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Autore: avalon9    20/01/2007    2 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Questa volta ho aggiornato abbastanza in fretta. Allora, il capitolo è un po’ lungo, ma spero che vi piaccia ugualmente. In effetti, la storia in generale procede nel complesso molto lentamente, e forse, ma maggiormente più avanti, tirerà in ballo dubbi e riflessioni che non sono proprio quelli di una ragazzina. Ma il motivo è che ho conosciuto “Inuyasha” possiamo dire da grande e questo, sommato ai miei studi, sta molto influenzando la stesura della storia.

 

Spero comunque che vi piaccia, e che continuerete a seguirla. Grazie infinite a Jame per i suoi commenti, ma anche ha chi legge soltanto.

 

Buona lettura!!!

 

 

P.S.

La prima scena, come molti di voi capiranno leggendola, non mi appartiene, ma è semplicemente la descrizione di una sequenza del terzo film della serie (non dico quale per non rovinarvi la sorpresa^__^).

 

 

 

 

CAPITOLO 29

PIOGGIA

 

 

Neve. Freddo. Vento.

Sulla riva del mare, il sangue gocciolava confondendosi con la sabbia bianca. Con la neve candida. Mentre due figure, immobili, si confrontavano. Due figure identiche, ma al contempo così distanti. Due anime ormai incapaci di parlarsi. Di comunicare come un tempo.

 

“Ve ne state andando, padre?”

 

“Vorresti forse impedirmelo, Sesshomaru?’

 

Un ragazzo. Fissava la schiena del padre. Il suo riflesso sulla luna. Una brutta sensazione. Il presentimento di qualcosa che si sta per infrangere. Definitivamente. Ma la cocciutaggine di non volerlo accettare. E l’orgoglio di non ammettere di non capire. Di sentirsi escluso. Solo.

 

“No, non lo farò. Non ho intenzione di fermarvi. Voglio solo le vostre zanne. Consegnatemi Sounga e Tessaiga

 

“E se mi rifiutassi…arriveresti a uccidere tuo padre?”

 

Silenzio. Nessuna risposta. Il ragazzo non lo voleva. Non lo avrebbe mai voluto uccidere. Batterlo, quello sì. Dimostrargli di essere degno di lui. Anche se era ancora un ragazzino. Dimostrargli di essere capace di impugnare le sue spade come se fosse lui stesso. Voleva solo…rivedere quella sfumatura che attraversava gli occhi del padre quando lui era piccolo. Solo quello.

 

Non rispose. Lasciò che il vento facesse danzare i suoi capelli d’argento, sbattere la stoffa del kimono. Non aveva senso dare una risposta. L’educazione ricevuta lo aveva abituato alla freddezza, ma non alla mancanza di rispetto. E tutto il suo rispetto si condensava verso quella figura che gli stava davanti.

 

“Desideri a tal punto il potere?...Che cosa ti spinge a bramarlo tanto?”

 

“Siamo nati per percorrere la strada del dominio. Il potere ci consente di aprire questa strada”

 

Risposta ovvia. Sensata. Quella che gli era stata insegnata. La risposta che dava al suo maestro quando gli poneva la stessa domanda. Un pensiero appreso, forse senza neanche capirlo davvero. Era l’idea che era stata comune a tutti i membri del suo clan. E quindi doveva appartenere anche a lui. Senza una motivazione vera. Autentica.

 

“Il dominio…Dimmi, Sesshomaru…Tu possiedi qualcosa da proteggere?”

 

Qualcosa da proteggere?

 

Non capì. Non capiva più la persona che si rifletteva nelle sue iridi d’ambra. Così simili, con lo stesso sangue, eppure…eppure così diversi. Cosa avrebbe dovuto proteggere? Cosa significava proteggere? No. Lui non aveva nulla da proteggere. Perché avrebbe voluto dire che provava qualcosa. Che provava sentimenti e gli era stato insegnato che i demoni non provano nulla. Solo il piacere della battaglia.

 

“Non ho alcun bisogno di farmi rallentare da simili sciocchezze”

 

Distese nell’aria la mano artigliata. Se quello era l’unico modo per dimostrargli che era cresciuto, che era degno di lui, allora…avrebbe combattuto. Contro di lui. Contro suo padre. Lo avrebbe battuto. E gli avrebbe ricordato cosa vuol dire essere un demone. Cosa significano le parole che anche lui doveva aver appreso nella sua infanzia. Gli avrebbe ricordato l’importanza del dominio.

 

Non riuscì a muovere un muscolo. Il vento cambiò d’improvviso, circondò suo padre, agitò la lunga pelliccia bianca sulle sue spalle, i suoi capelli d’argento. Lo vide trasformarsi. Per la prima volta nella sua vita, lo vide nella sua vera forma. Un grandissimo cane bianco, che ululava alla luna. Maestoso. Regale. Nonostante le ferite. Incuteva timore. Soggezione.

 

E lui fu incapace di impedirsi di sussultare, di sbarrare gli occhi davanti a quello che vedeva. A quello che sentiva. Una forza smisurata che elettrizzava l’aria, confondendosi con l’ululato profondo. Quasi triste.

 

Lo vide spiccare una corsa folle verso il bosco, verso una sciocca, insulsa donna umana. Lasciandosi dietro una scia scarlatta. Anche quando ormai la sua figura era un’ombra fra le ombre, la sua voce era palpabile nella sua mente. Quella domanda…

 

Tu possiedi qualcosa da proteggere?

 

Fissò ancora per un istante la boscaglia, poi si girò stizzito. Non riusciva più a comprenderlo. Non capiva perché volesse andare a rischiare la vita solo per una donna umana. E per un bastardo. Sì, per un bastardo…

 

“Sciocchezze”

 

S’incamminò lungo la battigia deserta. Non lo aveva nemmeno visto in viso. Non aveva neanche potuto sapere se le sue risposte gli erano piaciute, se lo avevano reso fiero di lui. Non gli aveva detto nulla. in elogio in rimprovero. Lo aveva lasciato con quella domanda.

 

Continuò a camminare finchè un dolore improvviso al petto lo costrinse a inginocchiarsi nella sabbia fredda e bagnata. Ansimando. Si voltò verso l’entroterra. Stupito. Incredulo. Eppure, non aveva nessun dubbio. Anche se non ci voleva credere. Era morto. Suo padre…suo padre era morto. In modo indegno di lui.

 

Era morto. Lo aveva visto solo poche ore prima. E ora non lo avrebbe rivisto mai più. Quella domanda, erano state le ultime parole che gli aveva detto. Il suo ultimo insegnamento. L’unico che suo figlio non capì.

