Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: screaming_underneath    08/07/2012    6 recensioni
Sono passati tredici lunghi anni dallo scontro coi Volturi.
La piccola Renesmee è cresciuta e, nel migliore spirito Meyeriano, si è sposata con Jacob: tutto sembra andare per il meglio.
- Cosa succede allora se scopri che nulla di ciò su cui è fondata la tua vita è veramente.. reale?
Strani sogni inquietano la giovane Cullen: e mentre teme per un possibile allontanamento di Jake, una nuova minaccia arriva a turbare le visioni di Alice, gettando tutto e tutti ancora una volta sul ciglio del baratro.
_
Parole.
Somme di lettere.
Lingua schiacciata sul palato, corde vocali che vibrano.
In una vita umana, vengono pronunciate all'incirca centosettanta milioni di parole. Se le mettessimo in fila, come tanti piccoli trenini, faremmo all'incirca quattromiladuecentocinquanta volte il giro intorno alla Terra.
Impressionante, vero?

“Il ragazzo che hai sposato e che ami follemente un tempo era innamorato di tua madre.”
Parole. Parole come altre.
[In revisione]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jacob Black, Nuovo personaggio, Quileute, Renesmee Cullen, Seth Clearwater
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The New Twilight Saga '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic

°°Cap.III°°

Parole

 

Silence is the enemy
Against your urgency
So rally up the demons of your soul

Do you know the enemy?
Do you know your enemy?
Well, gotta know the enemy?

(Know your enemy – Green Day)

 

 

 

Parole.

Somme di lettere.

Lingua schiacciata sul palato, corde vocali che vibrano.

In una vita umana, vengono pronunciate all'incirca centosettanta milioni di parole. Se le mettessimo in fila, come tanti piccoli trenini, faremmo all'incirca quattromila e duecentocinquanta volte il giro intorno alla Terra.

Impressionante, vero?

Provate ad immaginare. Binari e binari di lettere tondeggianti, alte, basse, maiuscole, minuscole, con accento, senza, corsive, urlate in stampatello. Un mondo fatto di parole.

Parole.

 

Il ragazzo che hai sposato e che ami follemente un tempo era innamorato di tua madre.”

Parole. Parole come altre.

 

~

 

Benjamin mi aspettava seduto tutto storto sulla vecchia sedia a dondolo di Emily, sul portico degli Uley. Aveva il faccino talmente imbronciato da sembrare un piccolo mastino, le guance rosse per il freddo pungente invernale.

«Cos'è successo, tesoro?» Avevo la voce roca e probabilmente si vedeva che avevo pianto, ma cercai di essere il più naturale possibile, per non spaventare mio figlio. Senza farmi vedere, mi portai una mano agli occhi, strofinandoli velocemente. Una lacrima solitaria mi rimase impigliata tra le dita per scivolare via, presa dal vento nevoso che catturava ogni cosa.

Questo non è il momento giusto, Renesmee. Consola tuo figlio. È lui l'importante, adesso.”

Allora perché mi veniva da vomitare lo stesso?

(Renesmee non andare, è storia vecchia, non importa più...)

Ma non importava forse? Si trattava della mia vita. Perché allora sembrava che tutti conoscessero segreti sul mio conto che nemmeno io sapevo?

Seth...”

«Gregory mi ha cacciato fuori di camera. Io non volevo rompere quel gioco, mamma!» Benjamin saltò giù dalla sedia a dondolo e sbatté forte i piedi per terra, scaricando con quel gesto tutta la rabbia che aveva in corpo e riportandomi temporaneamente alla realtà.

Era vero. Dovevo pensare a mio figlio, adesso. Lui veniva prima di ogni altra cosa.

Persino di una luuunga pippa mentale a proposito di una vecchia storia tra tuo marito e tua madre, Renesmee?”

Non mi risposi; invece, tesi le mani, invitando Ben ad arrampicarsi tra le mie braccia.

«Ci scommetto. Benjamin, devi ricordarti che tu sei un po' diverso da Greg o Gin, lo sai questo, no?» glielo soffiai tra i capelli, cercando di consolarlo. Sapevo quanto potesse essere dura vivere in corpo che non sempre riesci a tenere sotto controllo. Quante volte i bambini di LaPush con i quali avevo cercato di giocare mi avevano accusato di barare durante le gare di corsa, o nella costruzione di un castello di sabbia? Quanti sguardi a metà tra lo stupito e lo spaventato avevo sopportato, davanti alla solita bambola rotta, magari solo perché avevo usato un po' troppa forza nel pettinarle i capelli?

Immaginavo benissimo come si sentisse mio figlio ma, a differenza mia, volevo che non fosse sempre e solo “uno stupido incidente, stai tranquilla tesoro non è successo niente di grave” – eco della mia infanzia – ma un'occasione per far capire a Ben che no, non c'era nulla di più diverso tra lui e gli altri ragazzini, e che se voleva giocare con loro, avrebbe dovuto imparare a tenere sotto controllo le sue strane doti sovrannaturali.

I miei genitori, in questo, erano stati tutto il contrario, con una folle fissazione maniacale che andava ripercuotendosi non solo su me stessa, ragazzina tutta gomiti e zigomi e ricci rosso mogano sopra lucenti occhioni color del cioccolato, ma anche su come il resto della famiglia si rapportava a me. Durante la mia – per fortuna – breve infanzia, non c'era stato un singolo momento in cui non fossi stata controllata, coccolata, viziata e attorniata di persone gentili, che non facevano altro che ricordarmi di quanto fossi splendida e speciale.

