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Autore: AntheaMalec    07/07/2012    6 recensioni
- Forse era perché era stato così vicino a Sherlock –a tutto quel calore e intelligenza e ancora calore, che ora lui sentiva così tanto freddo vicino ad altre persone.
Sherlock ormai non c’era più, eppure lo sentiva come si sente l’angoscia, come si sente l’abbandono. Lo sentiva nelle ossa, nel silenzio, lo sentiva solo lui. Solo e sempre lui, mentre tutto intorno a John diceva che Sherlock non c’era. -
[...]
- Un mese dopo…
La prima cosa che John sentì appena si svegliò fu calore. Calore e odore di dopobarba. Calore, odore di dopobarba e, sicuramente, un altro corpo vicino al suo.
Socchiuse gli occhi e tutto ciò che riuscì a vedere furono due palpebre abbassate contornate da una nuvola di capelli neri. -
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Lo so, spunto come un fungo velenoso in questo fandom, ma ormai ho la fissa e me la tengo.

In questa fanfiction ho racchiuso le ultime follie (che sono durate 13 pagine di Word). Quindi, prima di leggere questa one-shot prendete una buona dose di coraggio, un secchiello per vomitare arcobaleni e una lametta perché l’angst iniziale vi farà venire voglia di usarla.

Per tutto il resto io avviso che: Il Johnlock e Benedict Cumberbatch possono nuocere gravemente alla salute. E' un presidio medico chirurgico, leggere attentamente il foglietto illustrativo non somministrare al di sotto dei dodici anni.

Buona lettura, miei amati.

Shine

Nobody said it was easy, no one ever said it would be so hard

Oh, take me back to the start.

And I’m gonna miss you like a child misses their blanket.






“Hello?”

“John?”
“Hey, Sherlock. Are you okay?”
“Turn around and walk back the way you came.”
“No, I’m coming!”
“Just do as I ask! Please!”
Sangue, c’era sangue ovunque. Perchè c’era tutto quel sangue? Era impresso nella retina e bruciava come se fosse fuoco. Da dove provenivano quei capelli scuri e densi? E perché non c’era più luce in quegli occhi azzurri, ora intensi e immobili? Sherlock era a terra e poi sul cornicione e poi di nuovo a terra. Che cosa stava succedendo? Basta, basta.
“Nobody could be that clever.”
“You could.”
“Stay exactly where you are. Don’t move.”
Cos’era tutto quel rumore? John non riusciva più a respirare, il nome di Sherlock incastrato tra le labbra, la testa che pulsava dolorosamente.
“Keep your eyes fixed on me, please, will you do this for me?”
Come se avesse potuto fare altrimenti, come se non avesse fatto sempre quello in tutta la loro conoscenza. Guardarlo.
“Goodbye John.”
Sherlock.
Sherlock
“SHERLOCK!”

