Capitolo 8 – Something important… lately… (Ayako Kuno)
Il senso della
vita… è una domanda da filosofi, teologi e gente troppo annoiata. Di solito, la
gente la vive la vita, piuttosto che interrogarsi sul suo senso. In fondo, chi ne
ha una risposta? Nessuno, e allora che chiederselo a fare? Si va avanti, salvo
rapidi sprazzi di tristezza e malinconia, in cui quella domanda ritorna, piena
di prepotenza. Allora, ti devi rispondere, altrimenti non vai avanti. Solo
dandoti una piccola e stupida risposta, riuscirai a dimenticarti quella domanda
e così riprenderai a vivere.
Me le ero fatta
anch’io quella domanda.
Tantissime
volte, quando la mia vita sembrava essere finita.
E non avevo
trovato risposta.
Come era normale
che fosse.
Poi, un giorno,
a quella domanda se ne era affacciata una di risposta.
E, strano a
dirsi, io non mi ero nemmeno fatta la domanda, perlomeno quella volta.
Ma arrivò lo
stesso. Timida, incerta, come un’alba in un giorno pieno di nuvole, che
preannunciano un temporale lontano.
Il senso della
vita… siamo… noi…
Ogni persona è
il senso della vita di qualcuno. Ogni persona, anche con un gesto
apparentemente minuscolo, finirà per cambiare la vita di un altro. Perché, alla
fine, cambiare è il senso della vita.
Con quella
soluzione, tutto filava. Tutto aveva senso.
Persino… Kaede
Rukawa… aveva senso nella mia vita…
Magari, è una
forzatura, ma meglio cedere ad una soluzione spiccia come questa, che non
trovare nulla a cui aggrapparsi e lasciarsi andare giù, in un inferno di
domande che ronzano nella mente, quando si spegne la luce, e la cui risposta è
così dannatamente lontana che vorresti solo smettere di pensare.
Continuai a
guardare la partita tra lo Shohoku e il Ryonan, mentre Taoka accanto a me
sbraitava come un ossesso contro i suoi giocatori. Per lui, non era mai
abbastanza. Lo capivo. Doveva continuare a spronarli, a spingerli a giocare e a
vincere. Anche se avevano battuto il Kainan, l’avversario di sempre,
l’avversario di tutti. Era il rischio più grande cedere all’orgoglio, quando i
giochi non erano fatti, quando si poteva ancora perdere tutto, e quando ci si
lascia andare a ciò che si ha. Si sa, la molla di ogni azione umana è la nostra
innata insoddisfazione; sono pochi quelli che sfuggono a questo drammatico
trabocchetto, e quei pochi o sono pazzi o sono angeli.
Osservai con un
sorriso Akira scartare una delle due matricole dello Shohoku, mi sa Takeichi, e
segnare un altro canestro. Appena riappoggiati i piedi a terra, lui si era
voltato, mi aveva guardato ed aveva sorriso. Faceva sempre così ed io, ogni
volta che incontravo i suoi occhi sorridenti, dopo aver segnato, mi chiedevo
che cosa pensasse in quel preciso momento. Una volta, mentre passeggiavamo,
glielo avevo chiesto. Potevo avere mai una risposta normale da lui? Certamente
no. Mi aveva stretto più forte la mano, mi aveva guardato, aveva sorriso come
faceva sempre e aveva risposto semplicemente: “Mi viene di guardarti, di vedere
la tua faccia… non lo so perchè…”, e io avevo scrollato il capo, scettica. Io
non faccio mai niente senza pensare. Non che mi aspettassi una risposta diversa
da lui, sapevo che avrebbe risposto così, ma mi sembrava… strano… come sempre…
lui era così, Akira era così, faceva tutto perchè lo sentiva. Non pensava,
sentiva. Sempre. E raramente sbagliava. O meglio, sbagliava, ma anche dal suo
sbaglio, ricavava qualcosa. Insegnamenti? No, troppo semplice. Ma qualcosa
sicuramente. Perché per lui sentire era vivere. Quella volta, era tornato a
guardarmi, e mi aveva attirato a sé, stringendomi per la vita. Mi aveva baciato
sulla tempia e mi aveva detto, ironico: “Che c’è? Vuoi che non ti guardi più?”,
ed io avevo spalancato la bocca, gli avevo dato una piccola gomitata e gli
avevo risposto: “Non ti azzardare neanche!”.
Un nuovo
canestro. Un nuovo sguardo. Un nuovo sorriso.
Lui non pensava
mai, e io pensavo troppo. Era stato questo a portarci insieme? La solita legge,
vecchia come il mondo, dell’attrazione tra gli opposti? Non lo so, e non lo
voglio sapere. Le mie domande, mi sono resa conto solamente adesso, sono sempre
state troppo inutili, troppo futili, cose che prima sono enormi, sconfinate,
infinite, nella mia mente vengono rimpicciolite delle dimensioni di una
nocciola. Per quelle maledette domande, che mi faccio sempre. Adesso spesso le
evito, le eludo, le aggiro, come rami d’alberi sull’asfalto di un’autostrada
deserta, e ci riesco quasi sempre.
Quasi sempre…
Quasi sempre…
Sì, quasi
sempre… perchè devo pensare prima di fare una cosa, specie se
importante. Specie se da questa dipenderà molto di quello che ho dentro. Akira
segna, e mi sorride ancora. Sono come sempre trenta millesimi di secondo, ma
non ne potrei fare a meno, mi cerca e mi trova. Una sola volta non l’aveva
fatto, durante la partita contro il Kainan, perchè sembrava che Danny si fosse
fatto male, e mi ero quasi offesa, salvo poi sorridere di nuovo come una
cretina, quando mi aveva guardato di nuovo. Stavo impazzendo…
impercettibilmente il mio sguardo si fermò su Kaede Rukawa. Era immobile in
mezzo al campo, non si muoveva e guardava verso di me. Ma che cavolo vuole? Mi
chiesi, aggrottando le sopracciglia. Certo, che quel tipo è proprio strano, mi
dissi con sincerità. Ed è proprio strano anche che io ci sia stata insieme…
sembrano millenni fa… a ricordarmelo, mi fa venire la pelle d’oca. Eppure, un
anno fa, stavo con lui, no? Sì, ci stavo già da un mese buono… stavo, che
parola grossa… ci stavo assieme per come si può stare con uno come lui. Al buio
di una camera da letto, fingendo di ignorarsi per il resto del tempo.