Se lasciavo cadere un vaso, correndo dentro casa come una matta, mia madre semplicemente sorrideva, raccogliendo cocci a mani nude senza paura di tagliarsi, ammonendomi bonariamente di “stare più attenta, la prossima volta” e rimpiazzando semplicemente la fine lavoratura di ceramica che doveva essere costata un occhio della testa con una nuova; se senza volerlo piegavo uno dei cucchiai in argento di mia nonna Esme, tutta concentrata sui cereali della prima colazione per pensare a dosare la forza con cui impugnavo le posate, l'unica cosa che mi veniva detta era che “non era un gran danno”.

Mi ricordo ancora di una volta in cui, mentre giocavo a guardie e ladri assieme ai bambini di LaPush – avrò avuto sei o sette anni umani, in quei mesi – finii con lo spedire in ospedale con una spalla lussata un piccoletto di otto anni, che nella frenesia del momento avevo acchiappato con una forza tale da torcergli completamente l'articolazione. Quando raccontai con vergogna di quanto era successo ai miei – e successivamente a Jacob, che era pur sempre il mio più assiduo e indistruttibile compagno di giochi – aspettandomi almeno una sgridata sull'importantissima questione del non dare nell'occhio che avevo palesemente violato, fui liquidata con la sola frase “attenta a dosare la tua forza, tesoro, quando giochi” e l'ammonimento a non mescolarmi coi bambini umani almeno per un po', per non rischiare di insospettire qualcuno.

Fino al compimento del mio quinto anno di vita, quando ormai avevo le sembianze di un'acerba tredicenne, avevo impunemente lanciato in giro ogni mio pensiero più intimo ad ogni contatto con un'altra persona, fosse ella umana o vampira o uno dei mutaforma; questo prima di capire, da sola, che forse non era bello lanciare una scarica di Concentrato di Renesmee ogni volta che sfioravo anche solo qualcuno.

Non sto dicendo che i miei mi avessero cresciuta come una selvaggia, o che non mi avessero rimproverato mai, questo no. A tre anni, solo per il gusto di capire se mi sarei rotta una o due costole o direttamente la testa, decisi semplicemente di lanciarmi dal balcone del secondo piano di casa mia. Atterrai con un tonfo che pareva quello di un piccolo meteorite, spaccando il portico in marmo e rimediandoci escoriazioni brucianti su tutto il lato sinistro del mio corpo... e, ovviamente, finii in punizione per un mese, con l'assoluto divieto di uscire di casa e di vedere “il mio Jake”. Credo che se Isabella Swan fosse stata ancora capace di svenire, molto probabilmente sarebbe semplicemente collassata, cadendo come un sacco di patate dalla finestra del bagno da cui aveva assistito alla scena.

Ero cresciuta in un mondo fatto di persone indistruttibili, intoccabili dal passare del tempo e con poteri straordinari. Non riuscivo a capire, semplicemente, che non tutti erano così.

Certo, c'era Charlie, che non potevo mordere come mordevo Jacob o gli animali di cui ci nutrivamo a volte, e c'erano Sue e tutti gli abitanti della riserva e di Port Angeles e di tutti gli altri – pochi – luoghi che avevo potuto visitare, compreso il grosso ospedale di Seattle dove Carlisle lavorava... ma non ci avevo mai riflettuto troppo sopra, nonostante forse avessi già un'intelligenza e una maturità capaci di ciò.

I miei genitori, troppo innamorati o forse troppo attenti ad ogni più piccolo particolare riguardante la mia felicità, non mi avevano mai stimolato a pensare veramente su cosa fossero la mia vita e il mio corpo. Vivevo alla giornata, mangiando se avevo fame, bevendo sangue in sacche profumate se avevo sete, cacciando o giocando con Jake se mi annoiavo. In me non vi era il concetto di diverso: eravamo tutti uguali, i Cullen, i lupi, la foresta, gli animali... Ben in questo si differenziava da me, proprio come avevo sempre voluto: era cosciente di ciò di cui era capace e affrontava ogni nuova sfida del suo corpo e del suo essere con grinta e determinazione che era tutta la perseveranza di adulto.

Non volevo togliere tutto il divertimento a Benjamin, né fare la mamma cattiva e ricorrere a punizioni o sgridate a meno che non fossero necessarie; ma non volevo nemmeno viziarlo a coccolarlo e fargli capire che poteva fare quel che gli pareva senza che vi fossero ripercussioni.

Se avesse fatto del male ad uno dei suoi amici di LaPush, loro non l'avrebbero più fatto entrare nel gruppo; allo stesso modo, non poteva andare a sbandierare ai quattro venti che era figlio di un grosso cagnone dal manto color ruggine e di una mezzosangue, e che i suoi nonni erano dei vampiri: lo avrebbero preso in giro ed escluso dai giochi senza ripensamenti, con la cattiveria tipica dei bambini. Non tutti alla riserva sapevano veramente chi fossimo in realtà, anche se con il passare del tempo i nuovi Anziani altri non erano diventati che Sam e Jake e Paul e Leah e Jared e tutti gli altri trasformati nel duemilacinque, quando una signorina molto umana di nome Isabella aveva deciso che sarebbe stato piuttosto interessante intavolare una bella relazione con un vampiro misterioso.