 

*****

 

Sesshomaru aprì di scatto gli occhi, sollevandosi dal piano del tavolo con un gesto improvviso. Si sorprese del respiro affannato, del sudore che gli imperlava la fronte. Si passò una maso sul viso, stropicciandosi gli occhi spenti.

 

Era da un po’ che quel ricordo continuava a bussare alla sua mente. Con insistenza. Bastava che lui abbassasse un attimo la guardia, e quelle immagini iniziavano a tormentarlo. Assieme ai suoi interrogativi. Alle sue domande che sarebbero restate per sempre senza risposta.

 

Aprì la finestra e si lasciò investire dalla pioggia fredda che batteva incessante. Uno scroscio continuo. Un fischio assordante nelle orecchie. Non vi badò. Non diede peso al fatto che il kimono si stava bagnando, che il vento impetuoso si insinuava nella stanza gettando in aria le varie pergamene e facendo ondeggiare in modo preoccupante la lucerna. Non sentiva nulla oltre il rumore dei suoi pensieri.

 

Due settimane. Erano due settimane che quella sensazione di vuoto era esplosa in lui. Antica. Eppure, ancora così bruciante da togliere il respiro. Annichilente. E a lei si sommavano le preoccupazioni e la frustrazione di una guerra che non voleva iniziare apertamente ancora, ma che si consumava in scontri alla macchia. In una guerriglia sfibrante.

 

Due settimane…Quella notte era rientrato molto tardi. Sotto un cielo che vomitava acqua da ore. Dopo uno scontro all’arma bianca con un drappello nemico. Dopo aver sentito molti dei suoi soldati morire dopo quelle detonazioni, dopo aver rischiato lui stesso di perdere la vita. Non ce la faceva. Nonostante si fosse sforzato di mantenere la concentrazione massima, in campo aperto e in condizioni avverse, non era riuscito a fare molto. Era stato costretto alla ritirata, pur avendo inflitto numerose perdite al gruppo nemico.

 

Lui. Sesshomaru. Lui era stato costretto a ritirarsi. A voltare le spalle. Non per paura. Quello mai. Ma per incapacità. Era diventato incapace di combattere fuori da un allenamento ben calibrato. Tutto l’esercizio cui si era sottoposto con un suo luogotenente, tutta la fatica di quelle settimane…Svanita. Dissolta davanti alla realtà. La cecità gli impediva di difendersi. Di combattere come una volta. Lo esponeva, anzi, a un pericolo mortale. Era rimasto fermo, nel centro della mischia, assordato dai rumori, frastornato. Per un istante, aveva pensato di trasformarsi. Ma poi, aveva subito scartato l’idea. La sensazione di confusione sarebbe solo aumentata, e inoltre sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile con la sua mole enorme.

 

No. Era stato costretto ad andarsene. Ricevendo anche alcune frecce. Aveva sentito il sibilo, ma troppo tardi per poterle schivare. Confuso nel clangore dello scontro. Aveva spezzato il legno senza neanche preoccuparsi di estrarre la punta e aveva scagliato un Soryuha, con furia cieca. Travolgendo nemici e soldati.

 

Era tornato a palazzo, psicologicamente abbattuto. Non era riuscito a combattere, non era stato in grado di percepire gli avversari e di attaccarli come in passato. Si era mostrato debole. Maledettamente debole. Aveva sentito il metallo iniziare a bruciargli. Non c’era veleno nelle frecce che aveva in corpo, tuttavia, benché il suo corpo si rigenerasse da solo, non lo allettava l’idea di mantenere al suo interno elementi estranei. Avrebbe dovuto andare da Alessandra, a farsi estrarre le punte. Ma in quel momento non se la sentiva di vederla. Di parlare. Perché lei si sarebbe subito accorta di quello che era successo. E avrebbe iniziato a insistere perché si allenasse meglio. O anche perché non si esponesse in prima persona.

 

Aveva sospirato, raccogliendo i lunghi capelli in una coda alta. Erano fradici. Come il kimono e la pelliccia, del resto. Aveva deciso. Non sarebbe andato dalla ragazza. Jacken era più che sufficiente per togliere alcune schegge di metallo. Lo avrebbe fatto chiamare.

 

Era entrato nella sala delle riunioni ancora perso nei suoi pensieri, quando aveva avvertito quel sussurro sorpreso.

 

Inutaisho…?”

 

Si era voltato verso la voce, mettendo la mano all’elsa della katana. Non la riconosceva. Quel timbro gli era del tutto estraneo. Sconosciuto. Eppure, in quel luogo potevano accedere solo i generali, o chi lui avesse convocato. Ma non aspettava nessuno. Almeno, non così presto.

 

“Chi sei?”

 

Voce fredda. Di comando. Molto simile, ma non uguale. Si era voltato di fronte, e Kumamoto aveva potuto vederlo bene, alla luce tenue della lucerna. Per un attimo, quando era entrato avvolto dall’ombra, lo aveva scambiato per il suo vecchio amico. Lo stesso portamento, due spade al fianco, l’armatura lucente e i capelli raccolti. Ma era stato solo un attimo. Non era Inutaisho quello che gli stava di fronte. Era il Principe. Il suo piccolo principe.

 

Sesshomaru sospirò, poggiandosi stancamente all’infisso. Il fatto di esser stato scambiato per suo padre lo aveva lusingato e rattristato al contempo. Anche se non lo aveva mostrato subito. Come non aveva palesato il sollievo dato dal sapere a palazzo quel vecchio generale. Certo, ricordava poco di lui, il suo volto, ma lo sapeva uno dei migliori. Un amico fidato di suo padre. Un alleato prezioso. Forse l’unico generale di cui si sarebbe potuto fidare ciecamente, come si fidava suo padre. Eppure…eppure lo aveva tenuto a distanza. Quando Kumamoto si era avvicinato per abbracciarlo, aveva avuto uno scarto nervoso e aveva raddrizzato le spalle. Come a imporre la sua autorità.

 

“Già, l’etichetta…Perdonate, Signore, questo vecchio soldato. Non è più avvezzo a vivere in un grande palazzo”.

 

Lo aveva sentito inginocchiarsi e armeggiare con la sua spada. Probabilmente l’aveva sciolta e ora gliela stava tendendo, per sapere se era reinvestito dell’incarico o congedato. Ma perché gli aveva fatto male il saperlo in ginocchio? Perché aveva ricordato l’abbraccio che si scambiava con suo padre e che lui aveva rifiutato? Era una cosa normale, inginocchiarsi davanti a lui. Portargli rispetto. L’unica che si ostinava a non mostrarglielo era Alessandra. Ma a lei era permesso. Tanto l’youkai sapeva che non l’avrebbe mai piegata.

