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Autore: Cassie chan    19/01/2007    2 recensioni
Una storia strana, una storia qualunque. Due persone diverse, ma complementari. Due sapori diversi, ma complementari. Un destino che li unisce. Due vite che li dividono… le loro… E la consapevolezza di quello che sarebbe stato e non fu più. Una storia d’amore sul senso dell’amore… esiste qualcosa di più importante? E se dalla risposta, poi, dipendesse anche tutto il resto?
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ayako, Hanamichi Sakuragi, Haruko Akagi, Kaede Rukawa, Ryota Miyagi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 8 – Something important… lately… (Ayako Kuno)

Capitolo 8 –  Something important… lately… (Ayako Kuno)

 

Il senso della vita… è una domanda da filosofi, teologi e gente troppo annoiata. Di solito, la gente la vive la vita, piuttosto che interrogarsi sul suo senso. In fondo, chi ne ha una risposta? Nessuno, e allora che chiederselo a fare? Si va avanti, salvo rapidi sprazzi di tristezza e malinconia, in cui quella domanda ritorna, piena di prepotenza. Allora, ti devi rispondere, altrimenti non vai avanti. Solo dandoti una piccola e stupida risposta, riuscirai a dimenticarti quella domanda e così riprenderai a vivere.

Me le ero fatta anch’io quella domanda.

Tantissime volte, quando la mia vita sembrava essere finita.

E non avevo trovato risposta.

Come era normale che fosse.

Poi, un giorno, a quella domanda se ne era affacciata una di risposta.

E, strano a dirsi, io non mi ero nemmeno fatta la domanda, perlomeno quella volta.

Ma arrivò lo stesso. Timida, incerta, come un’alba in un giorno pieno di nuvole, che preannunciano un temporale lontano.

Il senso della vita… siamo… noi…

Ogni persona è il senso della vita di qualcuno. Ogni persona, anche con un gesto apparentemente minuscolo, finirà per cambiare la vita di un altro. Perché, alla fine, cambiare è il senso della vita.

Con quella soluzione, tutto filava. Tutto aveva senso.

Persino… Kaede Rukawa… aveva senso nella mia vita…

Magari, è una forzatura, ma meglio cedere ad una soluzione spiccia come questa, che non trovare nulla a cui aggrapparsi e lasciarsi andare giù, in un inferno di domande che ronzano nella mente, quando si spegne la luce, e la cui risposta è così dannatamente lontana che vorresti solo smettere di pensare.

Continuai a guardare la partita tra lo Shohoku e il Ryonan, mentre Taoka accanto a me sbraitava come un ossesso contro i suoi giocatori. Per lui, non era mai abbastanza. Lo capivo. Doveva continuare a spronarli, a spingerli a giocare e a vincere. Anche se avevano battuto il Kainan, l’avversario di sempre, l’avversario di tutti. Era il rischio più grande cedere all’orgoglio, quando i giochi non erano fatti, quando si poteva ancora perdere tutto, e quando ci si lascia andare a ciò che si ha. Si sa, la molla di ogni azione umana è la nostra innata insoddisfazione; sono pochi quelli che sfuggono a questo drammatico trabocchetto, e quei pochi o sono pazzi o sono angeli.

Osservai con un sorriso Akira scartare una delle due matricole dello Shohoku, mi sa Takeichi, e segnare un altro canestro. Appena riappoggiati i piedi a terra, lui si era voltato, mi aveva guardato ed aveva sorriso. Faceva sempre così ed io, ogni volta che incontravo i suoi occhi sorridenti, dopo aver segnato, mi chiedevo che cosa pensasse in quel preciso momento. Una volta, mentre passeggiavamo, glielo avevo chiesto. Potevo avere mai una risposta normale da lui? Certamente no. Mi aveva stretto più forte la mano, mi aveva guardato, aveva sorriso come faceva sempre e aveva risposto semplicemente: “Mi viene di guardarti, di vedere la tua faccia… non lo so perchè…”, e io avevo scrollato il capo, scettica. Io non faccio mai niente senza pensare. Non che mi aspettassi una risposta diversa da lui, sapevo che avrebbe risposto così, ma mi sembrava… strano… come sempre… lui era così, Akira era così, faceva tutto perchè lo sentiva. Non pensava, sentiva. Sempre. E raramente sbagliava. O meglio, sbagliava, ma anche dal suo sbaglio, ricavava qualcosa. Insegnamenti? No, troppo semplice. Ma qualcosa sicuramente. Perché per lui sentire era vivere. Quella volta, era tornato a guardarmi, e mi aveva attirato a sé, stringendomi per la vita. Mi aveva baciato sulla tempia e mi aveva detto, ironico: “Che c’è? Vuoi che non ti guardi più?”, ed io avevo spalancato la bocca, gli avevo dato una piccola gomitata e gli avevo risposto: “Non ti azzardare neanche!”.

Un nuovo canestro. Un nuovo sguardo. Un nuovo sorriso.

Lui non pensava mai, e io pensavo troppo. Era stato questo a portarci insieme? La solita legge, vecchia come il mondo, dell’attrazione tra gli opposti? Non lo so, e non lo voglio sapere. Le mie domande, mi sono resa conto solamente adesso, sono sempre state troppo inutili, troppo futili, cose che prima sono enormi, sconfinate, infinite, nella mia mente vengono rimpicciolite delle dimensioni di una nocciola. Per quelle maledette domande, che mi faccio sempre. Adesso spesso le evito, le eludo, le aggiro, come rami d’alberi sull’asfalto di un’autostrada deserta, e ci riesco quasi sempre.

Quasi sempre…

Quasi sempre…

Sì, quasi sempre… perchè devo pensare prima di fare una cosa, specie se importante. Specie se da questa dipenderà molto di quello che ho dentro. Akira segna, e mi sorride ancora. Sono come sempre trenta millesimi di secondo, ma non ne potrei fare a meno, mi cerca e mi trova. Una sola volta non l’aveva fatto, durante la partita contro il Kainan, perchè sembrava che Danny si fosse fatto male, e mi ero quasi offesa, salvo poi sorridere di nuovo come una cretina, quando mi aveva guardato di nuovo. Stavo impazzendo… impercettibilmente il mio sguardo si fermò su Kaede Rukawa. Era immobile in mezzo al campo, non si muoveva e guardava verso di me. Ma che cavolo vuole? Mi chiesi, aggrottando le sopracciglia. Certo, che quel tipo è proprio strano, mi dissi con sincerità. Ed è proprio strano anche che io ci sia stata insieme… sembrano millenni fa… a ricordarmelo, mi fa venire la pelle d’oca. Eppure, un anno fa, stavo con lui, no? Sì, ci stavo già da un mese buono… stavo, che parola grossa… ci stavo assieme per come si può stare con uno come lui. Al buio di una camera da letto, fingendo di ignorarsi per il resto del tempo.