La stragrande maggioranza dei figli dei figli dei figli di LaPush ormai sapevano benissimo, anche se ancora piccoli, con chi avessero a che fare, e avevano accolto a braccia aperte Benjamin e la sua strana famiglia; proprio per questo, quello che speravo di far capire a mio figlio era che essere diverso non doveva diventare un problema ma che, tenuto a bada con attenzione, era un aggettivo come un altro, ed andava benissimo per farsi una corsa sul prato assieme ai piccoli Uley e Cameron e Lahote e giocare a guardie e ladri.

Volevo che Benjamin non dovesse essere costretto a vivere nella bolla in cui ero vissuta io – che pure ero cresciuta facendo le cose che avevo lasciato fare anche a lui; solo, non avrei mai detto “è uno stupido incidente, tranquillo, non hai fatto nulla” ma anzi, lo avrei spronato a riflettere su ciò che era successo, affinché il suo errore non si ripetesse in futuro.

E se avesse semplicemente stretto troppo una mano intorno a quella di un suo compagno di gioco, rompendogli le ossa? Sarebbe stato additato come un ragazzino cattivo e violento, e non doveva succedere. Ben questo lo capiva, e cercava in tutti i modi di tenere a bada ciò che “non andava”, come diceva, in lui.

 

«Stringi le mie dita, su.» Feci un piccolo sorriso di incitamento, mentre la Renesmee dentro di me orbitava ancora intorno ad un altro pianeta, quello chiamato Bugia, intorno a quelle parole che per quanto mi sforzassi, per quanto cercassi di pensare ad altro, rimbombavano moltiplicate per cento, per mille ogni volta che Seth pronunciava quella prima frase, nel garage di Jacob.

 

(E' stato innamorato di Bella. È stato innamorato di Bella. Bella, Bella, Bella. Tua madre.)

 

Posai Benjamin sul porticato gli tesi la mano destra, reprimendo un singulto convulso. Lui, con uno sbuffo arrabbiato, mi catturò indice e medio nel suo piccolo pugno, stringendo forte.

«Più piano, piccolo» lo ammonii e la voce tremava ma lui annuì appena, inspirando, profondamente concentrato. Sentii la presa allentarsi lentamente, fino ad essere leggera come una piuma.

«Stavo vincendo con la mia macchinina, ero contentissimo, sai? Così ho stretto tanto. Ma non ho fatto male a nessuno, però» bisbigliò Ben, lasciando le mie dita. Il dispiacere che si percepiva nella sua voce fu l'ennesima pugnalata al cuore della giornata, così come capire che non potevo fare nulla per cambiare quello che era successo o quello che era la sua vita.

Era colpa mia, e di mio padre, e di vecchie leggende Quilieutes, se il bambino magrolino e mogio che avevo di fronte non poteva avere un'esistenza felice e spensierata come i suoi amici. Lo avevamo condannato tutti... Gli presi di nuovo la mano e gli feci il solletico sul palmo, cercando di tirarlo su di morale e di tirare su di morale anche me stessa.

«Lo so, Ben. Devi solo ricordarti che non tutti i giocattoli o le persone sono resistenti come me o i nonni o i lupi, e che devi frenare i tuoi poteri quando giochi con gli altri bambini, ok? Ti sei scusato con Greg?» Ben annuì di nuovo, ma si vedeva che era ancora arrabbiato. Un po' con se stesso, un po' con l'amico, che molto probabilmente lo aveva sbattuto fuori di camera, furibondo, senza farlo parlare.

«Sì. Emily ha detto che non importa per il gioco, mamma, però se vuoi è là dentro in cucina. Io rimango qui.»

«Non ti muovere. Nevica forte e tu e la tua influenza non avete bisogno di incontrarvi di nuovo. Ritorno subito, ok piccolo?» con un gesto fatto milioni di volte, gli scompigliai i capelli, soffiandogli un bacio tra le dita; Ben, con un piccolo sorriso, fece il gesto di acchiapparlo al volo, posandoselo sulla guancia.

Mi ritrovai sorpresa di questa interpretazione di me stessa tutta spensierata e materna, quando l'unica cosa che volessi fare veramente

 

(Ness non è colpa sua, non arrabbiarti... te lo avremmo detto, sul serio)

 

era rannicchiarmi in un angolo e strapparmi il cuore dal petto e piangere. Quante facce ha una persona? Non siamo altro che gli attori di noi stessi, della nostra stupida vita. Un film che va avanti con una sceneggiatura che non può essere cambiata, e ogni pagina nasconde un nuovo colpo di scena.

(Lui era innamorato davvero, è per questo che ha paura... di perdere anche te. Non ti tradisce, Nenè, non ti ha mai tradita. Ti ama. Non è solo l'imprinting...)

«Io sto qui, mammina!»

La voce di Ben mi arrivò lontana miglia, distorta da anni luce di distanza e strappi nella materia dell'universo. Mossi la testa, non so se per annuire o semplicemente scuotere via quella sensazione di rimbombo che provavo e gli detti le spalle; arrivata alla porta di casa, la prima lacrima cadde di nuovo, sopra al pomello d'ottone, ammiccando lucente.

 

~

 

Adesso il silenzio era quasi tombale. Dal piano di sopra si sentivano solo i rari miagolii di un videogioco, ma non più la baraonda infernale di quando me ne ero andata, con la sciocca speranza che una camminata sarebbe bastata a farmi schiarire le idee.

Sentii Em che canticchiava, sovrastando appena il rumoroso frusciare della farina mescolata in una terrina, e mi diressi traballando verso la cucina. Da quando il mondo era così acquoso?

«Ma tu piangi! Ness, cosa diavolo è successo?» Emily lasciò cadere il cucchiaio a terra, sgranando gli occhi quando mi vide entrare, malferma sui piedi e con la giacca inzuppata di neve e lacrime.