 

Aveva accettato la katana e lo aveva reinvestito del suo grado. E se ne era andato. Senza dirgli una parola. Senza informarsi di nulla. Benchè fossero più di duecento anni che non lo vedeva e non aveva sue notizie. Ma lui apparteneva al passato. A quel passato che gli faceva male ricordare e poi, lui aveva conosciuto suo padre.

 

Possibile che tema il suo giudizio?...Io…?

 

*****

 

Alessandra finì di filtrare il preparato e chiuse l’ampolla, sistemandola poi assieme alle altre. Prese un respiro profondo, ravvivandosi i lunghi capelli ramati, e tornò a concentrarsi sul suo interlocutore.

 

Era da un po’ che si sentiva osservata. Con discrezione, certo, ma quella sensazione le era corsa sulla pelle come un brivido. All’inizio, aveva pensato a qualche cortigiano che cercava di sorprenderla in atteggiamenti ambigui con il Principe, poi a un qualche curatore, che intendeva vendicarsi per l’offesa subita.

 

Già, un’offesa…perché Sesshomaru l’aveva nominata archiatra reale. Lei. Proprio lei che di medicina aveva solo poche nozioni apprese quasi per gioco, si trovava ora a ricoprire una delle cariche più importanti del palazzo. Mettendo in ombra demoni molto anziani e molto esperti. Sicuramente molto più di lei. E che aspettavano solo un suo passo falso per tacciarla di incapacità ed eliminarla. Di nuovo sotto pressione, quindi, ma almeno adesso sapeva da chi principalmente doveva guardarsi. E poi, fortunatamente, non c’era bisogno frequente del suo intervento. Finora, nulla di importante. Ma i problemi sarebbero iniziati con la guerra. Lì, allora, la ragazza avrebbe dovuto davvero mostrare gli artigli. Per far vedere a tutti che Sesshomaru non era impazzito affidandosi ad una ningen, e che quella ningen era perfettamente capace di assolvere il suo compito.

 

“Andrete da lui anche stasera, Alessandra-chan?”

 

Alessandra sussultò impercettibilmente. Si era smarrita nei ricordi. Si concentrò di nuovo e annuì con un sorriso all’uomo che le stava di fronte. Kumamoto aveva deciso di incontrare di persona la ragazza che aveva gettato scompiglio fra i generali per la sua freddezza e la considerazione in cui la teneva il Principe.

 

L’aveva osservata a lungo, anche se non si era mai mostrato apertamente. Prima regola: studiare il soggetto desiderato da lontano. Per non intaccare la sua naturalezza. Da quello che aveva sentito, si aspettava una ragazza frivola e capricciosa, che aveva irretito il suo signore a tal punto da ottenere una carica importante come quella di medico di corte solo per aver libero accesso alle sue stanze. Invece, aveva scoperto una ningen riservata e seria, che trascorreva la maggior parte delle sue giornate studiando, e dedicando i pochi momenti liberi alla piccola Rin o alla scherma. Un archiatra scrupoloso, anche , e che non aveva mai avvicinato il Principe senza che non fosse presente anche una terza persona.

 

Lo aveva stupito. E conquistato. Anzi, quasi gli era dispiaciuto che le voci relative alla sua relazione con l’youkai non si fossero rivelate fondate. In fondo, quella ragazza sarebbe stata una compagna adatta per lui. Anche Inutaisho l’avrebbe approvata, benchè umana. Ecco. Quello era un particolare dolente.

 

“Sì, Kumamoto-sama, ho appena finito di distillare un nuovo composto. Spero solo che faccia effetto”

 

Il generale annuì, e le rivolse un sorriso gentile. Lui era uno dei pochi che le sorridesse in modo spontaneo a palazzo. Lui, sua figlia e Rin. Pochi davvero. Si potevano contare sulle mani. E a loro si dovevano aggiungere anche quei due demoni-lupo: due principi, se era riuscita a capire bene. Koga e Ayame.

 

Era stato il loro arrivo a permettere al vecchio generale di avvicinarla. Le si era affiancato sul corridoio esterno al secondo piano, quello che dava sulla piazza d’armi principale. E le aveva spiegato il motivo di tutto quel movimento,che l’aveva attirata fuori dalla biblioteca. Le aveva spigato con gentilezza chi fosse arrivato, presentandoglielo come il figlio di un caro amico suo e del padre di Sesshomaru.

 

Era stata la prima volta che Alessandra avesse sentito qualcosa sulla famiglia del bel demone. A palazzo non aveva mai incontrato nessuno. E non si era mai neanche azzardata a chiedere. Troppo rischioso all’inizio. Ma in quel momento, la domanda le uscì spontanea dalle labbra anche se se ne pentì subito, scusandosi e allontanandosi prima che Kumamoto potesse risponderle. E da quel momento il vecchio soldato aveva preso la sua decisione. Era con quella ragazza. Le piaceva.

 

“Sono certo che prima o dopo troverà un rimedio, Alessandra- chan

 

“La ringrazio”. Accennò un piccolo inchino e gli allungo una scatolina di lacca, nera con sbalzi rossi. “Questo è per lei, Kumamoto-sama. Per ringraziarla”

 

Il generale prese l’oggetto e si stupì scoprendolo pieno di una sostanza molle e vischiosa, dal profumo di resina. Ma soprattutto si commosse quando Alessandra gli spiegò che era un unguento, che aveva preparato per lui, perché aveva notato che la sua gamba sinistra gli dava qualche problema.

 

Quella ragazza era incredibile. Lo aveva visto si o no tre volte, e si era preoccupata di preparargli un unguento per alleviargli il fastidio. E per ringraziarlo, aveva anche detto. Ma ringraziarlo di cosa, gli chiese.

 

“Per non avermi giudicata subito”

 

Alessandra raccolse alcune provette e bende, disponendole su un basso tavolino di legno di rosa laccato. Era quasi ora. Koga sarebbe andato a far rapporto a Sesshomaru, e lei ne avrebbe approfittato per medicare il demone. Non avrebbe potuto parlare con lui, fargli una carezza, ma non le importava. Da due settimane,ormai, poteva vederlo. E le bastava. Le bastava saperlo in buona salute e potergli stare accanto anche se solo per il tempo di una medicazione.