John si svegliò di soprassalto, inarcandosi sul letto, madido di sudore. Buio. Il buio di uno squallido monolocale. Nei suoi incubi precedenti all’accaduto di solito aveva paura di perdere Sherlock. Ora che si svegliava e intorno a lui c’era solo buio e solitudine e odore di chiuso, si accorgeva che l’aveva perso per davvero, che lui non c’era più.
John si alzò stancamente dal materasso, lanciando un’occhiata alla sveglia sopra al comodino e notando, con una punta di irritazione, di aver nuovamente anticipato l’alba. Andando verso il piccolo cucinotto ad angolo John vide che la data di quel giorno diceva 15 aprile* ed era stato disegnato un piccolo cerchio intorno al numero.
Oh no.
Odiava quell’appartamento nella periferia di Londra, odiava la vista fuori dalla finestra che dava su quella strada sempre piena di ubriaconi, odiava risentire la fitta alla gamba, odiava il silenzio e odiava che quel giorno, quel maledetto giorno di aprile, segnasse il terzo mese dalla morte di Sherlock Holmes. Restò paralizzato davanti a quel muro, mentre sentiva per un momento le forze venire meno. Avrebbe voluto che fosse passato più tempo -sembravano decenni, ma tanto non sarebbe cambiato nulla perchè nel suo cuore da quel giorno era sempre la stessa ora.
Respirò a fondo, stringendo le labbra in una morsa serrata, la testa alta –in una perfetta postura militare, pronto a cominciare una nuova giornata. Caffè bollente senza zucchero, bagno, peso sulla bilancia - 56 Kg, ancora sottopeso, vestiti, cellulare, chiavi, specchio. Dio, aveva un’aria distrutta e quelle occhiaie peggioravano solo la situazione. John sapeva benissimo che quella domenica aveva già un percorso stabilito, un percorso che ripeteva una volta ogni mese.
Era un medico e capiva che tutto quello era nocivo per la sua salute, sia fisica che mentale, ma era come se avesse una specie di “sindrome dell’arto fantasma”, come se Sherlock fosse stato un suo braccio o una sua gamba –o il suo bastone per reggersi e camminare, e ora il solo pensare che non ci fosse più, la sola mancanza, gli procurava dolore.
Aveva chiuso il portone con la mano destra che tremava leggermente e si era gettato tra la poca folla mentre la città era rischiarata dalla fievole luce del mattino. Tutto quello che vedeva erano strade e negozi chiusi e macchine, niente era più interessante, non c’era nessun campo di battaglia, nessuno con cui combattere ogni giorno.
Passeggiando per il parco in cui aveva incontrato Mike Stamford, John sentiva scorrere nelle vene il pentimento di non aver mai stretto Sherlock tra le braccia -nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio, perché ora non l’avrebbe più potuto fare. Aveva stupidamente pensato, in quei giorni in cui condividevano l’appartamento e non c’era proprio nessuna oscurità ad incombere minacciosa, di voler sentir dire da Sherlock che qualunque scelta John avrebbe preso, lui l’avrebbe appoggiata.
L’amore rendeva idioti, probabilmente. Si sedette su una panchina, impossibilitato ad andare avanti dalla gamba che aveva incominciato a pulsare dolorosamente. Cercava di ricordarsi che era solamente un problema psicosomatico, ma non ci riusciva, il dolore era lì ed era vero, un qualcosa che lo teneva ancorato alla realtà, per lo meno.
John non si era mai rassegnato alla morte di Sherlock come gli altri credevano, aveva solamente deciso di tacere per far stare tutti più tranquilli. Respirò profondamente, socchiudendo gli occhi mentre la brezza pungente di Londra gli sfiorava il viso. Riusciva a sgombrare la mente, ogni tanto. Semplicemente chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare dagli altri sensi, separandosi da tutti i problemi. Alle volte funzionava, riusciva finalmente a respirare senza nessun macigno incastrato tra i polmoni, ma durava ben poco.
Non c’era niente di più triste che un viso visto per l’ultima volta e i primi giorni dopo la sua morte, quelli in cui aveva il cervello così annebbiato da non poter fare nulla, ricordava il suo continuo cercare Sherlock nei volti degli altri. I ricci particolari, il colore degli occhi, la linea del naso, le labbra delicate, gli zigomi pronunciati, il cappotto, la sciarpa, il cervello, il cuore.
Lo ricordava come se lo avesse appena incontrato e questo gli faceva paura. Avrebbe mai potuto andare avanti? Era questa la domanda che gli rimbombava in testa continuamente. Quando incominciò a sentire le urla divertite dei bambini, John si distrasse dai suoi pensieri, guardando l’ora sull’orologio da polso.
Era già mattina inoltrata e le sue mani faticavano a muoversi –ah, era primavera, si era dimenticato anche di mettere il giubbotto. La seconda tappa, era, forse, la più ardua. Il taxi che aveva fermato lo stava portando in vie che conosceva come le sue tasche, troppo vicino a posti in cui conservava eccessivi ricordi.
John si chiedeva ancora perché fosse così masochista, perché non la facesse finita e basta, accantonasse tutti i pensieri e li gettasse in un cassonetto immaginario, pronto a ripartire. Ma quell’angoscioso itinerario mensile aveva come punto centrale il non dimenticare nulla di ciò che aveva vissuto, perché trascurare quella parte della sua vita –così intensa, così radiosa, l’avrebbe portato solo a stare peggio. Era così giunto a Baker Street e la gola gli si era fatta improvvisamente secca e stretta.
Scese dall’automobile e lasciò la mancia al tassista che ringraziò con un cenno del capo. Sarebbe stato facile, insomma, bussare, salire le scale, guardare l’appartamento in cui per diciotto lunghi mesi avevano convissuto e poi andarsene. Lineare, preciso.
Bussò alla porta e pochi istanti dopo l’amabile signora Hudson venne ad aprire la porta con un sorriso tirato. “John, la stavo aspettando!” Si fece da parte per lasciarlo passare e John si fiondò subito su per le scale, senza dare il tempo ad altre parole di infierire su quell’atmosfera già tesa.
Era ancora tutto lì, quando aprì la porta che dava sul disordinato salotto. Tutto lì, come se nessuno se ne fosse mai andato.
Poi gli occhi di John caddero sul vecchio divano e tutto si perse in un ricordo.



