnulla per farti perdere la pazienza. Per farti sbagliare.
Era una lezione che avevano
imparato a loro spese. Lui e Inutaisho. Arrischiando, da ragazzi, una mossa
disperata. Aveva portato la vittoria e l’elogio delle truppe, ma era costata a
lui un occhio, e al suo amico una ferita profonda alla spalla. L’unica di cui
fosse rimasta la cicatrice.
Il vecchio soldato si passò una
mano fra la chioma canuta. Era arrivato a notte inoltrata, dopo una marcia
sfibrante e lenta, imbattendosi anche in un gruppo di youkai mandati in
ricognizione e uccisi, crivellati di colpi. Non aveva mai visto uccidere in
quel modo. In tanti anni, mai visto ferite di quel
genere. Ma che l’autore di quelle stragi fosse
Morigawa era una voce che gli era giunta e che lo faceva impensierire non poco.
Aspettava. Era già da un bel po’
che aspettava. Ma il principe non era al castello in quel momento. Uscito anche
lui per una sortita notturna. Avrebbe potuto andare a
riposarsi. Ci avrebbero pensato i servi a svegliarlo al momento giusto. Ma lui
aveva rifiutato. Non si sarebbe mai coricato prima di aver reso omaggio al Principe.
Non lo aveva mai fatto e non aveva intenzione di iniziare in quel momento.
Tanto più che ne stava
approfittando per studiare le carte che aveva trovato sul tavolo e se avesse
avuto bisogno di qualcosa fuori dalla porta c’era un
attendente pronto ad eseguire qualsiasi sua richiesta. Aprì la porta della
veranda e frugò nelle ombre della notte. Se gli appartamenti del Principe non
erano stati sposati, dovevano ancora trovarsi nella torre. Quella che si
intravedeva appena, oltre l’ala centrale orizzontale del palazzo. Una delle
finestre era illuminata.
Il generale si sorprese non poco.
Visto che il Principe era fuori, le stanze avrebbero dovuto essere vuote. Ma
forse quella era la prova che le voci che aveva sentito erano veritiere. Ad
accoglierlo era venuto un piccolo kappa, diretto subordinato del Principe,e lo aveva condotto alla sala delle riunioni. Dunque, il
ragazzo non aveva ancora né una sposa né una fidanzata che assolvesse
all’incombenza di accogliere gli ospiti, anche quelli che si presentavano
nel cuore della notte.
Tuttavia, aveva anche sentito
dire che Sesshomaru era ritornato dopo una ,unga
assenza con una ragazza umana al seguito. E che fosse la sua amante, anche se
nessuno era ancora riuscito a sorprenderli in atteggiamenti intimi. Una notizia
che lo aveva fatto sorridere e ben sperare, ma che non sembrava aver trovato
forte consenso nella corte. Non se ne era stupito più di tanto. In fondo, non
avevano capito neanche Inutaisho. Perché mai avrebbero dovuto sforzarsi di
nuovo? E più facile spettegolare e condannare, che cercare di conoscere la
verità.
Lui però non era incline alle
voci di corte. Aveva deciso che avrebbe incontrato questa fantomatica ragazza,
e solo allora avrebbe espresso il suo parere. Dopo averla
conosciuto e averle parlato.
Si voltò di nuovo verso
l’interno. il silenzio che permeava ogni cosa gli
sembrava innaturale. Era abituato a ricordare quella sala piena di persone in
armi, e Inutaisho intento a controllare e amministrare tutto. Quanti anni erano
passati. Lui era invecchiato, due suoi carissimi amici erano morti, un altro
era pronto a muovere una guerra assurda, e il piccolo principe era cresciuto.
Sì. Il suo principe ormai era
diventato un uomo. Ma solo nel vederlo avrebbe saputo dire se assomigliava davvero al padre, o se la morte prematura della
madre e il senso di abbandono e rifiuto provato quando Inutaisho era morto lo
avevano cambiato davvero e nel profondo. Che non fosse più uguale a quando era il bambino che ricordava, il vecchio soldato lo
sapeva bene.
Però, sperava davvero che la
glacialità che aveva visto in lui l’ultima volta che lo aveva incontrato fosse
solo una maschera. Fosse rimovibile. Perché quel
ragazzo era l’orgoglio di suo padre, anche quando la disciplina ferrea aveva
alzato un muro fra loro. E lui sapeva che il cruccio più grande di Inutaisho
era stato quello di non riuscire più a parlare al figlio come faceva un tempo.
Quello di non riuscire a fargli comprendere tutta la soddisfazione che riceveva
da lui.
Tornò a sedersi e attese pazientemente,
cadendo in uno stato di stanca dormiveglia che gli
fece riaffiorare alla mente le immagini della fanciullezza del suo piccolo
principe.