Ad un tratto,
mentre l’azione riprende, lo vidi correre verso l’area e, mentre Akira lo
scartava, dargli intenzionalmente Lo seguii, mentre riprendeva a correre, si
avvicinava ad Akira, dandogli intenzionalmente una gomitata nella foga
dell’azione. Akira cadde per terra, preso di sorpresa, o forse anche
intenzionalmente, perchè il basket è la sola eccezione alla sua mancanza di
pensieri troppo ingombranti. Cercava evidentemente di far fischiare un fallo a
Rukawa. In campo, pensa sempre ed anche troppo. L’arbitrio fischiò un fallo
intenzionale, mentre Rukawa abbassava il capo e sollevava la mano in segno
d’assenso. Ryota corse verso di lui, rimproverandolo, mentre Akira rimaneva a
terra. Mi spaventai e mi alzai di scatto dalla panchina; ebbi paura, sì, una
folle paura, che mi soffocava la gola, come una nebbia scura e densa. Fui
vicinissima allora… vicinissima a mettermi ad urlare, con tutta quella gente
intorno, che mi guardava e che mi odiava… urlare ad Akira che lo amavo, da
impazzire, come non credevo di poter mai fare. E lui sapeva che non glielo
avevo detto, lo sapeva. Probabilmente gli sarebbe venuto un colpo apoplettico,
se glielo avessi detto allora. Lui me lo aveva detto, anche prima che ci
mettessimo assieme, scherzando, ma me lo aveva detto. Perché lo sentiva. E
perchè lui raramente sbagliava. Infatti, me lo aveva ripetuto, quando c’eravamo
messi assieme, tante e tante volte, l’ultima delle quali la sera prima. Ma io
mi ero stata zitta, ed avevo abbassato lo sguardo. Non perchè non lo sentissi,
c’erano momenti, in cui raggiungevo una consapevolezza tale da spaccarmi
l’anima in mille pezzi. Ma poi c’erano altri momenti, quei maledetti attimi in
cui mi ricordavo come era finita con Kaede e la mia convinzione di quei giorni
di esserne innamorata. E allora stavo zitta, la paura che soffocava il mio
amore. Lui, d’altro canto, non diceva niente, taceva e sorrideva come quando
una cosa lo faceva stare male, ma non voleva permettersi di lasciarsi andare.
Perché il mio
Akira ha sette tipi diversi di sorriso.
Uno, quando è
davvero felice per qualcosa.
Un altro, quando
è in imbarazzo.
Un altro ancora,
per quando gioca a basket.
Un altro, per
quando ti sta prendendo in giro.
Uno, per quando
sorride per educazione.
E poi uno,
quando mi vede arrivare.
E poi, strano a dirsi,
uno per quando sta male.
Akira non sta
mai male. È impossibile? Sì, lo penso anch’io. Nessun essere umano può evitare
di soffrire, e, anche se tante di quelle volte lui nella mia mente si è
profilato come un angelo, Akira non può fare eccezioni. E alla fine me ne sono
accorta, mi sono resa conto di quanto la tristezza tocchi anche lui e sporchi
il suo sorriso vuoto di pensieri ingombranti. Quando soffre, lui chiude gli
occhi solo per un attimo, rimane così, come ad annegare la sua tristezza in un
infinito mare di luce bianca come la sua anima, poi li riapre, sbatte le
palpebre un paio di volte e poi sorride. Sì, sorride. Di un sorriso meno caldo
e più tirato del solito, ma sorride. E a me spezza il cuore. Più di un urlo, di
un pianto, di un scatto di collera.
Tirai un sospiro
di sollievo, per fortuna, si era alzato da terra, aiutato da Danny e da
Hikoichi, e io mi sedetti di nuovo. Mi fece un cenno con la mano e io annuii
con il capo con sollievo.
Eccoli, quei
maledetti momenti di terrore, di paura, che mi spegnevano dentro il mio “ti amo
anch’io”, e stavolta non c’entrava niente Kaede. Ero solo io che agghiacciavo
per tutto questo, tutto quello che era nato tra me e lui.
La mia totale
dipendenza da lui.
Parliamoci
chiaro, sono sempre stata una ragazza molto indipendente, una che non aveva mai
bisogno di appoggiarsi a qualcuno, mai per nessun motivo. La perdita di tutta
la mia famiglia, dei miei genitori prima e di mio fratello poi, mi hanno resa
decisa, determinata, ferma, più forte di una persona normale. Lo sapevo io
stessa, e ne ero orgogliosa; per questo, mia zia mi aveva concesso di vivere da
sola, sapeva che potevo cavarmela, anche se non me l’avrebbe detto mai,
comunque sicuramente non avrebbe fatto lo stesso per Kaname. Avevo chiaramente
ipotizzato che dalla morte di mio figlio ne sarebbe scaturita la stessa
identica realtà oggettiva. Mi sarei fatta più forte. Da un certo punto di
vista, fu anche così, ero forte come una roccia ormai. La roccia è fredda,
però, basta toccarla e ti fa ghiacciare la mano. Niente del tuo calore va da te
a lei. Rimane fredda. Io rimanevo fredda. Ero forte, sì, ma il rovescio era che
non ero nient’altro di diverso da questo. Ero solo forte. Vivere è
tremendamente facile così, se niente ti tocca. E i primi mesi ero anche
convinta di stare bene.
Ma credo che in
fondo Dio esista. Non è mai troppo presente, e in ultima analisi, il trucco per
Lui è fare le cose talmente bene che noi riusciamo ad non accorgercene, o fare
finta di non essercene accorti. Magari dopo, si urlerà al miracolo, alla
grazia, al prodigio. Lui fa le cose talmente bene che io non me ne sono mai
accorta.
Scelsi di andare
al Ryonan per caso, e solo dopo aver saputo che Kaname si sarebbe trasferita
allo Shohoku, cosa che ancora adesso non trova in me alcuna spiegazione. Un
miracolo anche questo? Il primo giorno di scuola, ero lì che camminavo, persa
nei pensieri più normali di questo mondo, quelli che, tanto per cambiare, mi
creavo per non pensare a qualcosa di diverso, che mi avrebbero toccato troppo dentro.