“John, potresti smetterla di starnutire? Mi deconcentri.” John gli lanciò un’occhiata irritata dal divano, coprendosi meglio con la calda coperta di lana che si era portato dietro dalla camera da letto. Sherlock continuò a guardare nel suo microscopio sul tavolino della cucina, incurante dello sguardo mortale che il suo coinquilino gli stava dedicando.
Pensava davvero che se avesse potuto non avrebbe smesso? John si accovacciò ancora di più, sprofondando nel comodo angolino e poggiando la testa sul cuscino con la bandiera dell’Inghilterra. Aveva passato due giorni d’inferno con la febbre alta e un raffreddore allucinante mentre continuava a correre per Londra a inseguire killer di vario genere. Chiuse gli occhi e cercò di godersi quei pochi minuti di silenzio che quell’appartamento concedeva raramente. Ora, finalmente, la temperatura era scesa ad un livello accettabile ma il naso continuava a restare tappato e le tempie continuavano a pulsare dolorosamente.
La suoneria di un cellulare gli fece aprire gli occhi arrossati, portandolo a guardare oltre al buio della stanza dovuto alla sera. Sherlock sbuffò, lanciando un’occhiata al telefono e rispondendo immediatamente. Probabilmente Lestrade, probabilmente un altro caso, probabilmente niente riposo per molto tempo. “Sì, sì, ok, arriviamo.” Ma perché lo doveva sempre mettere in mezzo? Lui stava bene lì, con la sua coperta e…”John, dai alzati, dobbiamo andare a Picadilly.” John borbottò, sotterrando la faccia nel cuscino e starnutendo subito dopo. Sentì silenzio nella stanza –troppo silenzio, e riemerse dal suo nascondiglio per guardare che fine avesse fatto Sherlock. Che se ne fosse andato da solo e lo avesse abbandonato lì? Ma Sherlock non era uscito, anzi. Stava immobile davanti al divano a fissarlo.
Fissarlo in un modo che rendeva John inquieto. E elettrico, tremendamente elettrico.
“C’è qualche…problema?” Chiese John con voce leggermente rauca. Senza preavviso, Sherlock si sedette nello spazio che le gambe raggomitolate di John avevano lasciato libero, prendendo il telecomando e accendendo la televisione con una smorfia disgustata sul viso.
John non voleva davvero illudersi che quella fosse una resa con una sottile e apprezzabile dose di sentimentalismo nei suoi confronti, ma il piccolo sorriso che gli stava increspando le labbra non voleva smettere di crescere.
“Pensavo dovessimo andare ad aiutare in un altro caso.” Mormorò, tormentandosi il maglione con la mano sinistra da sotto la coperta. Dio, sembrava un adolescente alla prima cotta!
“Beh, tu non avevi intenzione di alzarti, era perfettamente deducibile.” Disse, continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé.
“Saresti potuto andare da solo.” Continuò a insistere John, sperando in un glorioso cedimento da parte di Sherlock.
“Sì, ma non era un caso importante, sicuramente di livello tre.” John continuava a fissare Sherlock ed era sicuro che lui se ne fosse accorto perché ostentava un interesse maniacale per il documentario iniziato da pochi minuti. John si mise più comodo, rivolgendo il viso verso la televisione e cercando con la mano fuori dalla coperta quella di Sherlock, appoggiata mollemente vicino al telecomando, sul divano.
Abbassò piano lo sguardo quando strinse l’indice di Sherlock tra le dita –sì, era decisamente tornato alle elementari, aspettando una sua qualsiasi reazione negativa. Ma ciò non avvenne, facendo ricomparire il sorriso sul viso di John che si sistemò meglio sul cuscino. Il suo stomaco continuava a fare capriole così intense da non dargli un attimo di respiro e non riusciva a fare altro che rallegrarsene. In fondo, nessuno dei due avrebbe voluto essere da nessun’altra parte –per sempre.