Oh, Em.”

«N-niente. O-o-ora passa» biascicai, ma non dovetti sembrare molto convincente. Sentii il profumo della mia amica avvolgermi, una mano sostenermi fino ad una sedia. Strinsi forte il legno liscio, cercando di respirare, senza riuscirci. Ne avevo perso il diritto in una vecchia, sudicia rimessa nel bel mezzo di una riserva di indiani e stupide leggende, con gli occhi del mio migliore amico che gridavano una scusa che non apparteneva loro.

«Prendi questo, su.» Il freddo vetro di un bicchiere mi accolse, ma non aprii le labbra. Era faticoso, faticoso persino piangere.

«N-non importa.»

Alzai una mano, scacciando Emily. Il sospiro di lei mi si infranse sul collo, caldo ed umido. «Smettila di dire cazzate, Renesmee. Che diavolo è successo?» le sue braccia mi circondarono, forti e fredde contro la mia pelle incandescente; la rabbia rinacque dalle ceneri dove l'avevo seppellita.

Cosa devo dirti, Emily, che tu non sappia già? Mi avete tradito tutti. Io non sapevo, io non lo sapevo...”

«Perché non me l'avete mai detto?» ansimai, divincolandomi dalle sue braccia. Non ero entrata per fare quella domanda, non ero entrata per piangere in quella cucina troppo pulita e lucida come uno specchio. Volevo solo pagare il danno di mio figlio, scusarmi ed andarmene a casa.

Qualcuno una volta mi disse che si soffre meglio in compagnia di un buon amico che può consolarti... ma cosa voleva dire “buon amico”? Solo una delle persone che per il tuo bene mentono subdolamente, nascondendoti le verità scomode.

Non volevo essere compatita, non volevo essere consolata.

Lei lo sapeva già. Come tutti gli altri.”

Volevo solo che Jacob mi stringesse e mi dicesse che quello stupido di Seth mi aveva fatto uno scherzo scemo, un pesce d'Aprile in anticipo, strappandomi un bacio e una carezza sul divano, rannicchiati vicini.

Volevo solo accertarmi che tutta quella dannata mattinata fosse solo un sogno, l'ennesimo parto della mia mente stanca. Volevo solo credere che mi sarei svegliata, e tutto sarebbe stato come sempre.

La mia vita di sempre, quella bella.

«Cosa? Che stai dicendo, Ness?» Emily continuava a recitare la sua parte; “Sembra quasi sorpresa sul serio” pensai amaramente e all'improvviso non volli sentire cosa la donna che consideravo la mia più cara amica avesse da dirmi, quali giustificazioni già pronte e levigate da anni di attesa volesse usare come difesa.

Erano tutte bugie. La mia vita era un'enorme, schifosa bugia.

I sorrisi a tutti denti di mia madre, le corse con mio padre, i giochi con Jacob.

Tutti che volevano solo e soltanto il mio bene, senza che nessuno, in dodici anni, avesse mai neanche provato a sputarmi in faccia la verità. Ero troppo fragile, troppo carina o troppo buona? Non volevo la protezione di nessuno.

Ero una donna, ero adulta, ero una madre. Non portavo più gonnelline e pizzi e trecce.

(Era innamorato di tua madre. Tua madre, tua madre, tua madre!)

Con un gesto convulso, mi strappai dalla tasca del cappotto il portafogli, lanciandolo a mosca cieca alla mia sinistra. Lo sentii atterrare sul tavolo con un tonfo di porcellane rotte. «Scusa per il gioco. Ricompralo a Gregory da parte mia.»

«No, non devi, Ness...»

Ma mi ero già alzata. Respirando forte, il pomello della porta di casa che già si infilava tra le mie dita, cancellai con l'altra mano le lacrime, mordendomi forte le labbra affinché non tremassero. Ben avrebbe fatto domande, Ben non doveva vedermi in quello stato...

«Mamma! Stai male?» Il freddo mi avvolse ma il tepore di Benjamin lo scacciò via in fretta. Mi aveva abbracciato non appena uscita. Doveva aver sentito tutto... o anche solo parte di quello che avevo balbettato con Emily, spaventandosi a morte. Gli accarezzai la testa, respirando a fondo. Sentivo gli angoli degli occhi pungere, ma mi sarei trattenuta.

«Andiamo a casa, dai. Ci facciamo una cioccolata calda e passa tutto.» Proposi, con voce malferma, e quasi potei immaginarmi seduta a gambe incrociate davanti al camino del salotto, con una tazza calda tra le mani e mio figlio che disegnava l'ennesimo vaso di fiori o un soprammobile, con baffi marroni di latte e cacao sotto il naso.

Era una visione così reale, così pacifica da essere quasi palpabile. Volevo solo dimenticarmi per un attimo di quello che mi aveva detto Seth, cancellare tutto ciò che era successo quella mattina, dal mio risveglio e il mio malessere alle grida nella cucina di Em.

Sarebbe stato tutto ok, assieme a Benjamin. A casa.

Dovevo solo raggiungere Forks e respirare tranquillamente, ma sapevo che con mio figlio accanto non avrei avuto problemi. Era il mio salvagente. Niente poteva farmi male, quando ero con lui.

Non puoi usarlo come scudo. Lui non c'entra, con questa storia.”

Mi portai al collo Ben, strofinando il naso contro il suo. «Casa, ok? Casa.»