Allora, si finisce a pensare a cose come il cibo della mensa, oppure i soldi
per comprare un nuovo braccialetto, e quelli credo fossero i miei pensieri
abituali da mesi e mesi prima. Mentre come sempre pensavo ad una di quelle cose
stupide, venni urtata da qualcuno. Una sagoma mi superò con uno: “Scusami!” e
proseguì dritta, correndo. Solo allora mi ricordai che Akira Sendo aveva la mia
stessa età, e che probabilmente avrebbe frequentato la mia stessa classe, come
sarebbe successo effettivamente. I miei pensieri cambiarono e si indirizzarono
su di lui per la prima volta, ma non per l’ultima. Perché lui si incastrò nella
mia mente, trovando una collocazione perfetta tra il dolore sempre nascosto per
la mia famiglia, la rabbia per Kaede, la disperazione per mio figlio, tra ogni
cosa che rimaneva a morire nella mia anima in attesa di un giorno inesistente
in cui se ne sarebbe andata. Il pensiero di lui, un giorno, divenne così grande
che non riuscii più ad ignorarlo. Lui lo faceva crescere inavvertitamente,
senza accorgersene, un potere meraviglioso e supremo che scaturiva da lui ogni
volta che lo guardavo, gli parlavo o gli sorridevo. Fece suo tutto quello che
c’era in me, purificandolo, facendolo diventare qualcosa di nuovo, qualcosa di
più bello, di più colorato. Ero piena solo di lui, soltanto di Akira. Dei suoi
sette sorrisi diversi e della sua mancanza assoluta di pensieri. Sembrava quasi
che non ci sarebbe stato più posto per nient’altro.
Lui non mi basta
mai. Questa è la verità.
Normale che, se
penso che questa cosa è mortale, che è umana, che può spegnersi e finire, e che
in fondo tutto quello che c’era in me, c’è sempre, anche se più nascosto e meno
ribollente di prima, ho paura. Da morire. Perché non saprei che cosa fare, se
non l’avessi più.
Tornerebbe tutto
come prima?
Io, forte come
una roccia?
Il dolore che si
nasconde, o che esplode e mi uccide per overdose?
Overdose… risata
amara… non sarebbe poi così strano, considerando…
Scrollai il
capo, era inutile pensarci, era soprattutto stupido pensarci. Perché anticipare
con le domande quello che non è ancora successo? Touchè, nuova domanda. Non
sono proprio capace di farne a meno.
Taoka chiamò il
time out, mi ero distratta e non stavo più seguendo la partita. Guardai
preoccupata il tabellone, e respirai di sollievo; meno male… vincevamo per 82 a
75. Mi venne da ridere, chi l’avrebbe mai detto che non avrei più guardato con
terrore la parte luminosa dello Shohoku stare sotto di qualche punto rispetto
alla squadra avversaria? Perché allora Taoka ha chiamato il time out? I ragazzi
si avvicinarono alla panchina, stanchi e sudati, ma abbastanza su di giri.
Chiaro, stavano vincendo… presi le bottigliette dell’acqua e le porsi ad ognuno
di loro. Arrivata ad Akira, lo vidi strano, diverso, era calmo, ma qualcosa
stonava in lui. Prese la mia bottiglietta con un sorriso e mi ringraziò
leggermente.
“Che hai?”
chiesi, guardandolo preoccupata.
Lui sembrò
risvegliarsi da una sorta di suo pensiero nascosto, sbattendo le palpebre un
paio di volte. Doppiamente strano. Il motivo lo si sa. Akira non pensa mai
troppo. Guardai i suoi occhi blu e mi chiesi se era giusto, o, che ne so,
normale, che in una relazione lui capisse sempre tutto di me, e io quasi mai
niente di lui.
“Akira!” lo
chiamai ancora, prendendolo per la spalla.
Sollevò
finalmente gli occhi, nel suo viso non c’era ombra di sorriso. Mi raggelò il
sangue nelle vene.
“Ti ama ancora…”
disse secco, l’espressione seria che stonava con i suoi tratti. Lo guardai
senza capire, si riferiva a Kaede? Certo che si riferiva a Kaede… e a chi
sennò? Poteva anche essere che si riferiva a Ryota… sì, come no.
Scrollai il capo
e risposi altrettanto secca: “Potrebbe anche essere… ma non mi interessa… lo
sai, no?”.
Quel breve
momento di smarrimento, in cui la sua paura aveva trovato uno sfogo per lui
troppo evidente, finì. La sua parte più profonda l’avevo tranquillizzata.
Quindi, poteva ritornare il suo sorriso solito, anche se ci giuravo, quel
pensiero era rimasto in lui, ma almeno era meno ossessivo di prima, tanto che
poteva tornare sé stesso. Sospirai di sollievo, meno male… forse lo conoscevo
abbastanza bene, in fondo…
Sorrise e
rispose, socchiudendo gli occhi: “A dirla tutta, ma proprio tutta, non che io
lo sappia totalmente… una certa signorina non si decide a dire due magiche
paroline, nonostante io gliele abbia dette una quarantina di volte, ma lei
niente…”; arrossii come una cretina, con lui era peggio che avere tredici anni.
Adesso gli veniva, accidenti a lui?!!
“Ti sembra il
momento?!” sibilai, guardandolo storto.
Alzò gli occhi
al cielo e disse, sempre con quel suo sorriso irritante: “Già, perchè non è mai
il momento giusto! È vero! Dimenticavo che non l’hanno ancora creato il momento
giusto per te!”, abbassò lo sguardo e sussurrò suadente, un tono complice ed
ironico, mentre si avvicinava al mio viso ed io arrossivo di nuovo: “Vedrai che
ti sentirai meglio, quando me l’avrai detto… si vede che sei innamorata persa
di me…”
Gli pestai il
piede, dicendogli: “La smetti?!”
Lui si lamentò
qualche secondo, poi scoppiò a ridere, mentre l’arbitrio li richiamava in
campo.
“Me lo dai un
bacio?” mi disse, sorridendo ancora. Sorriso numero 4: mi sta prendendo in
giro.