 

In quei loro incontri, il bel demone non le rivolgeva neanche la parola. Si limitava ad assecondare il movimento delle sue mani con il capo, ma con la mente era concentrato sulla conversazione che intratteneva. Non necessariamente con Koga. Poteva essere chiunque. Era solo un modo per non cedere all’impulso di baciarla. Così come era una maschera il tono freddo con cui la congedava. Ma nei loro gesti, nei loro silenzi, si celavano discorsi eterni, che nutrivano le loro anime costrette ad ignorarsi. A fingere.

 

Kumamoto la vide alzarsi e lo fece a sua volta, aprendole la porta scorrevole. Sesshomaru non gli aveva mai detto nulla in quelle settimane su quella ragazza. Mai una parola. Ma lui si era accorto che, alla sera, il Principe sembrava aspettare impaziente il suo arrivo. Solitamente, lo raggiungeva nella sala delle riunioni, dove si trattenevano fino a tardi. Alessandra entrava silenziosa, ignorando gli sguardi maliziosi dei generali e si sedeva accanto al Principe. E, dopo averlo fasciato, se ne andava. Ormai, la cecità dell’youkai era un fatto noto a tutti. Anche se nessuno osava mettere in discussione la sua attitudine al comando.

 

Kumamoto la vide incamminarsi come al solito verso l’ala sud; sorrise dentro di sé. Forse aveva trovato il modo di ringraziarla dell’unguento. Prima del previsto. La fermò sfiorandole un braccio e la superò, sussurrandole alcune parole, che fecero sussultare Alessandra e sorridere lui. La lasciò dirigendosi all’entrata principale del palazzo: doveva fermare Koga prima che chiedesse del Principe.

 

Con la coda dell’occhio, vide Alessandra incamminarsi verso il corridoio esterno, leggera e forse anche un po’ agitata. Probabilmente, stava ancora pensando alle sue parole.

 

“Il Principe è nei suoi appartamenti”

 

*****

 

Non la sentì entrare.

Troppo smarrito nei suoi echi interiori. Troppo impegnato a domare quelle emozioni che lo avevano svegliato all’improvviso. Non gli capitava spesso di addormentarsi così, sul suo tavolo da lavoro. Ma in quei giorni la stanchezza era davvero molta. Si accumulava sempre di più, senza lasciargli il tempo necessario a riprendersi completamente.

 

Anche se, doveva ammettere, la presenza a palazzo di Kumamoto lo aveva tranquillizzato non poco. Si fidava di lui, e anche se non gli aveva assegnato incarichi fuori le mura, almeno della parte riguardante l’amministrazione interna poteva dirsi sollevato. Certo, tutto doveva svolgersi sotto la sua supervisione, ma anche se il generale non gli avesse riferito tutto nei dettagli ogni giorno, non sarebbe caduto il mondo. Quel demone aveva una secolare abitudine alla vita militare, e anche se non lo accettava facilmente, nonostante la sua età, lo superava di molto ancora.

 

Ricordava bene le reazioni che avevano avuto gli altri generali quando lo aveva reintegrato nella schiera. Speravano che il posto vuoto venisse occupato da uno dei loro rampolli. Un ragazzetto forse anche istruito nel campo militare, ma completamente inesperto e più propenso alla bella vita; ma lui in quel momento aveva bisogno di un demone esperto, non di un bamboccio da istruire. E Kumamoto era l’uomo ideale. Anche perché di energie ne aveva ancora molte, nonostante le molte battaglie, i molti assedi e le molte veglie notturne sulle spalle.

 

Alle insinuazioni di un suo congedo, quel giorno, Kumamoto aveva alzato la testa e girato intorno lo sguardo come un vecchio leone circondato da cuccioli divenuti troppo petulanti.

 

“Io non ho bisogno di nessun riposo. E sono ancora in grado di insegnare a chiunque qui dentro, escluso il Principe- ma si capiva benissimo che intendeva “incluso il Principe”- come si tiene in mano una katana”

 

Sì. Il vecchio generale di suo padre sarebbe stata la colonna della sua cerchia. Anche se questo avrebbe significato averne gli occhi costantemente addosso, sentirsi continuamente sotto esame e paragonato a suo padre. Una situazione che non gli piaceva proprio per nulla. Ma che era costretto a sopportare.

 

Per quanto riguardava i problemi esterni, però, i più gravosi, per quelli non poteva far affidamento su nessuno. Gli altri suoi subalterni lo seguivano soltanto perché era lui il più forte e perché lo temevano, ma non c’era nessun altro tipo di legame. Lui non aveva provveduto a crearne, e poi non gli avevano mai ispirato molta fiducia. Se anche suo padre tendeva a delegar loro incarichi minori, un motivo doveva esserci.

 

Restava solo Koga. Il giovane principe degli Yoro era estraneo a quel mondo. Si vedeva che faticava a resistere, fra le mura del palazzo, e che scalpitava per uscire. Ogni occasione era buona. Si prestava a qualsiasi missione. Purchè lo portasse lontano da quel luogo soffocante.

 

In fondo, lo capiva. Anche se i loro caratteri erano opposti, capiva il suo desiderio di libertà. La natura dell’ookami lo portava a correre col vento, così come la sua lo costringeva fra le mura di quel palazzo. Anche se erano odiose anche a lui. Quando aveva scoperto che era lui il figlio di un antico alleato di suo padre, di uno dei suoi migliori amici, subito gli si era materializzata nella mente l’immagine di Rin. Come avrebbe reagito a scoprire che il signore dei lupi che l’avevano uccisa era nel castello? Poco lontano da lei?

 

Non aveva potuto cacciarlo, ma il suo primo ordine era stato quello di precludergli i giardini interni. Senza dargli spiegazioni. Aveva provato il desiderio di proteggere la bambina. Di tenerle nascosta una realtà che la spaventava ancora troppo. Gli aveva dato quell’ordine, e fin da subito Koga si era rifiutato di eseguirlo. Almeno senza una motivazione precisa. C’era voluto l’intervento di Ayame per impedire che la situazione degenerasse.

 

Ma nonostante l’attrito iniziale, il principe degli Yoro era ancora il miglior collaboratore che si potesse aspettare. Per potenza e velocità. Per capacità di dominio. Non lo eguagliava, certo, ma riusciva a mantenere l’ordine nelle sue truppe in modo esemplare, impedendo quegli attriti che serpeggiavano invece nel resto dell’esercito.