John deglutì rumorosamente, spostando il peso da un piede all’altro. Dio, era così complicato! Sherlock Holmes era diventato suo da troppo poco tempo e la vita gliel’aveva rubato dalle mani senza alcuna pietà, prima che ne potesse godere appieno. E John era pieno di rabbia verso se stesso, perchè l’aveva ascoltato quando gli aveva detto di rimanere esattamente dov’era, e verso Sherlock, che l’aveva lasciato da solo senza pensarci due volte, raccontandogli bugie improponibili senza una motivazione valida.
Oh, ma probabilmente lui aveva seguito uno dei suoi piani contorti, ragionò John, macchinando e tessendo la sua tela fatta di intelligenza allo stato puro, tenendolo all’oscuro –ancora una volta di tutto.
Eppure gli era sembrato che il loro legame fosse andato oltre l’apparenza, che fosse diventato sostanza invisibile, ma tangibile. Aveva pensato che si fosse creata della complicità, della fiducia reciproca. Aveva pensato che fosse diventato finalmente sentimento, che fosse amore. Però ora John non sapeva cosa pensare e ciò lo infastidiva più di quanto volesse ammettere.
Doveva uscire da lì, doveva andarsene e ritornare a respirare senza il soffocante magone che si stava formando al centro del suo petto. Era sceso dalle scale con la stessa, incalzante fretta con cui ci era salito, declinando l’invito a restare per il the che la signora Hudson gli aveva dolcemente proposto.
Perché era rientrato in quell’appartamento? Al diavolo il mesiversario, al diavolo tutto, voleva solo tornarsene a casa e seppellire la testa sotto al cuscino, mettendo fine a tutti i pensieri. Quando sorpassò il piccolo cancelletto arrugginito arrivando sul marciapiede, John si permise di rilassare i muscoli in tensione. Si diresse immediatamente verso il suo appartamento, camminando a passo militare tra la folla senza vederla realmente. John credette di essere in salvo dalla sua stupida idea quando si accorse di essere entrato nuovamente in una parte privata della frequentazione tra lui e Sherlock. Angelo.
Espirò forte dal naso, stringendo le mani a pugno lungo i fianchi tanto forte da sentire le dita fargli male. Restò a fissare la vetrata illuminata che dava all’interno così tanto che sembrò essere passato un secolo quando si decise ad entrare, facendo suonare il campanello sopra la porta.
“John, che piacere! Come stai?” Angelo gli venne incontro, dandogli una generosa pacca sulla spalla. John sorrise –un sorriso che non arrivava mai fino agli occhi.
“Tutto bene, grazie.” Gli sembrava tanto una falsa frase di circostanza, ma preferì evitare di far sorbirgli tutto il tumulto interiore che si trascinava dietro da mesi.
“Prendi il…solito posto?” “Sì, sì il solito posto è…okay.” John si sedette a destra del piccolo tavolino che si affacciava sulla strada e una vena di malinconia lo trafisse in pieno, facendogli appoggiare la testa sulla mano mentre lo spazio vuoto accanto a lui pulsava più di cento vite.
Forse era perché era stato così vicino a Sherlock –a tutto quel calore e intelligenza e ancora calore, che ora lui sentiva così tanto freddo vicino ad altre persone.
Sherlock ormai non c’era più, eppure lo sentiva come si sente l’angoscia, come si sente l’abbandono. Lo sentiva nelle ossa, nel silenzio, lo sentiva solo lui. Solo e sempre lui, mentre tutto intorno a John diceva che Sherlock non c’era. Non ordinò nulla, restò solo lì, cercando un qualunque motivo che potesse spingerlo in avanti, che potesse riaprirgli gli occhi dopo tutto quel buio.
Angelo non venne a disturbarlo, ma le sue occhiate preoccupate lo raggiungevano come una carezza rassicurante.
Quando John si accorse che stava per arrivare l’ora del tramonto, si alzò dal comodo divanetto per dirigersi verso l’ultima tappa del suo, tanto doloroso, itinerario. Il cimitero dove era stato sepolto era enorme e così verde da poter anche ammirarlo, lasciando perdere la nota assolutamente drammatica del contesto.
Girovagò un po’ tra le tombe di sconosciuti prima di convincersi ad affrontare quella di Sherlock Holmes. Gli mancavano sempre le parole davanti a quella lapide di marmo lucido -non era lui quello bravo a parlare nella coppia.
Rimase semplicemente in silenzio, accarezzando con lo sguardo le lettere dorate e sentendo gli occhi inumidirsi lievemente. Non c’era via d’uscita a quel circolo vizioso e chiudersi in un bozzolo pieno di pungiglioni non avrebbe aiutato John in niente.
Eppure, qual era stata la sua colpa nell’amarlo con tutto se stesso? Avrebbe voluto dargli un addio urlato, agitato, rabbioso, furioso.
Gli avrebbe voluto sbattere la porta in faccia, con nessuna telefonata strappalacrime, con nessuna foto in fondo al cassetto. Senza incubi a tormentare l’anima, con nessuna forma di contatto fisico o mentale. Ma John non riusciva a dare un vero addio a Sherlock, solo un flebile arrivederci ripetuto all’infinito.
Un rumore lo distolse dai suoi pensieri, facendogli strizzare gli occhi per vedere che cosa si muovesse dietro agli alberi secolari che facevano ombra su tutto il prato.
Il cuore lo si poteva legare, far tacere, bendare, ma quando tremava c’era poco che teneva.
“Sh…erlock?”