“NON CI PENSO
PROPRIO!” urlai. Prima mi fa incavolare, e poi mi vuole baciare?! Lo sa che mi da
fastidio parlare di questa “cosa”, di sto benedetto maledetto “ti amo” che non
so dire, ed è sempre lì, pronto a rimarcare! E poi ci sono quelle quattro
idiote delle sue fan, se lo bacio, mi linciano. Poco importa, se quando fa
quella faccia da bambino dispettoso, me lo bacerei trentacinque volte al
secondo. E poi ci sono Ryota, e pure Kaede, e già quello mi vuole parlare, e se
lo vede pure che mi bacia, allora me lo ammazza, e poi… che faccio in tempo a
finire di ragionare? Assolutamente no! Mi prese per la vita e mi baciò,
attirandomi a sé, mentre le solite ragazzine urlavano come delle forsennate. È
quasi patologico che mi piaccia così tanto baciarlo, se non fosse stato per
Taoka, che iniziò ad urlare come un forsennato contro Akira, per le urla, e per
le risatine del resto della squadra, non l’avrei più lasciato. Mi sussurrò
sulle labbra, la sua voce così dannatamente dolce che quasi mi mettevo a
piangere come un’imbecille: “Ti amo…”, poi si allontanò, la sua solita voce
rompiscatole che continuò per lui, mentre tornava in campo: “E già che ci sono,
mi rispondo da solo: TI AMO ANCH’IO!! Tanto se aspetto te, arriva il prossimo
millennio!”.
Mi guardai
attorno, una mano sul capo… meno male che non l’aveva sentito nessuno…
accidenti a lui, lui e la discrezione abitano in due pianeti diversi! Sorrisi
mio malgrado. Non ne potevo fare a meno. Solo allora mi accorsi di uno sguardo
azzurro su di me… Kaede mi stava fissando da prima. Sostenni il suo sguardo con
astio. Alla fine, è quello che rimane. Quello che rimane dell’amore, o pseudo
tale.
Una preghiera…
Dio, scusami, se Ti scoccio ancora.. hai già fatto così tanto per me con questo
angelo dispettoso e irritante come un piccolo spiritello cattivo… ma Ti prego,
solo questo… soltanto questo… che qualsiasi cosa succeda, che non finisca mai
così tra me ed Akira… che io non lo possa odiare mai, che non ci sia mai uno
sguardo duro e freddo come roccia tra me e lui, quando questa cosa finirà… se
proprio deve finire…
Guardai il
tabellone nervosamente, ancora un minuto e mezzo, e finalmente la partita
sarebbe finita. Eravamo in vantaggio… 110 a 102, ma conoscevo lo Shohoku,
sapevano rimontare anche all’ultimo secondo disponibile, e adesso avevano loro
la palla. Socchiusi gli occhi, il loro gioco era sempre potente e devastante se
si coordinavano e sincronizzavano, e infatti riuscirono a segnare, vincendo la
resistenza della nostra difesa. Ma sapevo altrettanto bene che Akira aveva
capito… il loro punto debole… non a caso adesso l’azione era stata
Ryota–Takeichi– Hanamichi. Kaede non era intervenuto, quando la palla passava a
lui, il suo desiderio di fare tutto da solo faceva cadere spesso del tutto il
valore dell’azione. Akira se ne era accorto, e sfruttava la cosa a suo
vantaggio, mettendolo sotto pressione quando aveva il possesso della palla.
Nello Shohoku, molte cose erano cambiate, difficile non accorgersene. C’erano
delle crepe nella loro squadra, Akagi prima faceva da collante, ma adesso era
diverso. Ryota era un buon capitano, si intuiva un legame molto profondo tra
lui ed Hanamichi, infatti le loro combinazioni erano eccellenti. Buono, era
anche il gioco tra Takeichi ed Hanamichi, anche loro dovevano andare abbastanza
d’accordo. Il punto debole era Kaede. Non passava mai, non faceva gioco di
squadra, certo, se la cavava egregiamente, ma, se gli avversari capivano il suo
limite, per lui non c’era storia. Hishi era sulla sua stessa lunghezza d’onda,
ma, essendo molto meno bravo di Kaede, stentava di più. E poi Kaede… era
cambiato… era irritabile, commetteva errori di nervosismo, inesperienza,
tensione, errori da… matricola… la matricola che non era mai stata… chissà che
cavolo aveva, non che mi interessi, ma… questa storia di volermi parlare,
improvvisamente me ne sono ricordata… il mio cuore perde un battito… adesso, dopo
tanto tempo, lui mi vuole parlare. Come se avesse importanza quello che lui
vuole… mi ricordai improvvisamente le parole di Akira… lui mi ama? Adesso
mi ama? Non c’è da aggiungere un “ancora” alla frase “mi ama”, ma un “adesso”.
Ricordatelo questo “adesso” e non fraintendilo con un “ancora”, che non è mai
esistito.
Vero?
Mi ritrovai a
tremare, ad avere una sensazione strana addosso, come se avessi freddo, come se
fossi stata sotto la pioggia per ore. Arrivai anche a guardare il tabellone con
terrore. Adesso volevo che la partita non finisse mai. Che controsenso. Strinsi
le mani ancora, mancavano quarantacinque secondi adesso… eravamo in vantaggio
di quattro punti, ma la palla l’aveva ancora lo Shohoku. Kaede palleggiava
fuori dalla nostra area, non riusciva ad avanzare, Akira che non lo faceva
passare. Era così strano vederli davanti ai miei occhi tutti e due assieme, in
carne ed ossa… l’angelo della mia vita e il diavolo della mia esistenza. I loro
occhi erano così maledettamente blu, così dannatamente simili che, per un
attimo, un lunghissimo e maledetto attimo, mi sembrò di cercare disperatamente
quelli di Akira e di non smettere di trovare, invece, al loro posto, quelli di
Kaede.
All’improvviso,
il tempo era scaduto. La partita era finita.
Non sappiamo
proprio che significa sentire il tempo. Come dovrebbe essere. E come magari è.
Mi sollevai di
scatto dalla sedia. Mi misi a correre, la gente attorno solo urla silenziose,
come zampilli d’acqua gelata su rocce fredde.
Fredde, perchè
non vogliono sentirla quell’acqua.
Vogliono sentire
il sole, che le bacia dalla culla turchina del cielo.
Voglio sentire
il sole, non più volubile acqua, che scorre e passa.
Gli saltai in
braccio, le mie gambe incrociate attorno alla sua vita e le mie braccia strette
attorno al suo collo.
Lo baciai con
tutta la forza di cui ero capace.
Quella maledetta
forza da roccia, che mi portavo dietro da anni.
Mi strinse,
sorpreso. E mi fece girare su me stessa.
Mi staccai da
lui e gli accarezzai il viso.
Quel suo viso
dolce d’angelo, che non cambiava mai: “Sono contenta che abbiate vinto… Akira…”
“Hanno infilato
Taoka sotto la doccia! Andiamo a vedere!!”.