... E Jake? Dovrai parlarci, quando torna. Cosa gli dirai?”

La morsa allo stomaco, molto simile a quella che avevo provato poche ore prima, tornò, forte e acida. Perché la cazzo di me interiore aveva ragione.

“«Ehi, ti ricordi di me? Sono tua moglie, sono il tuo imprinting. Allora perché non hai mai provato a confidarmi che un tempo sei stato quasi l'amante di mia madre? Forse avresti dovuto includerlo tra i voti del matrimonio, Jake. Prometto di amarti, onorarti e smetterla di pensare a Isabella Swan, il mio amore adolescenziale.»”

Ecco. Quello poteva andar bene.

 

Dovevo solo rimanere fredda e calma e lucida.

Ma volevo davvero fare una scenata solo perché Jacob mi aveva tenuta all'oscuro delle sue relazioni passate? Era un fatto di più di dieci anni prima e, arrivata alla macchina e posato Ben sul suo seggiolino, già la furia che avevo rivolto verso Emily andava scemando di nuovo, lasciando il posto alla coerenza.

Adesso c'è l'imprinting. Ha me.”

Ero confusa.

Da una parte, gli strani sogni e il malessere che mi stringeva nella sua morsa ad ondate. Dall'altra, le strane allusioni di Emily... e quello che mi aveva detto Seth.

L'ombra negli occhi di Jacob; come mi fossi sentita ferita, non appena il mio migliore amico aveva insinuato che no, non c'ero sempre stata io nella vita di mio marito.

(Era innamorato di tua madre, Nenè. Lo è stato per tanto tempo, prima di conoscere te. Poi c'è stato l'imprinting... e non è più stato importante. È storia vecchia, non devi preoccuparti per lui. Jake ama solo te, Nenè, non ti potrebbe tradire mai. Ha una folle paura di perderti, ma nulla più. Ma con questa storia dei Volturi ancora aperta... chi non ha paura di perdere chi?)

Chi non aveva paura?

Pensai a mia madre, e quello strano rapporto di amore quasi casuale e distratto che ci aveva sempre tenute l'una un po' distante dall'altra, come cani sospettosi che si annusano a vicenda; non avevo mai capito quale fosse il nostro problema, una specie di timore reverenziale? Ma ora, forse potevo capire.

Parole.

Parole come tasselli di un puzzle, che si incastravano al loro posto.

(Sono stati quasi degli amanti, poi tua madre ha scelto Edward e... sei nata tu. E non importava più niente, perché c'eri tu, Renesmee.)

Una carezza, un sorriso triste, una frase sospesa a metà, un saluto abbozzato, uno sguardo distolto.

Parole.

Quelle di Seth che mi rimbombavano nelle orecchie, forte, mentre stringevo quanto più potevo il volante della mia vecchia jeep tra le mani.

(Tua madre, tua madre. Mia madre.)

«Andiamo dai nonni, ti va? La cioccolata la beviamo più tardi.» proposi senza riflettere, e mi ritrovai a ghignare, i denti serrati tra le labbra. Sentii mio figlio dire qualcosa, forse di passare prima da casa per prendere il disegno che aveva fatto per nonno Carlisle, ma non risposi; dallo specchietto retrovisore, una ragazza con il volto bagnato di lacrime e le labbra tremanti, con gli occhi cerchiati e lo sguardo da pazza, mi fissava. E aveva boccoli color del rame e iridi dello stesso colore della fu Bella Swan, mia madre.

 

La donna che forse, a distanza di anni e anni, amava ancora mio marito.
 

~

 

Ben si era addormentato nel breve tragitto tra LaPush e Forks e stringermelo tra le braccia mi tranquillizzò, quando infine posai i piedi sul vialetto sassoso di Casa Cullen, la grossa abitazione dove da ormai quasi quindici anni vivevano i miei nonni paterni e i miei zii.

Molte volte avevamo parlato di traslocare, in effetti.

Mia madre ogni volta rifiutava categoricamente, troppo preoccupata per mio nonno Charlie per poterlo abbandonare, magari cambiando stato o addirittura continente, come invece mio padre aveva suggerito. Probabilmente, quando infine il tempo si sarebbe portato via il mio vecchio e caro nonnino, i miei genitori sarebbero scomparsi per un po', per farsi quel viaggetto in Europa di cui parlavano sempre.

Il problema, poi, ero sempre stata anche io.

Qui avevo Jake, e Jacob non poteva abbandonare armi e bagagli e semplicemente seguire me e la mia famiglia lontano. Suo padre era morto tre anni prima d'infarto – era stato un colpo duro per tutti, soprattutto perché mio figlio era nato solo due giorni dopo – ma aveva comunque il branco da gestire, e un'intera esistenza cui non avrebbe detto addio facilmente, anche se il legame che lo univa a me era più forte di tutte queste cose.

Così, i miei zii e i miei genitori avevano nel corso degli anni girato la maggior parte delle scuole dello stato; Carlisle, che non poteva operare per più di quattro o cinque anni nello stesso ospedale senza sollevare domande su come diavolo fosse possibile che invecchiasse così bene, aveva lavorato a Port Angeles e infine a Seattle. Forks era stata bandita per sempre dalle nostre mete, e anche io mi ero fermata in città pochissime volte, sempre e solo da sola, per non destare sospetti. Se qualcuno mi chiedeva qualcosa, ero una semplice turista in vacanza, oppure una studentessa in gita di piacere. Le rare volte in cui mi ero spinta in negozi o supermercati avevo sempre fatto in modo di non entrare due volte nello stesso posto, per non rischiare di essere riconosciuta.