 

La mano che gli sfiorò la spalla lo fece sussultare. Non si era accorto di non essere più solo. Ma appena focalizzò chi fosse l’intruso, si rilassò. Era contento che fosse lei.

 

“Rischi di ammalarti, con questo freddo”.

 

Sorrise. Non avrebbe mai imparato che un demone non si ammala, almeno non per un po’ di pioggia. O forse, lo sapeva bene, ma era un modo come un altro per avviare un discorso. Per mostrarsi interessata a lui.

 

“Vieni. Sei tutto bagnato”

 

Sesshomaru la sentì allontanarsi da lui, e sorrise impercettibilmente. Averla così vicina, sentirne la voce, era il miglior rimedio alle sue preoccupazioni. Aveva fatto bene a nominarla archiatra. Lei era la sola a sapere come combattere il veleno che prosciugava i demoni del loro youki; ne aveva avuto lui stesso la prova. Se questa guerra fosse scoppiata, la sua esperienza sarebbe stata utile. E poi, aveva trovato un modo per giustificare la sua presenza a palazzo, dissipando anche un po’ le malelingue.

 

Alessandra lo osservò con la coda dell’occhio. Appoggiato allo stipite, avvolto dalla nebbia leggera che saliva dall’esterno e illuminato dal tenue riverbero ambrato della lucerna. Era bellissimo. Riusciva a incantarla anche senza far niente, mentre rincorreva il filo dei suoi pensieri. Doveva avere molte preoccupazioni. Non ultima proprio la cecità.

 

Alessandra sapeva che gli impediva di combattere come in passato, che lo esponeva alla furia dell’avversario e lo lasciava completamente indifeso. Sapeva che, in più di uno scontro, lui era stato ferito. Nulla di grave, vero. Graffi superficiali. Ma che intaccavano l’orgoglio. Sapeva che si era allenato a lungo, con un suo subalterno, ma senza risultati concreti. E non se ne era sorpresa. Figuriamoci se un sottoposto si impegnerà mai seriamente a sconfiggere il suo signore. No. Ci sarebbe voluto qualcuno che non lo temesse.

 

Un lampo. Fendette il cielo, regalando sfumature d’acciaio alla figura del bel demone. Sembrava così triste. E Alessandra avrebbe tanto voluto che le parlasse di quello che lo faceva preoccupare. E invece, lui si teneva tutto dentro. Mai un gesto o un’espressione che le permettesse di capire a cosa pensasse. Aveva scoperto che suo padre era morto, anche se non sapeva in quali circostanze. Si era lasciata sfuggire la domanda, ma se ne era subito pentita. Era da lui che voleva le risposte, non da altri. Ma forse, se voleva riuscire ad aiutarlo di più, avrebbe dovuto trovare la forza di chiedere. O di interrogare lui direttamente. Anche a costo di fargli del male. In fondo, lui non le aveva forse rivolto con insistenza delle domande, per smuoverla e farle ritrovare la parola?

 

Quando un nuovo squarcio di luce attraversò il cielo, l’youkai rientrò e si sedette. Era completamente bagnato, lavato dall’acqua gelida di quel temporale d’inverno. La pelle fredda, cosparse di mille goccioline. I capelli appiccicati al volto e al kimono. Alessandra sbuffò. Certe volte si comportava come un bambino: che bisogno c’era di restare sotto la pioggia? Però, se fosse stato davvero un bambino, si sarebbe messo a rincorrere le gocce, invece lui era rimasto immobile. Forse per unire un pianto silenzioso e asciutto a quello del cielo.

 

Sesshomaru la sentì avvicinarsi e si voltò interrogativo verso di lei, quando avvertì le mani della ragazza sciogliere il suo obi e cercare di sfilargli il kimono. Lo stava spogliando. Senza motivo. E, istintivamente, Sesshomaru la fermò, richiudendo i lembi dell’abito sul petto. Incredibile. Era in imbarazzo. Sapeva benissimo che l’aveva già visto a torso nudo, ma quella volta era incosciente e non aveva potuto opporsi.

 

Non voleva che lo vedesse nudo. Anche se non ne capiva il motivo. I demoni addetti al servizio lo avevano già visto e non si era mai sentito in imbarazzo. Non aveva mai provato vergogna nel mostrare il suo corpo. Ma con lei era diverso. Anche se non lo voleva ammettere.

 

Alessandra rise, per dissimulare l’imbarazzo che aveva avvolto anche lei. Neanche lei sapeva esattamente cosa le fosse preso. Spogliarlo…Aveva davvero cercato di spogliarlo. Ma non voleva fare nulla di male, solo evitare che si raffreddasse. Rise, anche perché era la prima volta che lo vedeva così impacciato. Lo aveva sentito irrigidirsi al suo tocco e ora la osservava con una punta di sorpresa e sconcerto negli occhi vuoti. Il grande guerriero, il demone più potente, messo con le spalle al muro dal semplice tocco di una ningen. La situazione era davvero comica.

 

“Se non ti cambi, ti ammalerai”

 

Lo vide come risvegliarsi da un sogno, alzarsi e sparire dietro ad una porta. Forse lo aveva offeso. Forse se ne era andato perché aveva cercato di spogliarlo. Ma i suoi abiti era fradici, e lei voleva solo evitare che si raffreddasse. Anche se sapeva benissimo che per un demone le condizioni atmosferiche sono irrilevanti.

 

Sesshomaru ricomparì poco dopo, con in dosso un komon blu con un semplice motivo ricamato in argento. Era un abito molto informale, forse per sottolineare che con lei non voleva mantenere un atteggiamento improntato all’etichetta. Gli stava bene, quell’abito. Gli fasciava il corpo denotando il suo fisico, magro e prestante.

 

Quando si fu seduto, l’youkai avvertì qualcosa sulla testa. Un panno a coprirla, e poi mani leggere che gli frizionavano i capelli bagnati. Alessandra non gli aveva detto nulla; si era limitata a sedersi dietro a lui e adesso gli stava asciugando i capelli con una spugna, percorrendogli il capo con movimenti lenti e rilassanti. Sesshomaru sentì imbarazzi e tensioni dissiparsi sotto quelle carezze innocenti, e si rilassò completamente. Era da più di un mese che non stavano da soli. Che non avevano occasione di parlare come quando dormivano nei boschi all’addiaccio.

 

Ora avrebbero potuto conversare di tutto quello che volevano, ma non trovavano le parole. Non volevano rompere una sospensione per loro preziosa. Avrebbero avuto molto da dirsi, da raccontarsi. Eppure, preferirono il silenzio. Come lo avevano sempre preferito alle parole. Anche quando il demone non era più stato in grado di conversare con la forza del suo sguardo.