Sorrisi a Danny
che correva verso gli spogliatoi con addosso la maglia del numero quattro dello
Shohoku, quella di Hanamichi. Feci un gesto di concessione ad Hikoichi in modo
che potesse anche lui andare a godersi l’evento storico, concessione del clima
di festa e vendetta programmata da mesi. Nel tragitto, si misero a litigare
come due bambini su chi dei due avesse giocato meglio. È proprio vero che tutto
il mondo è paese, sembrava di essere ritornati al tempo delle liti eterne tra
Kaede ed Hanamichi. Saranno le situazioni tutte uguali o i ragazzi
tremendamente simili? Propendo per la seconda ipotesi.
Sorrido ancora
come una scema, circondata da una folla di tifosi, ragazzine e giornalisti. Una
di queste, la sorella di Hikoichi, aveva preso per il braccio Akira e se le era
portato dietro per intervistarlo. Quello mi fece venire un po’ meno il mio
sorriso, quella lì si voleva fare Akira da quando lo conosceva, ma ero talmente
allegra che glielo concessi, tanto Akira era innamorato di me, mica di lei.
Ahaha! ghignai nella mia mente sadicamente divertita.
Stavo camminando
per tornare anch’io negli spogliatoi per assistere alla doccia di Taoka, lo
ammetto anche io ci avrei goduto alquanto, quando mi sentii afferrare per il
polso e tirarmi indietro. Cercai di divincolarmi, come se stessi annaspando.
Cercai anche di graffiare il mio fantomatico aggressore, ma non ci riuscii. Mi
sentii trascinare da qualcuno, che mi conduceva con sé. Appena riuscii ad
inquadrare che si trattava di Kaede, smisi di divincolarmi e mi feci trascinare
passivamente da lui. Sarebbe stato perfettamente inutile anche mettermi ad
urlare e prenderlo a calci. Non l’avevo forse imparato a mie spese? Faccio
troppo la melodrammatica in effetti, mi piace farlo, specie quando ho torto
marcio. Quando mai avevo preso a calci Kaede o avevo provato ad oppormi a lui?
Mai, eccola la risposta. Aveva sempre fatto i suoi sporchi comodi. E l’avevo
lasciato fare.
Uno sgradito
pezzo di ghiaccio nel petto, mi trascinò fino ad un corridoio deserto, dove
c’erano degli uffici adesso apparentemente vuoti. Ebbi quasi paura, che voleva
fare? Poi mi ricordai con astio che io ero sempre stata per lui quella che si
doveva nascondere, quella che nessuno doveva vedere accanto a lui. Il giorno e
la notte… lui e i suoi corridoi vuoti, Akira e i suoi baci di fronte a decine
di persone…
Finalmente mi
lasciò il polso, che massaggiai leggermente con l’altra mano. Mi aveva fatto
male. A quanto pare, non ne poteva fare a meno. Forse non sapeva fare
nient’altro.
Sollevai il mio
viso, dandogli un’espressione di fastidio e di odio, e dissi: “Che vuoi?!”
Lui rimase immobile,
guardandomi, poi si avvicinò a me e disse, la voce piatta e fredda più del
solito: “Cos’è questa cazzata che stai con Sendo?”. Ero indietreggiata, finendo
contro il muro.
Lo guardai negli
occhi e risposi dura: “Non sono cazzi tuoi…”. Faceva paura questo odio, faceva
paura quasi quanto l’amore che avevo per Akira. Due lame, ghiacciata una,
incandescente l’altra, che mi tagliavano a fette il respiro.
“Certo che sono
cazzi miei!” urlò, sbattendo le mani sul muro alle mie spalle, ai lati del mio
viso. Sobbalzai e distolsi lo sguardo da lui, che adesso era a pochi centimetri
dal mio viso. Non l’avevo mai sentito urlare così tanto… la sua voce poi…
sembrava quasi rotta… la mia voce invece si era fatta più debole, meno intensa
e meno decisa. Come sempre, mi faceva quasi paura. Quasi, aggiungo… perchè
Kaede non era mai arrivato a farmi paura, anche in quei giorni fatali avevo
avuto molta più paura di me stessa che di lui.
“E da quando
sarebbero fatti tuoi?” risposi in un sussurro, non guardandolo ancora, poi la
mia voce si ruppe del tutto. La luce di Akira era troppo lontana da me. Il suo
mare solo un eco nella mia mente, come la voce delle conchiglie. Totale
dipendenza da lui, ricordi Ayako? E la dipendenza richiede presenza.
Finalmente, lo
guardai negli occhi: “Da quando è affare tuo la mia vita?! Eh, da quando?! Da
quando mi hai lasciato, da quando me ne sono andata o da quando è morto nostro
figlio?! Da quando, eh?! Ricordamelo Kaede, perchè non lo so! O magari me ne
sono scordata!”. Sentivo che stavo piangendo, quindi abbassai lo sguardo. Non
volevo che mi vedesse mai più piangere, mai più, specie per lui.
Tremai, mentre
la sua mano sollevava il mio mento, portando i suoi occhi a tiro dei miei.
Cercai di indietreggiare ancora, ma ero ormai contro il muro. Mi sentivo in
trappola. Quel maledetto destino di sangue, dolore e pioggia mi avrebbe
lasciato libera stavolta? Kaede mi avrebbe lasciato libera stavolta?
“Non devi
piangere… tu odi piangere…” mi disse, guardandomi e avvicinandosi di più a me.