La nostra era una vita da reietti, perennemente isolati dal resto del mondo. Ma, forse perché anche l'unico stile di vita che conoscessi, non ne ero oppressa, e non mi ero mai fatta dei grossi problemi.

 

Quando da piccola volevo qualcuno con cui giocare, c'era la mia famiglia, c'erano Jacob e gli altri ragazzi di LaPush. Non avevano molti bambini della mia età, alla riserva, ma alcuni ce ne erano, prima che me li lasciassi alle spalle con la mia crescita super-accelerata. Non avevo mai sentito la mancanza di miei coetanei, di una scuola, di un gruppo dove inserirmi. Tutto ciò che sapevo, e ne sapevo di cose, eccome!, mi era stato insegnato da mio padre, da mia madre e dal resto della mia famiglia. Avevo imparato a leggere e far di conto da sola ed ero sempre stata curiosa e affamata di imparare, talmente tanto che, a sette anni, mio padre mi aveva messo per la prima volta un libro di trigonometria tra le mani. L'avevo divorato in poche ore, sperando di poterne averne un altro subito, o almeno provare esercizi diversi da quelli usati come esempio su quel tomo, che avevo già ripetuto e ripetuto tantissime volte, sotto lo sguardo stupito di mia zia Alice.

Mi ero sempre reputata molto fortunata.

Vivevo agiatamente, con una famiglia che mi amava e il ragazzo perfetto al mio fianco, che c'era sempre e sempre ci sarebbe stato. Avevo un figlio stupendo, una vita splendente sotto ogni punto di vista. Una vita eterna, per di più.

Era troppo quindi, chiedere un po' più di trasparenza da parte delle persone che mi erano care?

 

«Ma nonno Edward e nonna Bella non ci sono. E nemmeno gli zii, mamma.» La vocina di Ben mi giunse flebile, al di là della mia spalla. Non mi ero accorta che si fosse svegliato, ma mi fece piacere. Parlare con lui implicava svincolare dai tristi confronti con me stessa.

Allungai i sensi fino a raggiungere la grande casa che mi era di fronte, ma mio figlio aveva ragione, ed era strano che non vi avessi fatto caso subito; gli unici odori e voci che potei riconoscere furono quelli di mia nonna Esme, che canticchiava in cucina e di mio nonno Carlisle, impegnato in quella che pareva una lettura di un qualche trattato di chirurgia nel suo studio. Avevo sperato di trovarvi anche i miei genitori, come ogni giovedì, quando il più delle volte tutta la famiglia al gran completo se ne andava tra i monti per una caccia diurna, ma probabilmente erano partiti già da ore, diretti verso nord come ogni inverno e non sarebbero tornati che a buio.

Una fitta di delusione e irritazione mi percorse. Speravo di poter parlare con mia madre, di fare una sfuriata o forse anche solo di piagnucolare un altro po', domandandole perché mai non mi avesse mai raccontato nulla. Volevo chiederle se davvero un tempo aveva amato Jacob, se ancora alle volte vi pensava, quando mi vedeva in sua compagnia. Magari, parlare con lei avrebbe fatto capire a me cosa non andava su, nella mia Centralina Principale, da un po' di tempo a quella parte.

Ma non c'era nessuno, e la Renesmee pazza, quella piccola ma sempre più consistente fetta del mio essere, si sentì tradita, pugnalata alle spalle per l'ennesima volta.

Sei la vittima perfetta, Renesmee.”

«Allora andremo a salutare nonna Esme, ok? Magari puoi chiedere a lei la cioccolata» dissi a voce troppo alta, dirigendomi verso la porta d'ingresso. Mio figlio non si mosse tra le mia braccia, mormorando un appena udibile, forse troppo insonnolito o infreddolito. Continuava a nevicare, ma per fortuna le strade erano ancora abbastanza sgombre ed io ero arrivata a casa prima che la tempesta vera e propria scoppiasse anche a Forks.

 

Mi resi conto che mi tremavano un po' le gambe solo quando vidi l'uscio dischiudersi, facendo uscire il calore dell'interno e quasi non inciampai su me stessa, evitando un cumulo di ghiaccio.

Calmati, calmati, calmati...Sii rilassata. Non è successo nulla.”

«Tesoro! Buongiorno! Cercavi tu-... oh, cara, cosa è successo?» mia nonna mi aveva aperto con un sorriso, senza nemmeno aspettare che suonassi il campanello, con quella rapidità tutta vampirica che non mi sorprendeva più da tanti anni; vidi la sua faccia – felice e radiosa, come ogni volta che arrivavo assieme a Ben – franare su se stessa man mano che mi guardava con più attenzione. Sperai di aver eliminato quella smorfia con cui mi ero sorpresa e spaventata in macchina, ma sapevo che occhi gonfi e rossi e capelli scarmigliati non mi rendevano lo stesso un bello spettacolo.

Ero un libro aperto per tutti, in quel momento.

E pensare che mi ero svegliata con il solo obbiettivo di farmi una passeggiata sul lungo mare e riflettere sul mio incubo più recente... senza sapere che avrei trovato abbastanza materiale per costruire sognacci di ogni genere per il resto della mia vita.

«Puoi prendere tu Ben? F-forse vorrà mangiare qualcosa, nonna» balbettai io, cercando di rimanere tranquilla ed eludendo la sua domanda. Gli occhi dolci e preoccupati di Esme mi trapassarono, con il solo risultato di farmi sentire ancora più male.