Un mese dopo…
La prima cosa che John sentì appena si svegliò fu calore. Calore e odore di dopobarba. Calore, odore di dopobarba e, sicuramente, un altro corpo vicino al suo.
Socchiuse gli occhi e tutto ciò che riuscì a vedere furono due palpebre abbassate contornate da una nuvola di capelli neri. Nel silenzio della camera passò in rassegna i giorni passati, chiedendosi come diavolo fossero finiti a letto insieme.
C’era stato un pugno –o due?, c’erano state parolacce e sguardi delusi, poi John aveva deciso di far finta che non esistesse –per tanti, troppi giorni, prima che la continua insistenza di Sherlock –se l’era cercata lui, se lo ricordava bene!, gli facesse perdere tutte le inibizioni fino a baciarlo. Dal baciarlo a tornare a vivere insieme il passo era stato corto, fino alla richiesta borbottata da parte di John di voler dormire insieme a lui.
Aveva pensato potesse essere strano, imbarazzante, con Sherlock che cominciava a ciarlare senza sosta di cose che non avrebbero avuto il minimo senso, ma, a sorpresa di John, era stato tutto il contrario. Ricordava di averlo stretto così forte da togliergli il fiato, così tanto da dimenticare perché era stato triste, e lui era rimasto lì, tra le sue braccia, senza replicare nulla. Gli aveva lasciato addosso il suo cuore, era riuscito a fargli passare la paura di perderlo.
L’aveva baciato così tante volte da perdersi e aveva pensato che fosse bello, confondersi uno tra le labbra dell’altro. John si era addormentato così, sfinito da quel fiume di emozioni che traboccava da tutti i margini.
Ancora non riusciva a non imbarazzarsi al pensiero di star veramente condividendo il letto con un altro uomo, ma il fatto che fosse proprio il suo uomo, gli faceva perdere di vista tutte le barriere che si era creato davanti. Cercò di muoversi piano per non far svegliare Sherlock, mentre appoggiava la nuca sul suo petto.
Battiti. Regolari, cadenzati, battiti di un cuore che troppo spesso John aveva temuto non esistesse o che si fosse fermato per sempre. Avrebbe voluto rimanere immobile così per l’eternità, in un replay infinito di quel momento così perfetto.
Sherlock, il suo Sherlock –gli piaceva tantissimo poterlo finalmente puntualizzare nella sua testa senza sentirsi in soggezione, poteva essere paragonato al mare. Quelli che amavano il mare lo amavano così, come se ti fosse sempre dentro, perché non ti serviva per andarci in spiaggia o per farci il bagno: avevi proprio bisogno della sua presenza lì, di fronte. Di sentirlo, di toccarlo, di averlo intorno. Chi amava il mare lo amava e basta, in qualsiasi stagione. Forse ancora di più quando non era estate, ed era incazzato, grigio, freddo e malmostoso, che pareva dir: “Provaci, su, a starmi vicino!” John poteva definire il mare il suo unico amore, ora come ora.
Quando, dopo aver lasciato un piccolo bacio, come un soffio, sul petto di Sherlock si accorse di due occhi fissi su di lui. Sentiva ancora un po’ quell’imbarazzo che caratterizzava ogni suo gesto prima che diventassero qualcosa di più, ma se ne curò poco. Lasciò un altro bacio sulla fronte del detective prima di risistemarsi al suo posto originario. La seduzione che trasmetteva la sua mente originale, acuta, intuitiva e brillante non era epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, era abissale, intima, viscerale. Era come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un Dio. Una sensazione di cui John era sempre stato consapevole e che sentiva ancora più amplificata, ora che aveva passato l’inferno per tre mesi consecutivi.
Eppure, si stupiva ancora di come la sua lingua fosse sempre pronta nelle risposte, tranne quando si parlava di sentimenti. Sherlock lo considerava un pregio, ma quando arrancava spiazzato da una manifestazione da parte di John, come ora, con gli occhi ancora più liquidi e chiari di sempre –magnifico, storceva la bocca stizzito, volgendo lo sguardo da un’altra parte. A volte borbottava qualcosa di indefinito, ma sinceramente a John bastava. Perché era lì, con lui, e questo riempiva tutti i suoi sensi, ricuciva tutte le ferite e stendeva un balsamo su tutto il suo corpo.
“Buongiorno!” Sherlock rispose con uno sbuffo che gli fece ondeggiare alcune ciocche sulla fronte.
“Mi annoio.” Ecco, ora ricordava perfettamente come fosse vivere con Sherlock Holmes, pensò John mentre gli occhi volavano verso l’alto. “Come diavolo fai a essere annoiato di prima mattina?” “Il mio cervello non ha un orologio, John, e tutta questa improduttività mi irrita. Non seguo realmente un caso da…mesi.”
La sua smorfia orripilata fece intendere a John che niente e nessuno l’avrebbe fatto rimanere un secondo di più su quel letto per una sessione extra di coccole. Beh, tentare non nuoceva a nessuno. Appena vide la gamba di Sherlock sgattaiolare da fuori le coperte, lo fermò per un braccio, mettendo in scena la miglior faccia da cucciolo bastonato che possedeva.
“Dove stai andando?” “Vado a chiamare Lestrade, sicuramente avrà qualcosa da propormi vista l’incompetenza dilagante di Scotland Yard.” “Non puoi chiamarlo dopo?” “John, non fare il bambino, adesso non ho tempo per…” Gli catturò le labbra in un bacio traditore, trattenendolo per la nuca con una mano.