Sentivo il suo respiro sulle mie labbra, chiusi gli occhi, adesso sarebbe
successo. Adesso ancora sarebbe successo, e poco importava che c’era Akira, con
i suoi sette sorrisi diversi, che ci fosse che io l’amavo e che non lo volevo
perdere. Akira, Haruko, Ryota… sarebbero stati tutti la stessa cosa nella mia
testa, nella mia anima che bruciava tutto il resto in lui, nei suoi sguardi che
accarezzavano quell’animale mai morto in me. Ripresi a piangere, più forte,
mentre sentivo le sue labbra sulle mie muoversi leggermente, cercando di
aprirle, sapore di sale nelle mie che rimanevano chiuse. Le sue mani mi
strinsero sulla schiena, attirandomi vicina a lui, mentre mi sembrava che ogni
resistenza fosse vana, vanamente inutile. Rividi nella mia testa tutto quello
che era successo, tutto quello che era accaduto, tutto il dolore che non era
mai andato via, ma non riusciva a toccarmi, a farmi tremare di quella giusta e
necessaria rabbia, che io dovevo provare verso di lui. Li sentivo ancora
addosso i lividi, che lui mi aveva procurato, le ferite che non si
rimarginavano, i tagli che sanguinavano, i colpi inferti, che pulsavano senza
sosta. Eppure, stavo lì a baciarlo. Bè, magari no… almeno a questo non c’ero
arrivata, ero lì immobile, mentre lui baciava me. Sentii ad un tratto un
rumore, come di una porta che sbatteva, e meno male che non ci doveva essere
nessuno in questi corridoi, per una volta Kaede aveva sbagliato i suoi calcoli…
magari, era qualcuno che tornava a casa, oppure qualche giornalista che se ne
andava dopo la partita. Giornalista che se ne andava dopo la partita… come
rompono quelli, sempre a chiedere, sempre a fare quelle maledette domande che
io detesto, come quella là… come si chiama, la sorella di Hikoichi? Ah già… Yayoi Aida, che sbava dietro ad Akira… una scarica elettrica
di inaudita potenza nei miei nervi…
Un corridoio deserto, un altro non questo.
Yayoi che poteva baciare Akira.
E io qui a baciare Kaede.
Che avrei fatto, se lo avessi scoperto?
Sarei impazzita.
E io qui a baciare Kaede.
Che avrei fatto, se li avessi visti?
Sarei morta.
E io qui a baciare Kaede.
Che avrebbe fatto Akira, se mi avesse
vista?
Sarebbe impazzito. Sarebbe morto.
E io sto ancora qui a baciare Kaede.
“Smettila!” urlai, spingendo con forza le
mani contro il suo petto ed allontanandolo da me. Lui finì contro il muro, e mi
guardò stranito. Certo, pensava che ormai avesse vinto. Vinto, come ogni volta
che aveva a che fare con me.
“Tra me e te è finita…” ripetei tra le mie
labbra, come una canzoncina “Non ti azzardare mai più…”
“Eppure, mi sembrava che ci stessimo
baciando… è un po’ incoerente, lo sai?” rispose lui, guardandomi con aria
sospettosa. Non che avesse tutti i torti, che cavolo mi era saltato in mente?
Possibile che mi facesse ancora questo maledetto effetto?
“Tu mi hai baciato, non io…” dissi con
forza. Stavolta, non avrebbe vinto. Non poteva vincere ancora.
“Io sto con Akira…” continuai, guardandolo
ancora e cercando di mantenere il mio sguardo limpido
“Lo so…” rispose lui, facendo un passo
verso di me, al quale io mi feci indietro e dissi: “N-non puoi farti sempre
tutti i cavoli tuoi, e pretendere che la gente ti stia ad aspettare…”. Me ne
dovevo andare. Subito. Immediatamente. Quel maledetto incantesimo esisteva
ancora… m’avrebbe di nuovo portata a lui… e non volevo, non volevo
disperatamente… prima non c’era alcun motivo, adesso ce ne erano infiniti a
trattenermi al di qua del precipizio… e il primo non ero io e il mio dolore, il
primo era Akira e il suo amore.
Feci per voltarmi, ma lui mi afferrò di
nuovo per il polso: “Aspetta… non te ne puoi andare così… io ti devo parlare…”;
stavo già per rispondergli male, lo sapevo che modo aveva lui di parlare, e lo
intuii ancora meglio quando lo sentii avvicinarsi al mio collo, spostando la
coda di cavallo che cadeva sulla mia nuca. Poi lo sentii bloccarsi.
“Che hai, qui?” mi chiese, nel modo più
innocente del mondo, come se stessimo parlando della lista della spesa, e mise
un dito sulla mia nuca. Un dito freddo, che mi diede un brivido lunghissimo.
Stavolta fu forte la domanda sul che cavolo ci facessi lì, tanto forte da
nausearmi. Avevo capito che aveva visto Kaede. Il tatuaggio… un piccolo numero
sette di colore nero, che mi ero fatta il mese prima sulla nuca.
Sette… i sorrisi di Akira…
Sette… il numero sulla sua maglia…
Sette… il giorno del mio compleanno e il
mese di quello di Akira…
Sette… gli anni che avevo, quando morirono
i miei…
E poi… sette…
Sette volte che mi chiedeva di uscire e
dicevo di no, prima di dirgli di sì…
Sette ore a parlare con lui, una notte,
accoccolata tra le sue braccia in riva al mare, mentre faceva giorno…
Sette biscotti, che Akira divora alla
mattina, quelli con le gocce di cioccolato, non con il buco al centro…
Sette scalini, per arrivare alla porta
della camera di Akira…
Sette rose arancio, sulle mie gambe, il
giorno della vigilia di Natale…
Sette fragole, ricoperte di zucchero a
velo, in un piattino giallo, quando mi svegliai per la prima volta nel suo
letto…
Sette nomignoli che mi aveva dato, che
andavano dal “principessa” all’ “ape isterica”…
Forse fu quello
a darmi la forza, non lo so. Ricordare come un mantra quel numero infinite
volte nella mia mente, ricordarlo e capire quanto avesse contato per me in
quest’ultimo anno, ricordare quanto Akira avesse contato per me in quest’ultimo
anno. Non potevo fargli questo, in nessun ragionevole modo.
Distaccai la
mano di Kaede dal mio collo e mi voltai, guardandolo negli occhi. Adesso ci
riuscivo, chissà perchè prima non c’ero riuscita…
Lui mi guardò
perplesso, una leggera smorfia sul volto. Mormorò a bassa voce: “E’ il numero
della maglia di Sendo…”
Annuii, anche se
era solo un millesimo di quello che quel tatuaggio voleva dire per me.
Abbassò lo
sguardo, e, per un po’, rimase in silenzio.
“Io credo di
essere innamorata di lui, Kaede…” bisbigliai, guardando altrove. Sbattei le
palpebre un paio di volte, l’avevo detto ad alta voce, l’avevo detto che amavo
Akira. La gioia mi fece salire le lacrime agli occhi. Certo, l’avevo detto a
Kaede, non ad Akira, ma sorvoliamo… per la prima volta, lo avevo ammesso
compiutamente.