*****
§§
Quando Sesshomaru cominciò a intuire
ciò che accadeva attorno a lui e chi fossero suo padre e sua madre aveva solo
sei anni. Ancora un bambino, ma che parlava senza incertezze e capiva anche
ragionamenti difficili. Era l’orgoglio del padre. Quando veniva a sapere che
suo padre era a palazzo, lasciva le stanze sue e della
regina e camminava fino alla stanza delle riunioni dove suo padre sedeva a
consiglio con i suoi generali. Gli sembravano tutti molto
anziani, autoritari nelle loro armature lucide, eppure avevano poco più
di duecento anni, tranne Kumamoto, che di anni ne aveva quasi
duecentocinquanta.
Quando Sesshomaru lo vedeva gli
correva incontro e cercava di mostrargli quello che aveva imparato. Il generale
allora lo ascoltava compiaciuto e gli regalava una carezza che inorgogliva il
piccolo principe. Era come un figlio per lui. Poi, da copione, Inutaisho
arrivava silenzioso alle spalle del piccolo Sesshomaru e a sorpresa se lo
issava sulle spalle, facendolo ridere. Quando era ancora un bambino, il sorriso
aveva attraversato spesso le sue labbra. Prima della morte della madre, prima
dei precettori, quelle labbra sottili avevano conosciuto la spensieratezza del
sorriso.
Il legame che c’era fra di loro era incredibile. Inutaisho adorava suo figlio, e
non si vergognava di mostre anche in pubblico questo affetto. Ma era
soprattutto con i suoi amici che mostrava un carattere giocoso e ilare. Era con
i suoi amici che tornava lui stesso bambino, per poter giocare con suo figlio,
le rare volte che passava tempo con lui.
Tornava bambino, rivivendo quell’infanzia durata troppo poco. Perché era salito al
trono appena cinquantenne. Un bambino lui pure. E aveva dovuto subito
dimenticare giochi e trastulli per dedicarsi completamente al governo e alla
guerra.
Sesshomaru adorava il padre. Era
il suo modello da imitare. Il suo idolo. Lo si capiva
dal modo in cui lo osservava. Studiava i suoi atteggiamenti, il modo di muovere
le mani e di volgere intorno gli occhi, il tono e il
timbro della voce, la maniera con cui dominava i più forti e potenti demoni del
regno con la sola profondità del suo sguardo.
Si avvicinava a lui mentre presiedeva un consiglio, passo dopo passo, e
quando era più infervorato nei suoi discorsi o nelle sue discussioni, cercava
di salire sulle sue ginocchia, come se pensasse che in quel momento nessuno lo
avrebbe visto.
Solo a quel punto Inutaisho
sembrava accorgersi del figlio e lo stringeva contro il petto, senza
interrompersi, senza perdere il filo del discorso, ma vedeva bene che i suoi
amici mutavano atteggiamenti, vedeva i loro occhi fissare il bambino e le loro
espressioni cambiare in un lieve sorriso, qualunque fosse l’argomento che lui
stava trattando. E anche Kumamoto sorrideva, pensando alla risata di
Sesshomaru.
Poi, così come era venuto, il
bimbo se ne andava. A volte si ritirava nella sua camera sperando che il padre
lo raggiungesse. Altre, dopo averlo atteso a lungo, andava a sedersi su uno dei
balconi del palazzo, fissava lo sguardo all’orizzonte e restava così, muto e
immobile, ad osservare l’immensità del cielo e della terra.
Se la madre gli si avvicinava
leggera in quei momenti, vedeva negli occhi del figlio l’ambra risplendere di
scintille infuocate. Rivedeva lo sguardo del marito. Fiero e autoritario, ma
anche dolce e malinconico. Gli occhi che l’avevano fatta innamorare. Allora,
abbracciava il piccolo Sesshomaru, e lo teneva stretto a sé.
Perché sapeva che la strada di
suo figlio sarebbe stata difficile e solitaria come quella del padre. Perché
sapeva che probabilmente, col tempo, i suoi sorrisi felici si sarebbero
dileguati, e al loro posto sarebbe comparso un viso intrigante,
ma freddo. In quei momenti, sua madre sperava che lui non fosse mai
costretto a dimenticare come si fa a ridere. Che nonostante il suo nome
importante e dal sapore della morte, lui vivesse
sempre. Fino in fondo.
Alla fine, li raggiungeva anche
Inutaisho e davanti a quella scena, lo stesso pensiero gli attraversava la
mente. Prendeva in braccio il figlio e stringeva la moglie. Quella era la sua
forza. Tutta la sua forza, la sua determinazione a continuare era data da loro.
Da quelle creature che lui stringeva a sé con amore infinito. Sesshomaru gli
abbracciava il collo e si addormentava così, respirando sulla pelle del padre.
E il demone non poteva evitare di tornare indietro con la mente, ad una notte
di luna, in cui aveva stretto suo figlio per la prima volta.
§§