Ad un tratto, mentre l’azione riprende, lo vidi correre verso l’area e, mentre Akira lo scartava, dargli intenzionalmente Lo seguii, mentre riprendeva a correre, si avvicinava ad Akira, dandogli intenzionalmente una gomitata nella foga dell’azione. Akira cadde per terra, preso di sorpresa, o forse anche intenzionalmente, perchè il basket è la sola eccezione alla sua mancanza di pensieri troppo ingombranti. Cercava evidentemente di far fischiare un fallo a Rukawa. In campo, pensa sempre ed anche troppo. L’arbitrio fischiò un fallo intenzionale, mentre Rukawa abbassava il capo e sollevava la mano in segno d’assenso. Ryota corse verso di lui, rimproverandolo, mentre Akira rimaneva a terra. Mi spaventai e mi alzai di scatto dalla panchina; ebbi paura, sì, una folle paura, che mi soffocava la gola, come una nebbia scura e densa. Fui vicinissima allora… vicinissima a mettermi ad urlare, con tutta quella gente intorno, che mi guardava e che mi odiava… urlare ad Akira che lo amavo, da impazzire, come non credevo di poter mai fare. E lui sapeva che non glielo avevo detto, lo sapeva. Probabilmente gli sarebbe venuto un colpo apoplettico, se glielo avessi detto allora. Lui me lo aveva detto, anche prima che ci mettessimo assieme, scherzando, ma me lo aveva detto. Perché lo sentiva. E perchè lui raramente sbagliava. Infatti, me lo aveva ripetuto, quando c’eravamo messi assieme, tante e tante volte, l’ultima delle quali la sera prima. Ma io mi ero stata zitta, ed avevo abbassato lo sguardo. Non perchè non lo sentissi, c’erano momenti, in cui raggiungevo una consapevolezza tale da spaccarmi l’anima in mille pezzi. Ma poi c’erano altri momenti, quei maledetti attimi in cui mi ricordavo come era finita con Kaede e la mia convinzione di quei giorni di esserne innamorata. E allora stavo zitta, la paura che soffocava il mio amore. Lui, d’altro canto, non diceva niente, taceva e sorrideva come quando una cosa lo faceva stare male, ma non voleva permettersi di lasciarsi andare.

Perché il mio Akira ha sette tipi diversi di sorriso.

Uno, quando è davvero felice per qualcosa.

Un altro, quando è in imbarazzo.

Un altro ancora, per quando gioca a basket.

Un altro, per quando ti sta prendendo in giro.

Uno, per quando sorride per educazione.

E poi uno, quando mi vede arrivare.

E poi, strano a dirsi, uno per quando sta male.

Akira non sta mai male. È impossibile? Sì, lo penso anch’io. Nessun essere umano può evitare di soffrire, e, anche se tante di quelle volte lui nella mia mente si è profilato come un angelo, Akira non può fare eccezioni. E alla fine me ne sono accorta, mi sono resa conto di quanto la tristezza tocchi anche lui e sporchi il suo sorriso vuoto di pensieri ingombranti. Quando soffre, lui chiude gli occhi solo per un attimo, rimane così, come ad annegare la sua tristezza in un infinito mare di luce bianca come la sua anima, poi li riapre, sbatte le palpebre un paio di volte e poi sorride. Sì, sorride. Di un sorriso meno caldo e più tirato del solito, ma sorride. E a me spezza il cuore. Più di un urlo, di un pianto, di un scatto di collera.

Tirai un sospiro di sollievo, per fortuna, si era alzato da terra, aiutato da Danny e da Hikoichi, e io mi sedetti di nuovo. Mi fece un cenno con la mano e io annuii con il capo con sollievo.

Eccoli, quei maledetti momenti di terrore, di paura, che mi spegnevano dentro il mio “ti amo anch’io”, e stavolta non c’entrava niente Kaede. Ero solo io che agghiacciavo per tutto questo, tutto quello che era nato tra me e lui.

La mia totale dipendenza da lui.

Parliamoci chiaro, sono sempre stata una ragazza molto indipendente, una che non aveva mai bisogno di appoggiarsi a qualcuno, mai per nessun motivo. La perdita di tutta la mia famiglia, dei miei genitori prima e di mio fratello poi, mi hanno resa decisa, determinata, ferma, più forte di una persona normale. Lo sapevo io stessa, e ne ero orgogliosa; per questo, mia zia mi aveva concesso di vivere da sola, sapeva che potevo cavarmela, anche se non me l’avrebbe detto mai, comunque sicuramente non avrebbe fatto lo stesso per Kaname. Avevo chiaramente ipotizzato che dalla morte di mio figlio ne sarebbe scaturita la stessa identica realtà oggettiva. Mi sarei fatta più forte. Da un certo punto di vista, fu anche così, ero forte come una roccia ormai. La roccia è fredda, però, basta toccarla e ti fa ghiacciare la mano. Niente del tuo calore va da te a lei. Rimane fredda. Io rimanevo fredda. Ero forte, sì, ma il rovescio era che non ero nient’altro di diverso da questo. Ero solo forte. Vivere è tremendamente facile così, se niente ti tocca. E i primi mesi ero anche convinta di stare bene.

Ma credo che in fondo Dio esista. Non è mai troppo presente, e in ultima analisi, il trucco per Lui è fare le cose talmente bene che noi riusciamo ad non accorgercene, o fare finta di non essercene accorti. Magari dopo, si urlerà al miracolo, alla grazia, al prodigio. Lui fa le cose talmente bene che io non me ne sono mai accorta. 