Lui era rimasto
in silenzio. Abbastanza strano che se ne stesse così fermo. Non dico le parole,
che le conta una per una, ma nessuna reazione? Possibile? Mi aspettavo pure uno
schiaffo…
Stavo già per andare
via, ma mi sentii trattenere ancora stavolta per la vita, con un braccio mi
fece ruotare su me stessa e mi strinse tra le sue braccia. Fu quello il solo
secondo, in cui, in tutta la mia vita, provai pietà per lui. Magari, è un
sentimento orrendo, forse più dell’odio, e magari Kaede è l’ultima persona che
ispira un sentimento del genere, ma mi fece quell’impressione, una sensazione
dolceamara che cozzava contro l’immagine forte, che lui ha ed offre di sé. La
pietà… una degenerazione dell’amore prima, e dell’odio poi?
“Non me ne frega
un cazzo di Sendo, niente… non me ne frega un cazzo, mi hai capito, mi hai
capito, Ayako?!” sussurrava sui miei capelli, stringendomi sempre più forte e
togliendomi il respiro. La sua voce era silenziosa, ma nel mio sangue faceva
l’effetto di urlo da accapponare la pelle. Cercai di dirgli di lasciarmi, ma
era come se non mi ascoltasse, ripeteva sempre queste parole come una
filastrocca stonata e non accordata; staccò poi il mio viso dal suo petto, e lo
prese tra le sue mani, portandolo ancora davanti a sé.
“Ti amo, ti amo,
ti amo…” continuava a ripetere, cercando di baciarmi di nuovo, mentre io lo
evitavo ancora, muovendomi a destra e a sinistra.
“Smettila
Kaede!” urlai finalmente con tutta la voce che avevo in gola.
Finalmente, mi
lasciò andare, le sue palpebre che sbattevano, come se si fosse reso conto solo
ora di quello che stava facendo. I suoi occhi erano spaesati, come se mi
vedesse adesso per la prima volta; faceva sempre così, quando facevamo l’amore,
quando mi diceva una frase un po’ più intensa del solito, quando il suo cuore
si apriva… e poi ritornava lui… guardava con gli occhi sbarrati quello che era
stato per un attimo… e forse capiva… puoi anche tenere nelle tue dita una
stella, ma, se le tue mani restano chiuse, se i tuoi palmi non si aprono, se le
tue dita non si sciolgono, nessuno l’avrebbe mai saputo. E avrebbero riso di
quello che tu hai in mano. Perché per loro non hai niente, un pugno di mosche o
poco più, come una sfida di carte dove bari e dici che hai l’asso, e vale più
di tutte le carte, invece è solo un colossale bluff, per far venire fuori un
altro. Questo avrebbero pensato. E magari era pure vero che ce l’avevi l’asso.
Magari era anche vero che mi amava, magari era anche vero, ma… non l’avrei mai creduto,
fino in fondo… perchè avrei avuto bisogno di vederlo il suo amore… sempre… ogni
giorno… come si dice? Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia. Non
quando non c’è una partita e ti è venuta voglia. No. Soprattutto non quando ti
ricordi che ho perso un bambino, che era tuo figlio. Soprattutto non quando mi
hai perso, esattamente come quel piccolo angioletto. Soprattutto non quando Dio
me l’ha rimandato in un’altra forma. E io non ci ho mai creduto in Lui. E
magari non ci crederò mai fino in fondo, ma in Akira devo credere. Almeno in
lui devo credere.
Non dissi né un
“Mi dispiace”, né uno “Scusami”. Quelle parole… le parole sono sempre troppo
importanti… anche se era una bugia, prima che finisse tra me e lui, l’avrei
voluta sentire almeno una di loro sulle labbra di Kaede… per me… perchè mai
nessuna di loro sarebbe stata più azzeccata, più di quel stupido e tardivo “ti
amo”, che per lui doveva essere stato così importante. Un mio “scusami” sarebbe
stato come il suo “ti amo”… stupido e tardivo, anche se magari importante…
quelle parole allungano troppo i discorsi, li dilatano e quelli non finiscono
mai.
Mi voltai e
andai via, correndo nei corridoi come una pazza.
Volevo solo
vedere Akira, solo raggiungerlo.
Lo trovai che
sorrideva imbarazzato alle avances di Yayoi. Mi sorrise, vedendomi, e io
sorrisi a lui, appoggiando la mano sul suo braccio: “Devi andarti ad allenarti,
Sendo, domani c’è la partita contro lo Shoyo!”; lui sorrise ancora e mi strinse
per la vita, mentre Yayoi prendeva il volo. Mi attirò a sé e mi baciò,
ripetendo: “Cercherò di vincere per lei, manager Kuno…”.
“Bravo Sendo…
non ci potrebbero essere parole migliori di queste…” sussurrai a mia volta,
abbracciandolo.
Gelai,
sentendolo dire: “Dove sei stata?”.
Lunghissimi minuti
mi separarono dalla risposta, lunghissimi minuti in cui soppesai le parole. Ere
intere, giorni e vite intere che mi passarono sotto le palpebre chiuse. Poi,
alla fine, come sempre, arrivò la timida risposta.
“Con Hikoichi e
Danny… hanno infilato Taoka sotto la doccia…” sorrisi gaia e frizzante.
Tra la mia
risposta e il suo “Davvero?” contento passarono tre secondi netti.
Uno… li ho mentito e ci ha creduto…
Due… è la cosa giusta, ne soffrirebbe e
non ne avrebbe motivo…
Tre… spero di aver fatto bene…
Dopo il suo
“Davvero?”, mi concessi il lusso di un altro secondo.
Tanto tra me e
Kaede ormai è finita per sempre…
Inevitabile
domanda. Maledetta domanda.
Ne sei sicura?
Parla
in fretta e non pensar
Se quel
che dici, può far male.
Perché
mai io dovrei fingere di essere fragile,
come tu
mi vuoi… nasconderti
in
silenzi, mille volte,
già
concessi,
tanto
poi tu lo sai,
riuscirai
sempre a convincermi che
tutto
scorre.
Usami,
straziami,
strappami
l’anima,
fa di
me quel che vuoi
tanto non
cambia l’idea che ormai
ho di
te,
verde
coniglio dalle mille facce buffe.
Dimmi
ancora quanto pesa
La tua
maschera di cera,
tanto
poi, tu lo sai, si scioglierà,
come
fosse neve al sole,
mentre
tutto scorre.