Mosse la propria bocca su quella dell’altro, mordicchiandogli debolmente il labbro inferiore. Sherlock rimase rigido e immobile in un chiaro segno di protesta, fino a quando il dottore non scese fino al mento e poi giù, fino al collo, per torturargli con i denti quella pelle tanto candida. Quando ritornò all’altezza del viso di Sherlock, John riuscì a vedere il cedimento dietro quelle palpebre socchiuse e se ne rallegrò mentalmente, mentre riprendeva possesso della bocca del detective, senza più alcun ostacolo ad impedirgli di approfondire il contatto.
John riuscì ad aggrapparsi alla maglia del pigiama e a tirarselo di più addosso, prima di finire sdraiati sul letto. Se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella sarebbe stata una giornata favolosa.
Quando notò Sherlock farsi più insicuro, tenendosi con un braccio alzato per non pesare su John, quest’ultimo cercò di ribaltare le posizioni, con successo. Sentire Sherlock in tutta la sua fisicità e presenza sotto di lui era forse l’emozione più intensa e bella che avesse provato in tutti i suoi anni di vita.
Poteva sentire le rotelle del suo cervello lavorare febbrilmente prima di incepparsi e così ancora e ancora e ancora. John prese a lasciargli piccoli baci lungo tutto il viso –naso, mento, zigomi, fronte, prima di rituffarsi sulle labbra dell’altro, accarezzandogli con la lingua il contorno delle labbra a cuore e poi l’arcata dei denti e il palato.
Tutto di lui continuava a farlo maledettamente eccitare e la cosa cominciava evidentemente a complicarsi.
“Non credo che…” Mormorò John, non sapendo nemmeno lui che cosa volesse dire realmente, con le mani che non stavano ferme un momento e stringevano lenzuola che improvvisamente diventarono il cotone della maglia di Sherlock.
Si staccò un momento dal bacio, osservando se fosse davvero pronto per una cosa tanto importante che non era sicuro avesse già sperimentato con qualcun altro. Sherlock teneva gli occhi chiusi, la testa reclinata verso l’alto, scoprendo il collo sensuale, le labbra appena più rosse del normale che sembravano richiamarlo con un urgenza che John non era certo di poter contrastare ancora a lungo.
Era così bello che rimase un momento senza fiato riscontrando con quanta sicurezza si stesse affidando a lui. Aspettò pazientemente che Sherlock riaprisse gli occhi prima di continuare, cercando un consenso che sperava più ardentemente di quanto potesse immaginare. Era stato Sherlock a sorprenderlo questa volta, portando la mano tra i suoi capelli corti e continuando a baciarlo.
Davvero un’interessante mattinata, senza ombra di dubbio. Arrivò con le mani fino all’estremità della maglia del detective, aspettando qualche cenno di disturbo che non arrivò. Strattonò via quell'indumento fastidioso, godendosi la visuale assolutamente paradisiaca di uno Sherlock a petto nudo.
Accarezzò con i polpastrelli la zona dei pettorali, prima di passare alla pancia piatta dove si intravedeva il profilo delle costole. E al diavolo le persone che dicevano che fosse solo una cavolo di macchina tutto cervello! Sherlock era carne e bellezza ed era lì, insieme a lui, mentre tratteneva il respiro sotto le sue carezze e si mordeva le labbra, impaziente. Nessuno avrebbe potuto rovinare quel momento.
Gli sorrise sulla bocca prima che un cellulare cominciasse a suonare per la stanza. John trattenne un ringhio di fastidio quando gli occhi vigili di Sherlock si aprirono di scatto. “Lascialo perdere.” Borbottò John, cercando di baciarlo di nuovo con deludenti risultati. Infatti il suo caro compagno l’aveva già scaraventato nello spazio di letto non occupato, pronto a correre verso la sedia dove aveva lasciato cadere il cappotto la sera prima. “Pronto, Lestrade?” John si maledisse per non avergli spento il telefono e tutti gli oggetti che potessero richiamarlo al mondo esterno, prendendo nota per la volta futura.
“Sì, certo…no che non sono impegnato, arriviamo subito!” Sherlock chiuse la telefonata con un sorriso che avrebbe potuto illuminare tutta Londra mentre John contemplava tutta la pelle che era riuscito a scoprirgli mentre i capelli tutti arruffati gli facevano nascere un sentimento strano al centro del petto. “Dai, alzati dobbiamo andare a Trafalgar Square, hanno assassinato una persona.”
L’occhiata che John gli lanciò dovette chiarire a Sherlock cosa stesse pensando. “No, scordatelo, togliti da quel letto e vai a vestirti, non mi irretisci più.” Irretire? Il dottore strabuzzò gli occhi, incerto tra il ridere o l’essere scandalizzato. Decise di andare a fare una doccia per far sbollire i muscoli ancora in tensione per il momento appena sfumato. Passò vicino a Sherlock che stava scegliendo l’abbigliamento per quella giornata, protendendosi in avanti per avere un ultimo bacio che gli negò, guardandolo come se fosse un bambino pronto alla prossima marachella.
John sbuffò sorpassandolo, chiedendosi perché diavolo avesse trovato un fidanzato così ossessionato dal lavoro.