Scelsi di andare al Ryonan per caso, e solo dopo aver saputo che Kaname si sarebbe trasferita allo Shohoku, cosa che ancora adesso non trova in me alcuna spiegazione. Un miracolo anche questo? Il primo giorno di scuola, ero lì che camminavo, persa nei pensieri più normali di questo mondo, quelli che, tanto per cambiare, mi creavo per non pensare a qualcosa di diverso, che mi avrebbero toccato troppo dentro. Allora, si finisce a pensare a cose come il cibo della mensa, oppure i soldi per comprare un nuovo braccialetto, e quelli credo fossero i miei pensieri abituali da mesi e mesi prima. Mentre come sempre pensavo ad una di quelle cose stupide, venni urtata da qualcuno. Una sagoma mi superò con uno: “Scusami!” e proseguì dritta, correndo. Solo allora mi ricordai che Akira Sendo aveva la mia stessa età, e che probabilmente avrebbe frequentato la mia stessa classe, come sarebbe successo effettivamente. I miei pensieri cambiarono e si indirizzarono su di lui per la prima volta, ma non per l’ultima. Perché lui si incastrò nella mia mente, trovando una collocazione perfetta tra il dolore sempre nascosto per la mia famiglia, la rabbia per Kaede, la disperazione per mio figlio, tra ogni cosa che rimaneva a morire nella mia anima in attesa di un giorno inesistente in cui se ne sarebbe andata. Il pensiero di lui, un giorno, divenne così grande che non riuscii più ad ignorarlo. Lui lo faceva crescere inavvertitamente, senza accorgersene, un potere meraviglioso e supremo che scaturiva da lui ogni volta che lo guardavo, gli parlavo o gli sorridevo. Fece suo tutto quello che c’era in me, purificandolo, facendolo diventare qualcosa di nuovo, qualcosa di più bello, di più colorato. Ero piena solo di lui, soltanto di Akira. Dei suoi sette sorrisi diversi e della sua mancanza assoluta di pensieri. Sembrava quasi che non ci sarebbe stato più posto per nient’altro.

Lui non mi basta mai. Questa è la verità.

Normale che, se penso che questa cosa è mortale, che è umana, che può spegnersi e finire, e che in fondo tutto quello che c’era in me, c’è sempre, anche se più nascosto e meno ribollente di prima, ho paura. Da morire. Perché non saprei che cosa fare, se non l’avessi più.

Tornerebbe tutto come prima?

Io, forte come una roccia?

Il dolore che si nasconde, o che esplode e mi uccide per overdose?

Overdose… risata amara… non sarebbe poi così strano, considerando…

Scrollai il capo, era inutile pensarci, era soprattutto stupido pensarci. Perché anticipare con le domande quello che non è ancora successo? Touchè, nuova domanda. Non sono proprio capace di farne a meno.

Taoka chiamò il time out, mi ero distratta e non stavo più seguendo la partita. Guardai preoccupata il tabellone, e respirai di sollievo; meno male… vincevamo per 82 a 75. Mi venne da ridere, chi l’avrebbe mai detto che non avrei più guardato con terrore la parte luminosa dello Shohoku stare sotto di qualche punto rispetto alla squadra avversaria? Perché allora Taoka ha chiamato il time out? I ragazzi si avvicinarono alla panchina, stanchi e sudati, ma abbastanza su di giri. Chiaro, stavano vincendo… presi le bottigliette dell’acqua e le porsi ad ognuno di loro. Arrivata ad Akira, lo vidi strano, diverso, era calmo, ma qualcosa stonava in lui. Prese la mia bottiglietta con un sorriso e mi ringraziò leggermente.

“Che hai?” chiesi, guardandolo preoccupata.

Lui sembrò risvegliarsi da una sorta di suo pensiero nascosto, sbattendo le palpebre un paio di volte. Doppiamente strano. Il motivo lo si sa. Akira non pensa mai troppo. Guardai i suoi occhi blu e mi chiesi se era giusto, o, che ne so, normale, che in una relazione lui capisse sempre tutto di me, e io quasi mai niente di lui.

“Akira!” lo chiamai ancora, prendendolo per la spalla.

Sollevò finalmente gli occhi, nel suo viso non c’era ombra di sorriso. Mi raggelò il sangue nelle vene.

“Ti ama ancora…” disse secco, l’espressione seria che stonava con i suoi tratti. Lo guardai senza capire, si riferiva a Kaede? Certo che si riferiva a Kaede… e a chi sennò? Poteva anche essere che si riferiva a Ryota… sì, come no.

Scrollai il capo e risposi altrettanto secca: “Potrebbe anche essere… ma non mi interessa… lo sai, no?”.

Quel breve momento di smarrimento, in cui la sua paura aveva trovato uno sfogo per lui troppo evidente, finì. La sua parte più profonda l’avevo tranquillizzata. Quindi, poteva ritornare il suo sorriso solito, anche se ci giuravo, quel pensiero era rimasto in lui, ma almeno era meno ossessivo di prima, tanto che poteva tornare sé stesso. Sospirai di sollievo, meno male… forse lo conoscevo abbastanza bene, in fondo…

Sorrise e rispose, socchiudendo gli occhi: “A dirla tutta, ma proprio tutta, non che io lo sappia totalmente… una certa signorina non si decide a dire due magiche paroline, nonostante io gliele abbia dette una quarantina di volte, ma lei niente…”; arrossii come una cretina, con lui era peggio che avere tredici anni. Adesso gli veniva, accidenti a lui?!!

“Ti sembra il momento?!” sibilai, guardandolo storto.

Alzò gli occhi al cielo e disse, sempre con quel suo sorriso irritante: “Già, perchè non è mai il momento giusto! È vero! Dimenticavo che non l’hanno ancora creato il momento giusto per te!”, abbassò lo sguardo e sussurrò suadente, un tono complice ed ironico, mentre si avvicinava al mio viso ed io arrossivo di nuovo: “Vedrai che ti sentirai meglio, quando me l’avrai detto… si vede che sei innamorata persa di me…”

Gli pestai il piede, dicendogli: “La smetti?!”

Lui si lamentò qualche secondo, poi scoppiò a ridere, mentre l’arbitrio li richiamava in campo.

“Me lo dai un bacio?” mi disse, sorridendo ancora. Sorriso numero 4: mi sta prendendo in giro.

