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Autore: MeliaMalia    22/01/2007    1 recensioni
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi saccenti, piegando le labbra in una linea ironica che invitava a prendermi a schiaffi dal mattino alla sera. Dovreste vedermi, quando sorrido così. Vi giuro che, tutte le volte che lo faccio allo specchio, ho una faccia tosta tale che mi verrebbe da prendermi a pugni da solo.
E’ un sorriso adorabile, insomma.
Perciò lo misi sfacciatamente in mostra. Quindi, con voce risoluta, con fare da gran duro, dissi: “E’ ora, signorina, che tu possa tornare ad essere ciò che sei. Ovverosia, un cadavere.”
Sono un tipo dalle frasi d’effetto, io.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Passarono due lunghi mesi, da quella spaventosa notte.
Continuammo a viaggiare, una coppia di fratelli dalle origini nobili, lei pallida come un morto, io oppresso dalle occhiaie e dalla stanchezza, ormai prossimo al crollo.
Non ero certo avvezzo ad uno stile di vita che prevedesse il dormire di giorno in mezzo ai boschi né, tanto meno, a razionalizzare sugli alimenti. Ed il mio corpo, così come il mio spirito, parevano risentire pesantemente di quella pessima situazione in cui ci eravamo trovati.
Ma perché mentire anche a me stesso? Non erano state le intemperie, la fame o la stanchezza a spezzarmi.
Era stata Aria.
La nuova Aria, il suo lato nascosto. Aveva distrutto ogni mia illusione.
Mi trascinavo da un luogo all'altro, portandomela dietro, cercando il coraggio di affondare un paletto in lei.
E non trovandolo.
Persi la mia solita loquacità, la mia solita baldanza; divenni lo spettro di me stesso, un’ombra che si portava appresso l’ultimo scampolo di una famiglia distrutta. Uno scampolo infettato dal male.
Aria era preoccupata per me, nel silenzio dei nostri viaggi.
Anche io, in effetti, lo ero.
Vagavamo privi di una reale meta, spinti più che altro dal mio desiderio di non stare fermo troppo a lungo nello stesso posto: ogni volta che mettevamo piede in un villaggio, alla ricerca di una locanda per un giaciglio decente o per cibo classificabile come commestibile, molti occhi sospettosi puntavano lo straordinario pallore della mia innocente Aria, cosa che mi faceva rabbrividire.
Gli incubi in cui mia sorella veniva data alle fiamme sulla sporca e piccola piazza di un anonimo paesello di campagna erano ormai all’ordine del giorno.
Così come le tremende fantasie oniriche circa il temuto ritorno della sua parte oscura. Il riemergere di quella tremenda vampira dalle iridi nere, di quella furia nascosta dietro i dolci sorrisi di Aria.
E allora, viaggiavamo. Spesso a ritmi estenuanti, come se dovessimo sfuggire da qualcosa, o arrivare in qualche posto.
So che è inutile scappare dalle proprie paure. Eppure io ce la misi tutta. Davvero.
Fu, quindi, tutta colpa mia se, ad un certo punto, arrivammo alla Residenza.
Ce la trovammo davanti una notte, come se fosse spuntata per noi direttamente dall’inferno. Una casaccia costruita in assi nere, abbandonata nel furore del vento che, quella sera in particolare, sferzava i nostri corpi con ferocia sempre maggiore.
Il giardino all’esterno di essa, incolto da ormai parecchi anni, era quasi indistinguibile dal resto della foresta che la circondava, ed il rumore del fiume, che scorreva poco lontano da lì, mischiato al tremendo ululare del vento mi fece letteralmente salire un brivido lungo la schiena.
Che nascosi, com’era logico che facessi.
L’inverno era alle porte, e noi non avevamo un rifugio stabile. Per quanto freddo, quanta fame e quanta fatica sopportavamo, sarebbe stato logico aspettarsi da Aria una pigolante richiesta di ritorno al nostro vecchio, amabile maniero. Ma lei non lo domandò mai.
E quella notte, mentre io quasi lacrimavo dal freddo, ci ritrovammo davanti alla Residenza.
Fu Aria a chiamarla così, ridendo divertita.
«Santo Cielo, Aster» commentò, tremando palesemente per il freddo. «Non ho un vestito abbastanza elegante, per una simile Residenza. Dici che mi lasceranno entrare lo stesso?»
Una battuta. Solitamente ero io, quello che faceva le battute.
La casaccia di fronte a noi, fissandoci attraverso le finestre sporche, parve non molto lusingata da quel commento. Mi diede quasi l’idea di ghignare di noi, di sorridere come un teschio, maleficamente divertita dai due patetici fratellini di sangue blu.
Ecco, ero finalmente impazzito del tutto.
«Possono anche chiedermi uno stramaledetto smoking, ma io entro lo stesso.» decisi, stretto tra le mie stesse braccia, battendo i denti per il freddo. «Questa notte rischiamo di gelare per davvero.»
Così, mi avviai con decisione verso la Residenza, ovviamente seguito con fedeltà dalla mia sorellina. Per una blanda precauzione, picchiai un paio di volte sul vecchio legno della porta e, non ottenendo risposta, l’aprii.
Ovviamente, nello spalancarsi, essa fece un rumore cigolante, quasi emettendo un lamento.
Ovviamente, l’interno che ci si presentò era oscuro, una massa di ombre abbandonate nella notte.
Ancora più ovviamente, proprio in quel momento il lampo di un imminente temporale illuminò con prepotenza il cielo, spargendo un rapido bagliore su noi e sulla Residenza.
E, dopo tutti questi segni, io fui tanto idiota da entrare lo stesso.
Ve l’ho detto, che a volte mi prenderei a pugni da solo.