Usami,
straziami,
strappami
l’anima,
fa di
me quel che vuoi
tanto
non cambia l’idea che ormai
ho di
te,
verde
coniglio dalle mille facce buffe.
Sparami
addosso,
bersaglio
mancato,
provaci
ancora, è un campo minato.
Quello
che resta del nostro passato
Non
rinnegarlo, è tempo sprecato.
Macchie
indelebili, coprirle è reato.
Scagli
la pietra chi è senza peccato,
scagli
la pietra chi è senza peccato.
Scagliala
tu perché ho tutto sbagliato.
(Mentre
tutto scorre- Negramaro)
Finalmente il nuovo capitolo! Allora,
premetto una cosa! Quando ho iniziato a scrivere questa storia, questo,
ovviamente modificato, sarebbe stato l’ultimo capitolo. La storia sarebbe
finita qui perché credevo di aver raggiunto il senso di quello che avrei voluto
dire. Devo ammettere che però questa storia mi ha preso la mano, molto più di
quanto credessi possibile. Non so come spiegarmelo, ma è come se adesso questi
personaggi avessero una vita loro e mi tirassero dove vogliono loro. Quindi,
per vostra disgrazia, questa storia continuerà ancora per un paio di capitoli!
Non so ancora quanti, perché devo praticamente scriverli ed inventarli di sana
pianta, ma il nono è già pronto e sto iniziando il decimo. Voglio però dire
un’altra cosa importante: se ho deciso di continuare questa storia, è stato
anche e soprattutto per le bellissime recensioni che mi avete mandato, dire che
sono le migliori che abbia mai ricevuto è poco! Ma preferisco ringraziarvi,
come si deve uno per volta:
Akane: sono
stata contentissima che tu abbia apprezzato il punto di vista di Rukawa, anche
perché lo ammetto è quello più difficile, credo perché è il tipo di persona che
odio irrimediabilmente, ma di cui poi finisco inevitabilmente per perdere la
testa! Non sono bugiarda nel dirti che nemmeno io so come andrà a finire questa
storia! Come premesso, per me finiva qui, ma poi mi sono resa conto che avevo
lasciato troppe cose irrisolte. Quindi, non so neanche io come finirà;
comunque, spero di continuare a scrivere come piace a te… a me questo capitolo
non piace molto, mi farai sapere tu, ok? Un bacione!
Sasa: la
tua recensione mi ha fatto un piacere immenso! Sai perché? Per gli aggettivi
che hai usato per descrivere il “mio” Rukawa, era esattamente quello che volevo
arrivasse. Che sia più vuoto di prima è un fatto e ti preannuncio che la cosa
andrà anche peggio! Anche se in questo capitolo si è un po’ sciolto… l’ho
dovuto mettere con le spalle al muro, altrimenti… per l’omicidio di Fukuda… non
ci avevo pensato! Comunque, per l’allungarsi di questa fic, credo che ci sarà
tempo e modo! Un abbraccio! Grazie dei tuoi meravigliosi complimenti!
Hotaru Tomoe: prima
di tutto, sono megacontenta che la mia storia ti prenda così tanto! Me
felicissima! Lo stacco temporale mi è venuto perché altrimenti era un po’
difficile descrivere come Ayako scegliesse di stare con Sendo! Nella mia mente,
l’ho concepita come una cosa di una lentezza infinita, quindi la cosa poteva
risultare noiosa. Un giorno, se avrò l’ispirazione, scriverò una storia su come
si sono messi assieme… comunque, ho pensato a Sendo, primo perché ne sono
sempre stata innamorata segretamente, e poi come giustamente hai notato tu, era
la persona più adatta, considerato che cosa Ayako stesse passando! E poi,
siccome sono di una perfidia unica, mi stuzzicava che Ayako, l’unica ragazza
per cui Rukawa abbia mai provato qualcosa, stesse proprio con il rivale per
eccellenza! Ehehhehe!!! Sono iper mega contenta che tu abbia scovato la canzone
dello scorso capitolo, le metto sempre nel dubbio che nessuno le guardi in
faccia! Un piccolo appunto: il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di un
personaggio che mi hai scritto ti piace molto… indovina, chi è? Un mega bacio!
,: non
penso che sia un nick, comunque un mega ringraziamento anche all’autore/autrice
di questa recensione! Come vedi, questa storia non finirà per ora, se ne
andranno ancora parecchi capitoli, sperando di non perdere l’ispirazione!
Comunque, hai indovinato! L’angelo del capitolo 3, è proprio Sendo! In questo
capitolo, l’ha chiamato proprio così… lo considera tale perché l’ha tirata
fuori dalla situazione orribile in cui si trovava, quindi lo definisce così. un
mega bacione e grazie ancora!
Seika: la
persona che mi ha definitivamente convinto a continuare questa storia! Ero
ancora indecisa, quando ho letto le tue meravigliose recensioni e ho deciso di
continuare. È una gioia per una pseudo-scrittrice, quando trova una recensione
così appassionata, completa ed accurata! Solamente per questo ti ringrazio! La
cosa migliore che però tu abbia fatto, è trasmettermi esattamente cosa stessi
provando, e ne sono stata molto felice. Sia perché tutto quello che volevo dire
ti era arrivato, sia perché quello che è il messaggio che volevo trasmettere,
me l’hai riportato tutto per intero, sia perché ero convinta da regina delle
tenebre quale sono che il mio Rukawa fosse anche troppo tenero! Per il finale
romantico, al momento non ne ho proprio idea… comunque, ti ringrazio davvero
tanto per la tua recensione, mi ha dato quella decisione che mi mancava, quindi
grazie! Magari tutti i recensori fossero come te!
Grazie anche a coloro che leggono
e non commentano!
Il prossimo capitolo si chiama Something
awkward, e siccome mi siete particolarmente piaciute con le vostre
recensioni, vi faccio un piccolo e, spero, gradito regalo… un pezzettino del
prossimo chappy! A presto! Un bacio!
“…Allora?!” chiesi ancora, ora la voce
più alta e ferma.
Nessuno mi rispose.
Rukawa scrollò le spalle e fece un passo. Se ne stava andando.
Il tacito segnale di smetterla con le menate.
Kana. Le donne sono sempre le più forti.
“Andiamo in ritiro con il Ryonan”.
“Hanno già fatto gli abbinamenti… a sorteggio…”.
Haruko. Immensamente più forti.
Rimansi basito per un secondo, certo che la sorte, quando ci si
mette, è veramente bastarda..