“NON CI PENSO PROPRIO!” urlai. Prima mi fa incavolare, e poi mi vuole baciare?! Lo sa che mi da fastidio parlare di questa “cosa”, di sto benedetto maledetto “ti amo” che non so dire, ed è sempre lì, pronto a rimarcare! E poi ci sono quelle quattro idiote delle sue fan, se lo bacio, mi linciano. Poco importa, se quando fa quella faccia da bambino dispettoso, me lo bacerei trentacinque volte al secondo. E poi ci sono Ryota, e pure Kaede, e già quello mi vuole parlare, e se lo vede pure che mi bacia, allora me lo ammazza, e poi… che faccio in tempo a finire di ragionare? Assolutamente no! Mi prese per la vita e mi baciò, attirandomi a sé, mentre le solite ragazzine urlavano come delle forsennate. È quasi patologico che mi piaccia così tanto baciarlo, se non fosse stato per Taoka, che iniziò ad urlare come un forsennato contro Akira, per le urla, e per le risatine del resto della squadra, non l’avrei più lasciato. Mi sussurrò sulle labbra, la sua voce così dannatamente dolce che quasi mi mettevo a piangere come un’imbecille: “Ti amo…”, poi si allontanò, la sua solita voce rompiscatole che continuò per lui, mentre tornava in campo: “E già che ci sono, mi rispondo da solo: TI AMO ANCH’IO!! Tanto se aspetto te, arriva il prossimo millennio!”.

Mi guardai attorno, una mano sul capo… meno male che non l’aveva sentito nessuno… accidenti a lui, lui e la discrezione abitano in due pianeti diversi! Sorrisi mio malgrado. Non ne potevo fare a meno. Solo allora mi accorsi di uno sguardo azzurro su di me… Kaede mi stava fissando da prima. Sostenni il suo sguardo con astio. Alla fine, è quello che rimane. Quello che rimane dell’amore, o pseudo tale.

Una preghiera… Dio, scusami, se Ti scoccio ancora.. hai già fatto così tanto per me con questo angelo dispettoso e irritante come un piccolo spiritello cattivo… ma Ti prego, solo questo… soltanto questo… che qualsiasi cosa succeda, che non finisca mai così tra me ed Akira… che io non lo possa odiare mai, che non ci sia mai uno sguardo duro e freddo come roccia tra me e lui, quando questa cosa finirà… se proprio deve finire…

 

 

Guardai il tabellone nervosamente, ancora un minuto e mezzo, e finalmente la partita sarebbe finita. Eravamo in vantaggio… 110 a 102, ma conoscevo lo Shohoku, sapevano rimontare anche all’ultimo secondo disponibile, e adesso avevano loro la palla. Socchiusi gli occhi, il loro gioco era sempre potente e devastante se si coordinavano e sincronizzavano, e infatti riuscirono a segnare, vincendo la resistenza della nostra difesa. Ma sapevo altrettanto bene che Akira aveva capito… il loro punto debole… non a caso adesso l’azione era stata Ryota–Takeichi– Hanamichi. Kaede non era intervenuto, quando la palla passava a lui, il suo desiderio di fare tutto da solo faceva cadere spesso del tutto il valore dell’azione. Akira se ne era accorto, e sfruttava la cosa a suo vantaggio, mettendolo sotto pressione quando aveva il possesso della palla. Nello Shohoku, molte cose erano cambiate, difficile non accorgersene. C’erano delle crepe nella loro squadra, Akagi prima faceva da collante, ma adesso era diverso. Ryota era un buon capitano, si intuiva un legame molto profondo tra lui ed Hanamichi, infatti le loro combinazioni erano eccellenti. Buono, era anche il gioco tra Takeichi ed Hanamichi, anche loro dovevano andare abbastanza d’accordo. Il punto debole era Kaede. Non passava mai, non faceva gioco di squadra, certo, se la cavava egregiamente, ma, se gli avversari capivano il suo limite, per lui non c’era storia. Hishi era sulla sua stessa lunghezza d’onda, ma, essendo molto meno bravo di Kaede, stentava di più. E poi Kaede… era cambiato… era irritabile, commetteva errori di nervosismo, inesperienza, tensione, errori da… matricola… la matricola che non era mai stata… chissà che cavolo aveva, non che mi interessi, ma… questa storia di volermi parlare, improvvisamente me ne sono ricordata… il mio cuore perde un battito… adesso, dopo tanto tempo, lui mi vuole parlare. Come se avesse importanza quello che lui vuole… mi ricordai improvvisamente le parole di Akira… lui mi ama? Adesso mi ama? Non c’è da aggiungere un “ancora” alla frase “mi ama”, ma un “adesso”. Ricordatelo questo “adesso” e non fraintendilo con un “ancora”, che non è mai esistito.

Vero?

Mi ritrovai a tremare, ad avere una sensazione strana addosso, come se avessi freddo, come se fossi stata sotto la pioggia per ore. Arrivai anche a guardare il tabellone con terrore. Adesso volevo che la partita non finisse mai. Che controsenso. Strinsi le mani ancora, mancavano quarantacinque secondi adesso… eravamo in vantaggio di quattro punti, ma la palla l’aveva ancora lo Shohoku. Kaede palleggiava fuori dalla nostra area, non riusciva ad avanzare, Akira che non lo faceva passare. Era così strano vederli davanti ai miei occhi tutti e due assieme, in carne ed ossa… l’angelo della mia vita e il diavolo della mia esistenza. I loro occhi erano così maledettamente blu, così dannatamente simili che, per un attimo, un lunghissimo e maledetto attimo, mi sembrò di cercare disperatamente quelli di Akira e di non smettere di trovare, invece, al loro posto, quelli di Kaede.

All’improvviso, il tempo era scaduto. La partita era finita.

Non sappiamo proprio che significa sentire il tempo. Come dovrebbe essere. E come magari è.

Mi sollevai di scatto dalla sedia. Mi misi a correre, la gente attorno solo urla silenziose, come zampilli d’acqua gelata su rocce fredde.

Fredde, perchè non vogliono sentirla quell’acqua.

Vogliono sentire il sole, che le bacia dalla culla turchina del cielo.

Voglio sentire il sole, non più volubile acqua, che scorre e passa.

Gli saltai in braccio, le mie gambe incrociate attorno alla sua vita e le mie braccia strette attorno al suo collo.

Lo baciai con tutta la forza di cui ero capace.

Quella maledetta forza da roccia, che mi portavo dietro da anni.