 

“Alessandra…”

 

La ragazza interruppe il suo lento massaggio. Forse gli aveva fatto male. Sesshomaru, invece, assottigliò u po’ le iridi, percependo la sottile agitazione che la faceva tremare impercettibilmente. Le prese un polso e la costrinse a sedersi davanti a lui, togliendosi la stoffa dalla testa. Quando il panno scivolò, la ragazza non potè evitare una leggera risata, che sorprese il demone.

 

“Cosa c’è?”. La sua voce. Calda. Sensuale. Con una punta di curiosità. Quanto le piaceva quella voce. Soprattutto quando non aveva il tono del comando. Quando non era la voce del Principe, ma del ragazzo.

 

“Sei buffo” gli rispose, insinuando le dita sottili nei suoi capelli, risistemando quello che lo strofinio continuo aveva mosso e scompigliato. Fino a regalargli una pettinatura improbabile. L’youkai chiuse gli occhi a quel tocco. Bastava un solo gesto di lei a far naufragare qualsiasi suo intento. Quella ragazza era amabilmente pericolosa. Perché riusciva ad azzerare ogni sua volontà.

 

Un nuovo fulmine si infranse, accecando con la sua luce, quando Sesshomaru si piegò all’improvviso su di lei per rubarle un bacio. Agognato. Desiderato. Passionale.

 

Alessandra provò l’impulso di allontanarsi, per il timore che qualcuno gli scoprisse. Ma poi si abbandonò a lui, cingendogli il collo e lasciandosi stringere. Aveva desiderato la sua bocca, il suo calore, il tocco gentile della sua mano. In quel mese le era mancato. Tanto da impazzire.

 

L’youkai la sentì rispondere al bacio. Prima timidamente, poi con desiderio crescente. L’aveva desiderata. In quel mese, prima la lontananza coatta e poi il fingere indifferenza avevano esasperato le sue emozioni. E adesso che lei era lì con lui non aveva saputo resistere. E si era abbandonato all’istinto. Come poche volte gli capitava. Ma ormai sembrava sapere che con quella ragazza era solo l’istinto la sua arma. Assecondare quello che sentiva, senza ragionare troppo sulle azioni. Perché era cosciente che solo in quel modo avrebbe potuto starle accanto senza paura di ferirla. Perché per istinto si sarebbe fermato prima di farle del male. Come era già accaduto in passato.

 

La strinse a sé, insinuando la mani nei suoi capelli, scandendo ad accarezzarle la nuca, il collo, cingendole le spalle. Non era mai sazio del suo profumo, del suo sapore. Si lasciò cadere sui cuscini trascinandola con sé. Ora era distesa su di lui, con la testa sul suo petto. Le accarezzava il viso con gli artigli, sentiva il suo sorriso, il suo cuore battere impazzito e il tremore imbarazzato del suo corpo.

 

Fuori dalla finestra, la pioggia cadeva con forza sempre maggiore, in uno scroscio incessante che copriva ogni altro rumore. Ogni pensiero. Lasciando solo le emozioni. I sentimenti. Mentre bagliori accecanti si rincorrevano sempre più frenetici nel cielo, esplodendo in tuoni assordanti.

 

Alessandra osservava il cielo grigio e scuro della notte, lasciandosi cullare dal respiro tranquillo del ragazzo, dal tocco della sua mano. Avrebbe voluto restare stretta a lui. Chiudere gli occhi e addormentarsi fra le sue braccia. Come prima di arrivare a palazzo.

 

“Alessandra…”

 

Alzò gli occhi su di lui. La testa sprofondata in un cuscino rosso, con i capelli sparsi attorno. Gli occhi vuoti pieni di emozioni che difficilmente avrebbe espresso a parole, che probabilmente avrebbe sempre ignorato. Un sorriso leggero a increspare le labbra sottili.

 

“Sei felice qui, a palazzo?”

 

Il sorriso della ragazza si spense. Un po’ per la sorpresa, perché non si sarebbe mai aspettata quella domanda. Non si sarebbe mai aspettata che lui le facesse una domanda del genere. Il demone freddo e distaccato, che considerava i sentimenti come inutili sciocchezze, quel demone che amava, ora le stava chiedendo se fosse felice lì. Mentre era fra le sue braccia.

 

Il suo sorriso si spense. Anche perché non ci aveva mai voluto pensare veramente. Non si era mai posta quella domanda, e se si affacciava alla mente la ricacciava subito indietro. Aveva deciso di vivere accanto a lui, in qualsiasi modo e senza preoccuparsi del futuro. Di ignorare il passato. Anche se talvolta le tornava in mente la sua casa fra le montagne. I luoghi della sua infanzia. E la nostalgia si faceva sentire. Forte. Quasi come una malattia. Anche se ormai era sola, nel suo mondo, non poteva evitare di non desiderare di tornarci.

 

“…Sì…”

 

“Non mentirmi”

 

Alessandra sospirò. Già. Impossibile mentirgli. Ormai, la conosceva troppo bene. Riusciva a leggere nelle sfumature della sua voce. Nelle inflessioni vocali. Ma, in fondo, non gli aveva mentito. Gli sfiorò le labbra con le sue, e si mise a sedere, lasciando che il demone disteso al suo fianco giocasse con i suoi capelli e le pieghe dell’obi.

 

Sesshomaru non aveva fretta. Aveva tutta la notte. Non voleva che le desse una risposta affermativa per farlo contento. Voleva che gli dicesse la verità. Per questo, le lasciava il tempo di soppesare le parole. Solo, voleva sentire la verità. Se davvero si trovava bene lì, a palazzo, se c’era qualcosa che la infastidiva. Se se ne voleva andare.

 

L’aveva sentita sedersi accanto a lui, come se volesse pensare un attimo la risposta. E lui continuava a tormentare le pieghe della sua veste, per scacciare la tensione di quel silenzio che era calato fra loro. Avrebbe potuto ignora quella domanda, e continuare a credere che lei stesse benissimo lì, in quella situazione snervante, che non concedeva loro neanche il tempo di un saluto innocente. Con una guerra alle porte e l’ostilità di tutta una corte. Velata verso di lui, aperta verso di lei.

 

Il bel demone avrebbe potuto ignorare tutto, e illudersi. Non aveva voluto. Non voleva metterla in una situazione di sofferenza, di rimpianto. Anche se adesso avrebbe potuto dire che no, non era felice lì. Che si sentiva soffocare e avrebbe voluto andarsene. Che voleva tornare nel suo mondo. Per questo glielo aveva chiesto. Per sapere esattamente cosa pensasse. Perché ormai lui non poteva più cercare di intuirlo dalle sfumature dei suoi occhi.