Forse prendere qualche pastiglia umana non sarebbe stata una cattiva idea, no.

«Ma certo, ma certo. Se... vuoi fermarti un po' a riposarti, posso prepararti il letto nella stanza di tuo padre» mi propose, mormorando. Prese con delicatezza Ben dalle mie braccia, ancora mezzo addormentato, continuando a squadrarmi con un cipiglio sempre più pensoso e ansioso.

Scossi la testa, per invitarla a non fare domande. Non avevo voglia di rispondere a nulla, solo di farmi una bella dormita con una dose super concentrata di tranquillanti in vena.

«Ci facciamo un bel pranzo con qualche schifezza cioccolatosa, Ben? Ci stai?» si rivolse allora Esme a mio figlio, e lui annuì contro la sua spalla, riprendendo vita come di botto. Cosa non faceva la promessa di un po' di sani dolciumi!

«Credo che mi farò visitare dal nonno. È-è un periodo un po' faticoso, per me. Posso disturbarlo?» confessai, sperando che quelle parole non scatenassero una pioggia di commenti. Non andavo loro in visita da più di una settimana, troppo occupata da questo o da quell'impegno, e mi pareva di essere peggiorata tutto di un botto nelle ultime tre ore; senza nemmeno volerlo, mi sentii in colpa per aver trascurato tanto il resto della mia famiglia ed avergli nascosto di non stare molto bene, anche se la mia, posto che lo fosse, più che una malattia fisica doveva essere uno stress mentale. Per mia fortuna, dopo un ultimo sguardo indagatore, mia nonna semplicemente annuì, senza cercare di cavarmi di bocca nulla.

«Tesoro, tu non disturbi mai. Carlisle è nel suo studio, sali pure. Noi ti aspettiamo di sotto, vero Benjamin?»

«Schifezze!» urlò lui in risposta, e riuscì a strappare un sorrisino tirato pure a me, mentre salivo in fretta le scale e mi dirigevo verso la grande stanza dove mio nonno teneva la sua collezione infinita di libri di medicina e un piccolo apparato di marchingegni diagnostici.

 

Non vi fu bisogno di bussare. Arrivata sul pianerottolo, Carlisle Cullen già mi squadrava, visibilmente preoccupato. Mi lasciai andare e mi precipitai tra le sue braccia, stringendolo forte.

«Nonno, cosa c'è che non va in me?»

 

~

 

Lo stetoscopio era gelido contro la mia pelle a trentotto gradi. Sentii il freddo senz'anima del metallo scivolarmi sul petto, poi sulla schiena, serpeggiandomi tra le scapole.

«Parlami ancora di questi sogni, Renesmee.» Il tono assunto da mio nonno era quello professionale che da più di quattro secoli usava coi suoi pazienti e mi rincuorò. Se c'era davvero qualcosa di strano in me, lui l'avrebbe di sicuro capito e curato. Mi trovai a domandarmi per l'ennesima volta perché, invece di parlarne con Emily, non fossi venuta direttamente da Carlisle per farmi visitare.

Mi sarei risparmiata un sacco di casini in più che non avevo la voglia o forse la forza di affrontare.

«Il più delle volte neanche li ricordo. Mi sveglio con il cuore a mille, gridando così forte da svegliare persino Jacob. Alle volte sono talmente sconvolta che non riesco a riprendere sonno ed è frustrante, non ho idea del motivo perché abbia così tanta paura. Credo... credo che sia stress. C'è nonno Charlie che sta male, mia mamma super apprensiva che non fa altro che tormentarmi con questa storia, Ben a cui badare... e le visioni di zia Alice, che tengono lontano da casa Jake. Forse sogno loro, i Volturi. So solo che qualche volta c'è Ben, nei miei sogni; piange e p-piange... e poi lo porta v-via.» Scoppiai, nascondendomi gli occhi con le mani.

La luce al neon dello studio mi feriva, passando in spiragli tra le mie dita.

«Chi? Chi lo porta via? Riesci a ricordare?»

Scossi la testa con violenza. Non volevo costringermi a ricordare. Era doloroso, era faticoso. C'erano un sacco di spiragli di quei sogni nella mia mente, ma erano nebulosi, vaghi.

(E' Jake, è Jake, è Jake.)

No. Non ricordo. Non ricordo.”

(E' tua madre, allora? Sono loro due, assieme? Sono questi i tuoi sogni, Renesmee?)

No. No. No. No.”

Stavo scuotendo violentemente la testa, mordendomi con quanta più forza riuscissi a trovare in me le labbra «... No!» gridai frustrata e mio nonno, posato lo stetoscopio sul lettino dove mi aveva fatta distendere, mi si avvicinò, le mani forti a stringermi i polsi fino a costringermi ad abbassare le braccia.

«Calmati. Ora respira lentamente. Non c'è niente che non vada in te, tesoro. Dimmi, con Jake è ancora tutto a posto?» Il suo tono era calmo, misurato, gentile come ogni buon dottore che si rispetti e io non sapevo rispondere.

Andava tutto bene? Non potevo dire di no. Io lo amavo come il primo giorno, lui mi amava allo stesso modo. C'era nostro figlio – la nostra gemma preziosa – e un bella, sana dose di complicità. Andava tutto bene, allora?

Certo, fino a quando non pensi a tutte le cose importanti che ha deliberatamente deciso di occultarti. Bel rapporto maturo e civile, avete.”

Ma non era vero.