Mi strinse, sorpreso. E mi fece girare su me stessa.

Mi staccai da lui e gli accarezzai il viso.

Quel suo viso dolce d’angelo, che non cambiava mai: “Sono contenta che abbiate vinto… Akira…”

 

 

“Hanno infilato Taoka sotto la doccia! Andiamo a vedere!!”.

Sorrisi a Danny che correva verso gli spogliatoi con addosso la maglia del numero quattro dello Shohoku, quella di Hanamichi. Feci un gesto di concessione ad Hikoichi in modo che potesse anche lui andare a godersi l’evento storico, concessione del clima di festa e vendetta programmata da mesi. Nel tragitto, si misero a litigare come due bambini su chi dei due avesse giocato meglio. È proprio vero che tutto il mondo è paese, sembrava di essere ritornati al tempo delle liti eterne tra Kaede ed Hanamichi. Saranno le situazioni tutte uguali o i ragazzi tremendamente simili? Propendo per la seconda ipotesi.

Sorrido ancora come una scema, circondata da una folla di tifosi, ragazzine e giornalisti. Una di queste, la sorella di Hikoichi, aveva preso per il braccio Akira e se le era portato dietro per intervistarlo. Quello mi fece venire un po’ meno il mio sorriso, quella lì si voleva fare Akira da quando lo conosceva, ma ero talmente allegra che glielo concessi, tanto Akira era innamorato di me, mica di lei. Ahaha! ghignai nella mia mente sadicamente divertita.

Stavo camminando per tornare anch’io negli spogliatoi per assistere alla doccia di Taoka, lo ammetto anche io ci avrei goduto alquanto, quando mi sentii afferrare per il polso e tirarmi indietro. Cercai di divincolarmi, come se stessi annaspando. Cercai anche di graffiare il mio fantomatico aggressore, ma non ci riuscii. Mi sentii trascinare da qualcuno, che mi conduceva con sé. Appena riuscii ad inquadrare che si trattava di Kaede, smisi di divincolarmi e mi feci trascinare passivamente da lui. Sarebbe stato perfettamente inutile anche mettermi ad urlare e prenderlo a calci. Non l’avevo forse imparato a mie spese? Faccio troppo la melodrammatica in effetti, mi piace farlo, specie quando ho torto marcio. Quando mai avevo preso a calci Kaede o avevo provato ad oppormi a lui? Mai, eccola la risposta. Aveva sempre fatto i suoi sporchi comodi. E l’avevo lasciato fare.

Uno sgradito pezzo di ghiaccio nel petto, mi trascinò fino ad un corridoio deserto, dove c’erano degli uffici adesso apparentemente vuoti. Ebbi quasi paura, che voleva fare? Poi mi ricordai con astio che io ero sempre stata per lui quella che si doveva nascondere, quella che nessuno doveva vedere accanto a lui. Il giorno e la notte… lui e i suoi corridoi vuoti, Akira e i suoi baci di fronte a decine di persone…

Finalmente mi lasciò il polso, che massaggiai leggermente con l’altra mano. Mi aveva fatto male. A quanto pare, non ne poteva fare a meno. Forse non sapeva fare nient’altro.

Sollevai il mio viso, dandogli un’espressione di fastidio e di odio, e dissi: “Che vuoi?!”

Lui rimase immobile, guardandomi, poi si avvicinò a me e disse, la voce piatta e fredda più del solito: “Cos’è questa cazzata che stai con Sendo?”. Ero indietreggiata, finendo contro il muro.

Lo guardai negli occhi e risposi dura: “Non sono cazzi tuoi…”. Faceva paura questo odio, faceva paura quasi quanto l’amore che avevo per Akira. Due lame, ghiacciata una, incandescente l’altra, che mi tagliavano a fette il respiro.

“Certo che sono cazzi miei!” urlò, sbattendo le mani sul muro alle mie spalle, ai lati del mio viso. Sobbalzai e distolsi lo sguardo da lui, che adesso era a pochi centimetri dal mio viso. Non l’avevo mai sentito urlare così tanto… la sua voce poi… sembrava quasi rotta… la mia voce invece si era fatta più debole, meno intensa e meno decisa. Come sempre, mi faceva quasi paura. Quasi, aggiungo… perchè Kaede non era mai arrivato a farmi paura, anche in quei giorni fatali avevo avuto molta più paura di me stessa che di lui. 

“E da quando sarebbero fatti tuoi?” risposi in un sussurro, non guardandolo ancora, poi la mia voce si ruppe del tutto. La luce di Akira era troppo lontana da me. Il suo mare solo un eco nella mia mente, come la voce delle conchiglie. Totale dipendenza da lui, ricordi Ayako? E la dipendenza richiede presenza.

Finalmente, lo guardai negli occhi: “Da quando è affare tuo la mia vita?! Eh, da quando?! Da quando mi hai lasciato, da quando me ne sono andata o da quando è morto nostro figlio?! Da quando, eh?! Ricordamelo Kaede, perchè non lo so! O magari me ne sono scordata!”. Sentivo che stavo piangendo, quindi abbassai lo sguardo. Non volevo che mi vedesse mai più piangere, mai più, specie per lui.

Tremai, mentre la sua mano sollevava il mio mento, portando i suoi occhi a tiro dei miei. Cercai di indietreggiare ancora, ma ero ormai contro il muro. Mi sentivo in trappola. Quel maledetto destino di sangue, dolore e pioggia mi avrebbe lasciato libera stavolta? Kaede mi avrebbe lasciato libera stavolta?