 

“Sai, ogni tanto mi torna in mente la mia casa…nel mio mondo…mi manca…”. Alessandra si mordicchiò nervosamente un labbro. Aveva sentito la mano dell’youkai allontanarsi da lei e lui sollevarsi a sedere. Adesso, era dietro di lei, con il viso quasi appoggiato alla sua spalla. Poteva sentire il suo respiro caldo sul collo.

 

“…però…sono solo momenti passeggeri…Perché adesso è qui, quello che m rende felice…”

 

“Cioè?”. Era una domanda. Per scherzare. Per stuzzicarla a parlare. Ma anche per capire. Per riuscire davvero a comprendere cosa bastava a rendere felice la vita in un posto come quello, dove tutti o quasi ti sono ostili, dove con lui non poteva neanche parlare. Dove lui era una persona totalmente diversa da quella che lei lo aveva fatto diventare.

 

Alessandra sorrise. Lo avrebbe preso un po’ in giro. Punzecchiato. Così avrebbe imparato a farle quelle domande che le mettevano tristezza e la costringevano a spiegare i suoi sentimenti.

 

“Rin, ad esempio. È dolcissima. E poi, anche Kumamoto-sama. Parlare con lui è estremamente interessante. O anche con sua figlia, o con Ayame. Perfino Jacken, adesso, mi parla in modo più conciliante”

 

Sesshomaru non sapeva se essere contento perché gli stava dicendo che non proprio tutti la allontanavano, e perché fra questi c’era uno dei maggiori generali, o rattristarsi perché non lo aveva nominato. Aveva menzionato anche Jacken, ma non lui. Avrebbe potuto offendersi.

 

D’un tratto, capì. Lo stava prendendo in giro. Si stava facendo beffa di lui. Per vedere come reagiva. Lo capì quando realizzò che lo stava osservando, e che aveva un sorriso divertito sulle labbra. Fu sollevato. Si lasciò ricadere sui cuscini, e quasi senza accorgersene, iniziò a sorridere. E poi a ridere. Una risata leggere e ironica. Di autocommiserazione. Ma terribilmente bella.

 

Alessandra ne rimase sorpresa. Era la prima volta che lo sentiva ridere. Che vedeva le sue labbra aperte a mostrare i denti bianchi e perfetti, i canini appuntiti. Senza nessun intento aggressivo. Una risata leggera, da bambino. Di chi si è accorto di uno scherzo e non se la prende per esserne stato l’oggetto.

 

“Non ti aveva mia visto ridere”

 

“Finora, non aveva nessun motivo per farlo”

 

Alessandra incrociò le braccia, voltandosi dall’altra parte fingendosi arrabbiata. E di nuovo lo punzecchiò. Fingendosi offesa perché la considerava degna solo della sua risata. Perché la trovava comica. Sesshomaru sorrise ancora. Stupendosi di se stesso. Era da tanto che non rideva. Da secoli. Il sorrido glielo aveva ridato Rin, ma quella ragazza gli aveva restituito la risata. Il suono della spensieratezza.

 

In quei momenti, mentre scherzava con lei, dimenticava tutte le lacerazioni della sua anima. Dimenticava titoli, compiti, responsabilità. C’era solo lei. E la sua voce ora allegra. Quel suono che aveva tanto voluto sentire.

 

“Ci sei tu. Mi basta questo per essere felice”

 

Alessandra glielo disse a bruciapelo, con ancora il sorriso sulle labbra, e la leggerezza di una battuta. Perché non era una cosa importante. Era una cosa ovvia. Il vero motivo che la tratteneva lì. Quello stesso che non glielo aveva fatto abbandonare, ferito, per tornare a casa.

 

Sesshomaru smise di colpo la sua allegria. Quasi impossibilitato a capacitarsi delle parole che gli aveva detto. Per lui. Era lì per lui. Perché era lui, con la sua presenza anche solo accennata, a renderla felice. Anche se tutto si risolveva in pochi gesti meccanici, freddi.

 

Allungò una mano, accarezzandole il viso. Stava bene. Con lei, si sentiva libero. Anche fra quelle mura.

 

“Resta qui stanotte. Con me.”

 

*****

 

La porta si aprì poco; uno spiraglio appena. Che lasciava entrare la luce dei lampi e il fragore dei tuoni. Nel mezzo della notte fredda e ventosa.

 

Sesshomaru percepì il rumore, anche se lieve. E si alzò a sedere. Era coperto solo del komon; non aveva neanche la consueta benda sugli occhi. Tese i sensi acuti. Doveva esserci qualcuno, anche se la pioggia gli impediva di definire l’odore. Accanto a lui, sui cuscini, Alessandra dormiva tranquillamente, avvolta da una pesante coperta.

 

Si era fermata. Era riuscito a convincerla. Avevano parlato ancora, e poi, lei si era addormentata lì. Sui cuscini dello studio. Il demone aveva pensato di portarla nella sua stanza da letto, al piano superiore, ma poi aveva rinunciato. Un po’ per paura di svegliarla, un po’ per non affrettare le cose. La ragazza non aveva mai visto i suoi appartamenti, fatto salvo lo studio dove si trovavano. Portarcela nel sonno forse sarebbe stata un’imposizione. Un rischio innocente, ma non se la sentiva di rischiare neanche quello.

 

In definitiva, non si stava neanche troppo male lì, sui cuscini. Erano tanti, e molto morbidi. Non confortevoli quanto il futon, certo, ma avevano dormito anche in condizioni peggiori. Le si era disteso accanto, con la mano dietro la testa, e aveva chiuso gli occhi. Aveva ascoltato il suo respiro.

 

Un nuovo tuono. E un grido trattenuto con fatica. Un’ombra, piccola, nell’incavo della porta. Sesshomaru percepì l’odore, portatogli dal vento che s’intrufolava nell’atrio, nel vano delle scale. Lo percepì chiaro e lo riconobbe.

 

“Rin”

 

La bimba, sentitasi scoperta, allargò lo spiraglio quel tanto sufficiente a farla entrare. Teneva gli occhi bassi, e stringeva convulsamente un coniglietto di pezza. Un pupazzetto che aveva costruito assieme ad Alessandra, mentre la ragazza studiava. Tremava. Un po’ perché aveva paura di aver osato troppo, un po’ per il freddo.