Dovevo smetterla di fare la vittima, la moglie-con-il-cuore-spezzato. Sì, un tempo forse c'era davvero stato qualcosa con mia madre e ciò mi faceva rabbrividire al solo pensiero, ma adesso?

Nulla mi poteva far pensare che ci fosse qualcosa tra e me e Jacob che potesse dividerci veramente. Oh, andiamo, non c'era mai stato.

«No. È-è tutto ok tra di noi, credo.» Alzai le testa, ed eccoli, gli occhi color dell'oro di mio nonno. Ora non era più solo il medico, ma anche una delle persone cui stavo più a cuore. Ed erano preoccupati, quegli occhi, preoccupati ma anche... cosa? «No, anzi. Sono sicura. C'è una cosa che mi ha detto Seth...» iniziai, ma lui mi interruppe e forse fu un bene, perché non mi andava di parlare di quella cosa con lui, non ancora.

«Bene. È questo l'importante, ricordalo sempre. Renesmee, tesoro, non voglio che tu sia agitata o ti stanchi troppo, e ti darò delle pillole, se non riesci a dormire, ma promettimi che ti riposerai e prenderai le cose con più calma, adesso, ok?» Mio nonno mi posò una mano su di una spalla, strappando un sorrisino compiaciuto a quella sua espressione seria.

Non capivo. Lo guardai, confusa, mentre lui mi sorrideva ancora, più rilassato di quando ero entrata nel suo studio, piangendo come una matta e urlando che qualcosa non andava in me.

«Ma certo... nonno, è tutto ok?» domandai. Lui annuì, e stava per aprire bocca quando la sua espressione, da tranquilla e gentile come sempre, divenne all'improvviso un grumo di tensione e apprensione. Sentii le sue mani contrarsi, abbandonando la mia spalla e la mia mano. Con un scatto, fu in piedi, a guardare verso porta e finestra, alternativamente. Sembrava in attesa di qualcosa, l'arrivo di una probabile minaccia?

Ero del tutto spiazzata. «Che succede?» gemetti, e la paura, mia vecchia conoscenza, strisciò di nuovo in me, facendomi venire i brividi. Ero a petto nudo, ancora non mi ero rivestita dopo la visita, e per la prima volta forse nella mia intera vita, sentii freddo, un ghiaccio terribile che mi avvolgeva le ossa.

«Non dovevano... no, qualcosa non va. Rimani qui, Renesmee, ok? Non vi muovete di casa, tu, Ben e Esme. Dille di rimanere in casa. Voi... non muovetevi!» gridò Carlisle, e con un balzo fu fuori dallo studio, giù per le scale. Lo sentii ripetere le stesse parole a mia nonna più volte, assieme al tintinnio delle chiavi di casa e successivamente del chiavistello che veniva tirato; solo in quel momento mi resi conto della presenza di mio padre e di Emmett sotto di me, al limitare della foresta e il vociferare troppo lontano per le mie orecchie quando mio nonno li raggiunse.

 

Con gesti febbrili mi rivestii, ogni movimento come dilatato nello spazio di un milione di volte.

La mia mente volava, cercava risposte, creava domande.

Cosa stava succedendo?

Perché mio padre e mio zio erano tornati prima dalla caccia? Non pensavo che li avrei rivisti ancora per ore. Ripensai all'improvviso cambio di espressione di Carlisle, alla tensione e alla paura mal celata che avevo letto nei suoi occhi... Dov'erano mia madre e Alice e Jasper e zia Rose?

Mio nonno stava per dirmi qualcosa, ne ero certa. Se mio padre non fosse arrivato in quel preciso istante... “Chissenefrega, Renesmee. Rifletti, cazzo.”

Mi bloccai a metà di un passo, nel bel mezzo della scala che portava al pianterreno. Potevo sentire Esme canticchiare una canzoncina a mio figlio per calmarlo. Si doveva essere spaventato dallo scatto di Carlisle, o forse voleva semplicemente che a rassicurarlo fossi io... ma era una percezione lontana, in un luogo che per il momento non mi apparteneva.

Sconcertata, fissavo la porta d'ingresso, visibilissima dal punto in cui mi trovavo io. “Chiavi...” Quando mai avevo sentito scattare il meccanismo di chiusura del grosso portone di casa Cullen?

Non ce ne era il motivo. Abitavamo tra i boschi, e le alci non hanno mani...

(Le alci non hanno mani, non hanno mani ma loro )

… E niente e nessuno poteva essere una minaccia per una famiglia di vampiri, giusto?

«Renesmee, vieni qua con noi, per favore!» La voce di mia nonna era piena d'angoscia, impauritissima, mio figlio piangeva fortissimo.

Che cazzo succede?”

«A-arrivo!» balbettai e finii di scendere gli scalini, lentamente. Il mondo vorticava rumorosamente. La porta di casa mi ammiccava, rilucente come uno smeraldo.

Non mi sento bene.”

Ma non era quello, e il mio cervello mezzo fuso mi evidenziò la realtà con una scudisciata, una fitta terribile alle tempie, che mi costrinse a rannicchiarmi contro il muro, senza fiato.

Nessuna speranza. Ecco che diceva quel chiavistello.

Nessuna speranza.

Parole. Parole come altre, no?

Ne avevo sentite tante, quella giornata... eppure, per quanto le scacciassi, esse ritornarono, martellando ferocemente le mie tempie.

 

Perché una semplice serratura non sarebbe bastata mai a separarci dal pericolo, dal Nemico.

Nessuna porta chiusa può in alcun modo tenere fuori i Volturi.”

 

Iniziai ad urlare.

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: screaming_underneath