“Non devi piangere… tu odi piangere…” mi disse, guardandomi e avvicinandosi di più a me. Sentivo il suo respiro sulle mie labbra, chiusi gli occhi, adesso sarebbe successo. Adesso ancora sarebbe successo, e poco importava che c’era Akira, con i suoi sette sorrisi diversi, che ci fosse che io l’amavo e che non lo volevo perdere. Akira, Haruko, Ryota… sarebbero stati tutti la stessa cosa nella mia testa, nella mia anima che bruciava tutto il resto in lui, nei suoi sguardi che accarezzavano quell’animale mai morto in me. Ripresi a piangere, più forte, mentre sentivo le sue labbra sulle mie muoversi leggermente, cercando di aprirle, sapore di sale nelle mie che rimanevano chiuse. Le sue mani mi strinsero sulla schiena, attirandomi vicina a lui, mentre mi sembrava che ogni resistenza fosse vana, vanamente inutile. Rividi nella mia testa tutto quello che era successo, tutto quello che era accaduto, tutto il dolore che non era mai andato via, ma non riusciva a toccarmi, a farmi tremare di quella giusta e necessaria rabbia, che io dovevo provare verso di lui. Li sentivo ancora addosso i lividi, che lui mi aveva procurato, le ferite che non si rimarginavano, i tagli che sanguinavano, i colpi inferti, che pulsavano senza sosta. Eppure, stavo lì a baciarlo. Bè, magari no… almeno a questo non c’ero arrivata, ero lì immobile, mentre lui baciava me. Sentii ad un tratto un rumore, come di una porta che sbatteva, e meno male che non ci doveva essere nessuno in questi corridoi, per una volta Kaede aveva sbagliato i suoi calcoli… magari, era qualcuno che tornava a casa, oppure qualche giornalista che se ne andava dopo la partita. Giornalista che se ne andava dopo la partita… come rompono quelli, sempre a chiedere, sempre a fare quelle maledette domande che io detesto, come quella là… come si chiama, la sorella di Hikoichi? Ah già… Yayoi Aida, che sbava dietro ad Akira… una scarica elettrica di inaudita potenza nei miei nervi…

Un corridoio deserto, un altro non questo.

Yayoi che poteva baciare Akira.

E io qui a baciare Kaede.

Che avrei fatto, se lo avessi scoperto?

Sarei impazzita.

E io qui a baciare Kaede. 

Che avrei fatto, se li avessi visti?

Sarei morta.

E io qui a baciare Kaede. 

Che avrebbe fatto Akira, se mi avesse vista?

Sarebbe impazzito. Sarebbe morto.

 

E io sto ancora qui a baciare Kaede.

 

“Smettila!” urlai, spingendo con forza le mani contro il suo petto ed allontanandolo da me. Lui finì contro il muro, e mi guardò stranito. Certo, pensava che ormai avesse vinto. Vinto, come ogni volta che aveva a che fare con me.

“Tra me e te è finita…” ripetei tra le mie labbra, come una canzoncina “Non ti azzardare mai più…”

“Eppure, mi sembrava che ci stessimo baciando… è un po’ incoerente, lo sai?” rispose lui, guardandomi con aria sospettosa. Non che avesse tutti i torti, che cavolo mi era saltato in mente? Possibile che mi facesse ancora questo maledetto effetto?

“Tu mi hai baciato, non io…” dissi con forza. Stavolta, non avrebbe vinto. Non poteva vincere ancora.

“Io sto con Akira…” continuai, guardandolo ancora e cercando di mantenere il mio sguardo limpido

“Lo so…” rispose lui, facendo un passo verso di me, al quale io mi feci indietro e dissi: “N-non puoi farti sempre tutti i cavoli tuoi, e pretendere che la gente ti stia ad aspettare…”. Me ne dovevo andare. Subito. Immediatamente. Quel maledetto incantesimo esisteva ancora… m’avrebbe di nuovo portata a lui… e non volevo, non volevo disperatamente… prima non c’era alcun motivo, adesso ce ne erano infiniti a trattenermi al di qua del precipizio… e il primo non ero io e il mio dolore, il primo era Akira e il suo amore.

Feci per voltarmi, ma lui mi afferrò di nuovo per il polso: “Aspetta… non te ne puoi andare così… io ti devo parlare…”; stavo già per rispondergli male, lo sapevo che modo aveva lui di parlare, e lo intuii ancora meglio quando lo sentii avvicinarsi al mio collo, spostando la coda di cavallo che cadeva sulla mia nuca. Poi lo sentii bloccarsi.

“Che hai, qui?” mi chiese, nel modo più innocente del mondo, come se stessimo parlando della lista della spesa, e mise un dito sulla mia nuca. Un dito freddo, che mi diede un brivido lunghissimo. Stavolta fu forte la domanda sul che cavolo ci facessi lì, tanto forte da nausearmi. Avevo capito che aveva visto Kaede. Il tatuaggio… un piccolo numero sette di colore nero, che mi ero fatta il mese prima sulla nuca.

Sette… i sorrisi di Akira…

Sette… il numero sulla sua maglia…

Sette… il giorno del mio compleanno e il mese di quello di Akira…

Sette… gli anni che avevo, quando morirono i miei…

E poi… sette…

Sette volte che mi chiedeva di uscire e dicevo di no, prima di dirgli di sì…

Sette ore a parlare con lui, una notte, accoccolata tra le sue braccia in riva al mare, mentre faceva giorno…

Sette biscotti, che Akira divora alla mattina, quelli con le gocce di cioccolato, non con il buco al centro…

Sette scalini, per arrivare alla porta della camera di Akira…

Sette rose arancio, sulle mie gambe, il giorno della vigilia di Natale…

Sette fragole, ricoperte di zucchero a velo, in un piattino giallo, quando mi svegliai per la prima volta nel suo letto…

Sette nomignoli che mi aveva dato, che andavano dal “principessa” all’ “ape isterica”…

Forse fu quello a darmi la forza, non lo so. Ricordare come un mantra quel numero infinite volte nella mia mente, ricordarlo e capire quanto avesse contato per me in quest’ultimo anno, ricordare quanto Akira avesse contato per me in quest’ultimo anno. Non potevo fargli questo, in nessun ragionevole modo.

Distaccai la mano di Kaede dal mio collo e mi voltai, guardandolo negli occhi. Adesso ci riuscivo, chissà perchè prima non c’ero riuscita…

Lui mi guardò perplesso, una leggera smorfia sul volto. Mormorò a bassa voce: “E’ il numero della maglia di Sendo…”

Annuii, anche se era solo un millesimo di quello che quel tatuaggio voleva dire per me.

Abbassò lo sguardo, e, per un po’, rimase in silenzio.

“Io credo di essere innamorata di lui, Kaede…” bisbigliai, guardando altrove. Sbattei le palpebre un paio di volte, l’avevo detto ad alta voce, l’avevo detto che amavo Akira. La gioia mi fece salire le lacrime agli occhi. Certo, l’avevo detto a Kaede, non ad Akira, ma sorvoliamo… per la prima volta, lo avevo ammesso compiutamente.