 

Sentiva lo sguardo del demone su di lei, e la voglia di scappare. Aveva sbagliato. Non sarebbe dovuta andare. Ma i temporali le mettevano sempre paura. La spaventava il fragore del tuono. Soprattutto se si trovava da sola in una grande stanza com’era la sua camera. Era andata da Alessandra, per farsi tranquillizzare un po’, ma aveva trovato la camera vuota.

 

Aveva avuto tanta voglia di piangere; poi, alla luce di un nuovo fulmine, aveva visto la torre con gli appartamenti dell’youkai e non ci aveva neanche riflettuto. Si era incamminata lungo il corridoio esterno e poi aveva aperto la porta. Solo che adesso si pentiva di non essersi fermata prima. Di non essere tornata in camera sua, o di non aver aspettato Alessandra nella sua stanza.

 

Sesshomaru la percepì tremare; era spaventata. Ad ogni nuovo tuono, chiudeva gli occhi e soffocava un urlo con le mani. Il demone sapeva che non le piacevano i temporali. Che ne aveva sempre avuto paura. Quando viaggiavano, se pioveva, Rin si raggomitolava nel futon e restava sveglia fino a non cedere, sfinita, al sonno. Ora, invece, sembrava che la paura avesse più potere della stanchezza.

 

“Cosa succede?”

 

La bimba strinse ancora di più a sé il pupazzetto. La voce del demone era sempre così fredda. Non capiva mai se stesse sbagliando o no. Però non le faceva paura. Solo, in quel momento, proprio non riusciva a trattenere le lacrime. Aveva troppa paura del temporale.

 

M-mi perdoni, Signor Sesshomaru…C-c’è il temporale…e io…io…”

 

Lampo. Luce che abbaglia. Tuono. Fragore che assorda. E uno scroscio ancora più violento. Rin si tappò le orecchie e si accucciò a terra, nascondendo il viso nelle ginocchia. Piangeva. L’youkai sentiva l’odore delle sue lacrime. Silenziose. Spaventate.

 

Voltò leggermente la testa verso Alessandra. Stava riposando tranquillamente. Non aveva paura quando era vicina a lui. Di nulla. Neanche dei maggiori generali del regno. Forse, se si fosse svegliata per il temporale, allora gli avrebbe chiesto di stringerla. Per riscaldarla. Per darle coraggio.

 

Un sorriso gli increspò le labbra. Se il giorno dopo avesse saputo che aveva cacciato la bambina, era capace di non rivolgergli più la parola. E sarebbe stato il minimo. Non l’aveva mai vista arrabbiata, e non la temeva certo per quello, ma era un’ottima scusa per giustificare quello che gli era passato per la testa. Perché, altrimenti, neanche lui era più in grado di riconoscersi.

 

Sentì Rin alzarsi, strofinandosi gli occhi, e fare alcuni passi verso l’uscita. Se ne stava andando. Anche se aveva paura. Pur di non disturbarlo ancora. Sperò solo che il Principe non dicesse nulla a Jacken, altrimenti questa volta solo un miracolo le avrebbe evitato una punizione da parte del demonietto. Le sembrava quasi di sentirlo: “Cosa ti è saltato in mente?! Disturbare il padrone nel mezzo della notte! E solo perché avevi paura!”. Bla, bla, bla. Tante parole che le avrebbero fatto pesare ancora di più il fatto di essersi mostrata così spaventata al suo signore.

 

“Vuoi dormire qui?”

 

La voce la fece fermare. Si voltò sorpresa e confusa. Credeva di non aver capito bene. Anzi, di certo aveva capito sbagliato. Non poteva essere stato il suo signore a parlare. Intravide Sesshomaru alla luce di un nuovo lampo, che lo scolpì con violenza nella notte, regalandogli ombre inquiete.

 

Si avvicinò di più, come se lo sguardo del demone riuscisse a piegare ogni tentativo di resistenza. Si fermò davanti al ragazzo seduto sui cuscini. Teneva la testa bassa e continuava a dondolarsi leggermente, indecisa.

 

Davvero mi ha chiesto di dormire qui?

 

Non riuscì ad articolare il pensiero in parole che si sentì stringere e sollevare, per poi essere depositata con dolcezza su un grande cuscino e coperta. Sesshomaru l’aveva presa in braccio e fatta sdraiare accanto a sé. Perché si tranquillizzasse. E si stese a sua volta.

 

Rin intravide Alessandra, che riposava accanto all’youkai. Ecco dov’era andata. Ma non aveva nulla da temere. Lei non avrebbe mai detto nulla. Anzi, le faceva piacere il pensiero che potesse esserci qualcosa fra quella ragazza gentile e il suo signore. Perché era grazie a lei se il demone era cambiato. Prima, non si sarebbe mai immaginata che l’avrebbe presa in braccio e fatta dormire con lui perché non si preoccupasse del temporale.

 

Sesshomaru percepiva la bambina stringersi a lui, quando un nuovo tuono riempiva l’aria. Ma solo per poco tempo. Rin infatti si addormentò quasi subito. La sfiorò con una carezza, e chiuse gli occhi, cercando anche lui di riposare, e non pensare alla reazione spropositata di Jacken la mattina dopo. Gli sarebbe venuto come minimo un infarto. Ma guai a lui se si fosse lasciato sfuggire anche solo una sillaba di quello che avrebbe visto.

 

Sentì due labbra posarsi sulle sue.

 

Alessandra…Ma allora eri sveglia…

 

La ragazza si allontanò, stendendosi di nuovo accanto a lui. Non gli aveva detto nulla, ma con quel gesto gli aveva fato capire che era molto contenta. Perché non l’aveva cacciata. Perché adesso Rin era lì con loro.

 

Sospirò, sfiorandosi le labbra. Sentiva un grande benessere. Qualcosa che credeva di aver dimenticato. Di non aver mai provato. E doveva tutto a quelle due ningen che dormivano strette a lui. A chi gli aveva insegnato che l’amore esiste, e a chi glielo aveva fatto provare.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi. Era stanco. Provato da qualcosa che non sapeva come chiamare, ma che non gli aveva tolto con prepotenza le forze. Gliele aveva come assopite con dolcezza. Sentì di nuovo quel sussurro nella mente: la voce di suo padre. E sorrise. Inconsciamente. Perché ormai conosceva la risposta. E almeno a se stesso, a quell’io avvolto dal ghiaccio, non poteva mentire.

 

Padre…Questo significa avere qualcosa da proteggere?…

 

  
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