John era rimasto elettrizzato come se fosse stata la prima volta. Aveva guardato Sherlock aggirarsi per la scena del crimine con il cuore che batteva più veloce del solito, l’aveva sentito ridere e dare dell’idiota a Anderson, prima di sciorinare tutti i dettagli della vita privata di quella donna italiana trovata con un colpo di pistola in fronte e un altro dritto al cuore.
L’aveva osservato mentre indagava, analizzava e scartava ipotesi ed eventuali indizi superflui come se fosse un gioco da ragazzi. Ogni tanto lo vedeva buttare uno sguardo dalla sua parte, in ricerca di quei complimenti che, sapeva, gli facevano più che piacere. Sally Donovan se n’era stata in disparte, distorcendo la bocca ogni qualvolta Sherlock parlasse, borbottando con Anderson di chissà cosa. Lestrade, invece, era sembrato più contento dei giorni in cui seguivano i casi insieme, mesi prima, e sorrideva continuamente, felice di aver ritrovato un vecchio collega e amico.
Era parso strano a John, all’inizio, tornare come ai vecchi tempi, come se niente fosse successo, come se tutti quei mesi di dolore e nostalgia non ci fossero mai stati, ma poi aveva guardato negli occhi di Sherlock e aveva notato quella particolare luce che si accendeva solo quando era all’opera, quando finalmente il suo cervello aveva una valvola di sfogo che fosse all’altezza della sua intelligenza, e non era riuscito a sentire più nulla. Nessun senso di oppressione o inadeguatezza, aveva solamente ripreso il suo posto nel circolo della vita, il posto che gli spettava di diritto: quello al fianco di Sherlock.
Aveva risolto il caso in qualche ora e l’aveva trascinato da Angelo per cena mentre lo sentiva parlare di come essere adulteri al giorno d’oggi fosse davvero pericoloso. “Insomma –disse mentre prendeva posto al solito tavolo, sistemando il cappotto dietro la sua sedia– quella donna non sapeva sicuramente mantenere un profilo basso, visto che il marito l’aveva scoperta dopo soli pochi mesi.”
A John sinceramente non fregava nulla, perso com’era nell’ammirare finalmente Sherlock nello spazio vuoto che l’aveva accompagnato per mesi. Era lì ed era vivo, doveva continuare a ricordarselo per sentire una pace interiore diffondersi in tutte le sue membra. “Bisognerebbe vivere la propria vita senza nessun legame, solo così si farebbero scelte giuste.” A quella frase John ritornò a prestargli reale attenzione.
“Credi sul serio che si possa davvero scegliere per chi provare dei sentimenti?” Domandò John, stroncando la risata ironica che gli stava nascendo dal profondo della gola. Sherlock lo guardò sorpreso, agitandogli la forchetta davanti al naso con un’armonia tale da farlo sentire a disagio. Era solo una banale forchetta, diamine! “Io l’ho fatto per tutta la mia vita passata.” Le sopracciglia di John volarono verso l’alto mentre un’idea gli si affacciava nella mente.
“E ora è cambiato qualcosa?” Chiese con disinvoltura, salutando con un sorriso Angelo dall’altra parte del salone –un sorriso che arrivava fino agli occhi. “Che domande fai, John? Ovvio che è cambiato qualcosa!” Si sorprese nel sentirlo ammettere così esplicitamente il loro rapporto e stava già per dire qualcosa di carino quando la sua risposta lo congelò all’istante.