Lui era rimasto in silenzio. Abbastanza strano che se ne stesse così fermo. Non dico le parole, che le conta una per una, ma nessuna reazione? Possibile? Mi aspettavo pure uno schiaffo…

Stavo già per andare via, ma mi sentii trattenere ancora stavolta per la vita, con un braccio mi fece ruotare su me stessa e mi strinse tra le sue braccia. Fu quello il solo secondo, in cui, in tutta la mia vita, provai pietà per lui. Magari, è un sentimento orrendo, forse più dell’odio, e magari Kaede è l’ultima persona che ispira un sentimento del genere, ma mi fece quell’impressione, una sensazione dolceamara che cozzava contro l’immagine forte, che lui ha ed offre di sé. La pietà… una degenerazione dell’amore prima, e dell’odio poi?

“Non me ne frega un cazzo di Sendo, niente… non me ne frega un cazzo, mi hai capito, mi hai capito, Ayako?!” sussurrava sui miei capelli, stringendomi sempre più forte e togliendomi il respiro. La sua voce era silenziosa, ma nel mio sangue faceva l’effetto di urlo da accapponare la pelle. Cercai di dirgli di lasciarmi, ma era come se non mi ascoltasse, ripeteva sempre queste parole come una filastrocca stonata e non accordata; staccò poi il mio viso dal suo petto, e lo prese tra le sue mani, portandolo ancora davanti a sé.

“Ti amo, ti amo, ti amo…” continuava a ripetere, cercando di baciarmi di nuovo, mentre io lo evitavo ancora, muovendomi a destra e a sinistra.

“Smettila Kaede!” urlai finalmente con tutta la voce che avevo in gola.

Finalmente, mi lasciò andare, le sue palpebre che sbattevano, come se si fosse reso conto solo ora di quello che stava facendo. I suoi occhi erano spaesati, come se mi vedesse adesso per la prima volta; faceva sempre così, quando facevamo l’amore, quando mi diceva una frase un po’ più intensa del solito, quando il suo cuore si apriva… e poi ritornava lui… guardava con gli occhi sbarrati quello che era stato per un attimo… e forse capiva… puoi anche tenere nelle tue dita una stella, ma, se le tue mani restano chiuse, se i tuoi palmi non si aprono, se le tue dita non si sciolgono, nessuno l’avrebbe mai saputo. E avrebbero riso di quello che tu hai in mano. Perché per loro non hai niente, un pugno di mosche o poco più, come una sfida di carte dove bari e dici che hai l’asso, e vale più di tutte le carte, invece è solo un colossale bluff, per far venire fuori un altro. Questo avrebbero pensato. E magari era pure vero che ce l’avevi l’asso. Magari era anche vero che mi amava, magari era anche vero, ma… non l’avrei mai creduto, fino in fondo… perchè avrei avuto bisogno di vederlo il suo amore… sempre… ogni giorno… come si dice? Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia. Non quando non c’è una partita e ti è venuta voglia. No. Soprattutto non quando ti ricordi che ho perso un bambino, che era tuo figlio. Soprattutto non quando mi hai perso, esattamente come quel piccolo angioletto. Soprattutto non quando Dio me l’ha rimandato in un’altra forma. E io non ci ho mai creduto in Lui. E magari non ci crederò mai fino in fondo, ma in Akira devo credere. Almeno in lui devo credere.

Non dissi né un “Mi dispiace”, né uno “Scusami”. Quelle parole… le parole sono sempre troppo importanti… anche se era una bugia, prima che finisse tra me e lui, l’avrei voluta sentire almeno una di loro sulle labbra di Kaede… per me… perchè mai nessuna di loro sarebbe stata più azzeccata, più di quel stupido e tardivo “ti amo”, che per lui doveva essere stato così importante. Un mio “scusami” sarebbe stato come il suo “ti amo”… stupido e tardivo, anche se magari importante… quelle parole allungano troppo i discorsi, li dilatano e quelli non finiscono mai.

Mi voltai e andai via, correndo nei corridoi come una pazza.

Volevo solo vedere Akira, solo raggiungerlo.

Lo trovai che sorrideva imbarazzato alle avances di Yayoi. Mi sorrise, vedendomi, e io sorrisi a lui, appoggiando la mano sul suo braccio: “Devi andarti ad allenarti, Sendo, domani c’è la partita contro lo Shoyo!”; lui sorrise ancora e mi strinse per la vita, mentre Yayoi prendeva il volo. Mi attirò a sé e mi baciò, ripetendo: “Cercherò di vincere per lei, manager Kuno…”.

“Bravo Sendo… non ci potrebbero essere parole migliori di queste…” sussurrai a mia volta, abbracciandolo.

Gelai, sentendolo dire: “Dove sei stata?”.

Lunghissimi minuti mi separarono dalla risposta, lunghissimi minuti in cui soppesai le parole. Ere intere, giorni e vite intere che mi passarono sotto le palpebre chiuse. Poi, alla fine, come sempre, arrivò la timida risposta.

“Con Hikoichi e Danny… hanno infilato Taoka sotto la doccia…” sorrisi gaia e frizzante.

Tra la mia risposta e il suo “Davvero?” contento passarono tre secondi netti.

Uno… li ho mentito e ci ha creduto…

Due… è la cosa giusta, ne soffrirebbe e non ne avrebbe motivo…

Tre… spero di aver fatto bene…

Dopo il suo “Davvero?”, mi concessi il lusso di un altro secondo.

Tanto tra me e Kaede ormai è finita per sempre…

Inevitabile domanda. Maledetta domanda.

Ne sei sicura?

 

 

 

 

Parla in fretta e non pensar

Se quel che dici, può far male.

Perché mai io dovrei fingere di essere fragile,

come tu mi vuoi… nasconderti

in silenzi, mille volte,

già concessi,

tanto poi tu lo sai,

riuscirai sempre a convincermi che

tutto scorre.

 

Usami, straziami,

strappami l’anima,

fa di me quel che vuoi

tanto non cambia l’idea che ormai

ho di te,

verde coniglio dalle mille facce buffe.

 

Dimmi ancora quanto pesa

La tua maschera di cera,

tanto poi, tu lo sai, si scioglierà,

come fosse neve al sole,

mentre tutto scorre.