***

Nonostante il freddo, uscii nuovamente dalla casa, per procurarmi quale pezzo di legna. A dir poco soddisfatto, tornai alla Residenza, dove, individuato un camino, accesi uno scoppiettante fuocherello, che arse con inadeguata allegria in quello spazio lugubre.
Aria lo guardò ammirata. Come una bambina, sapeva trovare meraviglia in ogni minimo anfratto della vita; nonostante la sua innocente debolezza da bambolina, era lei il vero fulcro di forza del nostro duo, con quel suo splendido e fiducioso modo di fare.
Scrutai la stanza finalmente illuminata dalla luce delle fiamme, inarcando un sopracciglio con aria perplessa. La Residenza era costituita unicamente da quello scarno ambiente; e quello scarno ambiente, evidentemente appartenuto a qualcuno che considerava cose come l’estetica ed i buoni odori dei fastidiosi orpelli, era arredato con: numero uno branda dall’aria cigolante, numero uno tavolo dotato di numero due sedie e infine, meraviglia delle meraviglie!, numero uno tinozza per il bagno.
Nient’altro. Chiunque avesse vissuto in quella casa, doveva aver avuto un’esistenza molto, molto solitaria. E molto triste.
«Hai visto, fratellone?» Aria, riscuotendomi dalle mie riflessioni, indicò una cosa che, in un primo momento, mi era sfuggita: una porta, dal pomolo d’ottone, nera come il resto della casa. Anzi. Quasi volutamente mimetizzata con la parete in cui era incastrata, come se, simile ad un coniglietto spaurito, volesse risultare invisibile all’occhio di eventuali invasori. «Non si apre» mugolò lei, ruotando e tirando diverse volte il pomolo. Che, tanto per risultare simpatico, infine le rimase in mano, guadagnandosi da parte sua uno sguardo perplesso.
Avvertendo le gambe rotte per la stanchezza e per il freddo, feci un gesto vago, invitandola a lasciar perdere. «Sarà la cucina, forse.» ipotizzai senza troppa fantasia. «Vieni qui. Scaldati.»
Obbedì con il solito sorriso, zampettando verso il caminetto ed accucciandosi accanto a me.
Riflesso nello splendido verde dei suoi vivaci occhi, il rosso delle fiamme scoprì delle tinte splendide, che per un attimo mi fecero riflettere.
Papà, quando era ancora un uomo vivo e scoppiettante di salute, un uomo pieno di illusioni circa il suo primogenito maschio che, tanto per non deluderlo, lo aveva condannato a morte, mi aveva spesso raccontato di ciò che accadeva al corpo di un essere umano infettato dal germe del vampiro: assumeva una nuova bellezza, quasi sovrannaturale.
Anche così era stato per Aria.
Uniti a quella sua nuova, inconscia andatura che emergeva nei momenti di distrazione, vi era una maggiore lucentezza dei lunghi, setosi capelli neri, che le incorniciavano deliziosamente l’esile figura, la cui pelle era ora priva di qualsiasi imperfezione e sempre più pallida.
E gli occhi. Occhi più vividi, più intensi, occhi capaci di catturare la luce e giocarci in modo vivace, come bambini dispettosamente abili.
Non mi piaceva, questa nuova Aria.
Però i pensieri, le parole, gli atteggiamenti erano quelli della mia sorellina. E tanto doveva bastarmi, presumo.
Come un uomo che, perduto un cagnolino di razza, ne acquista un altro che sì, è simile, ma non proprio la stessa cosa… così io tenevo con me Aria, il mio sorridente fantasma del passato che fu.
La mia unica ancora per affrontare il futuro.
«Dovresti dormire, fratellone.» se ne uscì lei, piacevolmente carezzata dal calore del fuoco. Pur essendo un vampiro, non temeva quell’elemento, anzi: pareva trarre da quelle fiamme un giovamento maggiore di quello che ottenevo io, quasi che, pur senza accorgersene, lei fosse oppressa da un freddo più intimo, più interno. Il gelo della morte, forse.
Anuii, sbadigliano, quindi estrassi le coperte dalla mia sacca. Ne porsi una particolare ad Aria, che vi si avvolse placidamente.
Era la sua coperta preferita sin da bambina, un’elegante stoffa ricamata nientedimeno che dalla nostra bisnonna. Io non avevo mai prestato una grande attenzione a quell’oggetto, ma lei la trattava come se fosse stata una preziosa reliquia. O un vecchio amico, dal quale lasciarsi stringere.
Preparai velocemente il letto, sul quale mi lasciai poi cadere con un sospiro.
Avevo un materasso.
Va bene, era cigolante, mollo e malfermo. Ed inclinato, Dio solo sapeva in che modo.
Ma, per la miseria, avevo un materasso!
Sistemai meglio il capo sulla coperta che avevo ripiegato, ricavandone un non troppo morbido cuscino, quindi chiusi gli occhi, in un misto di incredulità ed appagamento. Da quanto tempo dormivo sulla dura terra, ormai?
Quel vecchio e logoro letto mi parve un sogno.
Rialzando le palpebre, mi guardai attorno un’ultima volta, spiando le ombre danzanti per il riflesso delle fiamme. Era una casa piccola, povera, isolata dal resto del mondo.
Al buio sembrava quasi spaventevole, ma forse, alla luce del giorno, mi sarebbe apparsa in modo diverso.
Forse avevamo trovato un luogo ove fermarci. Ove nasconderci, riparandoci dalle altre persone. Un nido, finalmente, dove i due piccoli fratelli potevano riposare le stanche ali.
Scivolai lentamente verso l’incoscienza, cullato da quei pensieri.
Quella notte, in quella casa, conobbi per la prima volta la parola Shahla.
   
 
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