“Ti sei già dimenticato del mio amato teschio? L’ho trascurato per troppo tempo.” Mantenere la calma, bisognava solamente mantenere la calma.
Lo sguardo che John gli rivolse lo fece scoppiare a ridere, stroncando la conversazione appena i piatti arrivarono al tavolo. La serata era stata più piacevole del solito, Sherlock non si era lamentato poi così tanto spesso o almeno non aveva minacciato il cameriere solo perché si annoiava, la candela che Angelo aveva acceso per loro si era quasi del tutto consumata e John, guardando con un’occhiata stanca l’orologio, pensò che fosse decisamente l’ora di andare a casa.
Sherlock era stato taciturno nel viaggio di ritorno in taxi e John si chiese, con un brivido di terrore, se non stesse per complottare qualcosa alle sue spalle o, peggio, contro di lui.
Non era ancora abituato agli spari di notte contro al muro e preferiva ritardare il loro fatidico incontro il più possibile. Quando la macchina si fermò, Sherlock scese velocemente, lasciando a John il tassista impaziente del suo denaro.
Si voltò appena in tempo per vedere la stoffa del cappotto nero di Sherlock sparire nel corridoio che portava al loro appartamento, lasciando la porta aperta. John sbuffò, aumentando il passo e ringraziando che il dolore psicosomatico se ne fosse andato per sempre dopo la ricomparsa del suo pazzo coinquilino.
Salì le scale e chiuse la porta alle sue spalle, notando che Sherlock aveva quel tipico sguardo poco raccomandabile e che lo stava rivolgendo proprio a lui.
“Stanotte ho voglia di sperimentare, John.” Sperimentare. Stanotte. John. Voglia. Il detective si avvicinò lentamente a lui in un’intima attesa che fosse proprio John a prendere in mano la situazione, come faceva sempre con quelle faccende.
“Aspetta!” Sussurrò John, ponendo una mano sul petto di Sherlock per fermare la sua avanzata. Quest’ultimo lo guardò accigliato, in una muta domanda alla quale non ci fu risposta. Il medico incominciò a tastare le tasche del cappotto di Sherlock, in cerca di chissà diavolo cosa.
Quando trovò ciò che stava cercando lo portò davanti agli occhi, vittorioso, mentre schiacciava il pulsante di spegnimento e lo lanciava sopra al vecchio divano.
“Così almeno nessuno potrà più disturbarci.” Mormorò John, riprendendo finalmente possesso delle labbra del suo compagno.
Tutto il resto si tinse di indefinito.

Note:

- Nei suoi incubi precedenti all’accaduto di solito aveva paura di perdere Sherlock – E’ una frase rivisitata da Hunger Games/ Peeta Mellark

- Perché il cuore lo si poteva legare, far tacere, endare, ma quando tremava c’era poco che teneva – Di I. Tudgiarov

- La seduzione che trasmetteva la sua mente originale, acuta, intuitiva e brillante non era epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, era abissale, intima, viscerale. Era come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un Dio. – Di Paolo Melone

Grazie a tutti per aver letto e per essere arrivati fino a qui.

   
 
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