 

Usami, straziami,

strappami l’anima,

fa di me quel che vuoi

tanto non cambia l’idea che ormai

ho di te,

verde coniglio dalle mille facce buffe.

 

Sparami addosso,

bersaglio mancato,

provaci ancora, è un campo minato.

Quello che resta del nostro passato

Non rinnegarlo, è tempo sprecato.

Macchie indelebili, coprirle è reato.

Scagli la pietra chi è senza peccato,

scagli la pietra chi è senza peccato.

Scagliala tu perché ho tutto sbagliato.

(Mentre tutto scorre- Negramaro)

 

 

Finalmente il nuovo capitolo! Allora, premetto una cosa! Quando ho iniziato a scrivere questa storia, questo, ovviamente modificato, sarebbe stato l’ultimo capitolo. La storia sarebbe finita qui perché credevo di aver raggiunto il senso di quello che avrei voluto dire. Devo ammettere che però questa storia mi ha preso la mano, molto più di quanto credessi possibile. Non so come spiegarmelo, ma è come se adesso questi personaggi avessero una vita loro e mi tirassero dove vogliono loro. Quindi, per vostra disgrazia, questa storia continuerà ancora per un paio di capitoli! Non so ancora quanti, perché devo praticamente scriverli ed inventarli di sana pianta, ma il nono è già pronto e sto iniziando il decimo. Voglio però dire un’altra cosa importante: se ho deciso di continuare questa storia, è stato anche e soprattutto per le bellissime recensioni che mi avete mandato, dire che sono le migliori che abbia mai ricevuto è poco! Ma preferisco ringraziarvi, come si deve uno per volta:

Akane: sono stata contentissima che tu abbia apprezzato il punto di vista di Rukawa, anche perché lo ammetto è quello più difficile, credo perché è il tipo di persona che odio irrimediabilmente, ma di cui poi finisco inevitabilmente per perdere la testa! Non sono bugiarda nel dirti che nemmeno io so come andrà a finire questa storia! Come premesso, per me finiva qui, ma poi mi sono resa conto che avevo lasciato troppe cose irrisolte. Quindi, non so neanche io come finirà; comunque, spero di continuare a scrivere come piace a te… a me questo capitolo non piace molto, mi farai sapere tu, ok? Un bacione!

Sasa: la tua recensione mi ha fatto un piacere immenso! Sai perché? Per gli aggettivi che hai usato per descrivere il “mio” Rukawa, era esattamente quello che volevo arrivasse. Che sia più vuoto di prima è un fatto e ti preannuncio che la cosa andrà anche peggio! Anche se in questo capitolo si è un po’ sciolto… l’ho dovuto mettere con le spalle al muro, altrimenti… per l’omicidio di Fukuda… non ci avevo pensato! Comunque, per l’allungarsi di questa fic, credo che ci sarà tempo e modo! Un abbraccio! Grazie dei tuoi meravigliosi complimenti!

Hotaru Tomoe: prima di tutto, sono megacontenta che la mia storia ti prenda così tanto! Me felicissima! Lo stacco temporale mi è venuto perché altrimenti era un po’ difficile descrivere come Ayako scegliesse di stare con Sendo! Nella mia mente, l’ho concepita come una cosa di una lentezza infinita, quindi la cosa poteva risultare noiosa. Un giorno, se avrò l’ispirazione, scriverò una storia su come si sono messi assieme… comunque, ho pensato a Sendo, primo perché ne sono sempre stata innamorata segretamente, e poi come giustamente hai notato tu, era la persona più adatta, considerato che cosa Ayako stesse passando! E poi, siccome sono di una perfidia unica, mi stuzzicava che Ayako, l’unica ragazza per cui Rukawa abbia mai provato qualcosa, stesse proprio con il rivale per eccellenza! Ehehhehe!!! Sono iper mega contenta che tu abbia scovato la canzone dello scorso capitolo, le metto sempre nel dubbio che nessuno le guardi in faccia! Un piccolo appunto: il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di un personaggio che mi hai scritto ti piace molto… indovina, chi è? Un mega bacio!

,: non penso che sia un nick, comunque un mega ringraziamento anche all’autore/autrice di questa recensione! Come vedi, questa storia non finirà per ora, se ne andranno ancora parecchi capitoli, sperando di non perdere l’ispirazione! Comunque, hai indovinato! L’angelo del capitolo 3, è proprio Sendo! In questo capitolo, l’ha chiamato proprio così… lo considera tale perché l’ha tirata fuori dalla situazione orribile in cui si trovava, quindi lo definisce così. un mega bacione e grazie ancora!

Seika: la persona che mi ha definitivamente convinto a continuare questa storia! Ero ancora indecisa, quando ho letto le tue meravigliose recensioni e ho deciso di continuare. È una gioia per una pseudo-scrittrice, quando trova una recensione così appassionata, completa ed accurata! Solamente per questo ti ringrazio! La cosa migliore che però tu abbia fatto, è trasmettermi esattamente cosa stessi provando, e ne sono stata molto felice. Sia perché tutto quello che volevo dire ti era arrivato, sia perché quello che è il messaggio che volevo trasmettere, me l’hai riportato tutto per intero, sia perché ero convinta da regina delle tenebre quale sono che il mio Rukawa fosse anche troppo tenero! Per il finale romantico, al momento non ne ho proprio idea… comunque, ti ringrazio davvero tanto per la tua recensione, mi ha dato quella decisione che mi mancava, quindi grazie! Magari tutti i recensori fossero come te!

 

 

Grazie anche a coloro che leggono e non commentano!

Il prossimo capitolo si chiama Something awkward, e siccome mi siete particolarmente piaciute con le vostre recensioni, vi faccio un piccolo e, spero, gradito regalo… un pezzettino del prossimo chappy! A presto! Un bacio!

 

 

“…Allora?!” chiesi ancora, ora la voce più alta e ferma.

Nessuno mi rispose.

Rukawa scrollò le spalle e fece un passo. Se ne stava andando. Il tacito segnale di smetterla con le menate.

Kana. Le donne sono sempre le più forti.

“Andiamo in ritiro con il Ryonan”.

“Hanno già fatto gli abbinamenti… a sorteggio…”.

Haruko. Immensamente più forti.

Rimansi basito per un secondo, certo che la sorte, quando ci si mette, è veramente bastarda..

 

   
 
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