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Autore: Sphaira    10/07/2012    1 recensioni
[Ao Oni]
Iniziò il gioco del mostro.
Iniziò la sfida a sopravvivere.
Iniziò un Inferno da cui non tutti sarebbero usciti incolumi.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Hiroshi

Tirai un sospiro di sollievo quando la porta della stanza in cui mi ero rintanato sbatté per l’ennesima volta.
Ero appena riuscito a risolvere il rebus della porta con il codice dato dai colori, per il quale ebbi bisogno di uno strano segnalibro; però ebbi appena il tempo di entrare che mi ritrovai alle calcagna sia Mika che Takeshi.
Ancora non riuscivo ad accettare di averli persi. Prima Mika, che avevo lasciato da sola in quella stanza per troppo tempo, poi Takeshi, che per quanto ci avessi provato era stato impossibile da salvare. Non ero riuscito a proteggere i miei compagni come speravo di fare, ma in fondo non era colpa mia, né loro: ci eravamo solo ritrovati in un guaio più grande di noi. Un guaio folle e inconcepibile. Non ero ancora sicuro di essere sveglio e di non star facendo solo un brutto incubo. Sarebbe stato bello, se lo fosse stato; peccato che non riuscivo a svegliarmi.
Cercando di fare meno rumore possibile, uscii dall’armadio in cui mi ero accucciato e richiusi le ante dietro di me. Finalmente ebbi il tempo di ispezionare con calma il primo dei due ambienti cui ero arrivato: notai un rialzamento del tappeto, quindi lo alzai e scoprii sotto di esso una sorta di disco. Sul dorso c’erano dei segni che non avevo subito capito; una serie di colori e una sorta di freccia. Lo rigirai un paio di volte tra le mani per curiosità, e quando vidi una cavità cilindrica sospirai. Un altro puzzle.
Riposi l’oggetto nella sacca con tutti gli arnesi che avevo dietro prima di uscire e andare verso la seconda porta, quella da cui era uscito Takeshi.
Era una camera più o meno simile alla precedente. Sembrava che non ci fosse niente di strano, e in più c’era anche un altro armadio in cui avrei potuto nascondermi.
Mi avvicinai piano ad aprirlo, e poco prima di scostare le ante sentii qualcuno trattenere il respiro prima che le aprissi. Feci un passo indietro. Avevo trovato Takuro.
Mi sentii rincuorato nel vederlo riconoscermi. Il fatto che fosse padrone di sé e che non fosse diventato a sua volta blu come Mika e Takeshi mi restituì un minimo di speranza. Potevo ancora salvare almeno lui.
Avemmo un breve dialogo: si era slogato una caviglia, quindi preferì rimanere a riposarsi un altro po’ nascosto lì. Un brivido mi corse per la schiena: un déjà vu, era accaduto lo stesso con Mika, che aveva preferito rimanere in quella stanza. Ma lo sguardo determinato di Takuro mi rassicurò: lui era nascosto, era un ragazzo, avrebbe saputo come cavarsela nel caso si fosse trovato nei guai. Certo, sarebbe stato meglio se non ce ne fossero stati, pensai fra me e me scuotendo la testa, quindi accettai l’aceto che mi diede prima di richiudere le porte dell’armadio. Perfetto, con quell’aceto avrei potuto togliere la ruggine da quella chiave rossa che avevo trovato non molto tempo prima. Ma dove conduceva?
La prima cosa che feci fu appunto quella di pulire la chiave. La osservai; era di un grigio chiaro, forse un po’ più tozza delle altre, come… come la chiave di una cella.
Uscii dalla stanza e cominciai a ripercorrere i miei passi verso il corridoio della cantina del secondo edificio, cui ero arrivato non molto dopo essere scappato da Takeshi. Ricominciai a perlustrare le stanze in cui passavo, e la prima in cui mi fermai fu stesso l’ingresso della porta dal codice del segnalibro.
Ricontrollai il segnalibro e il codice, girando la cartuccia nel cassettino in cui l’avevo già inserita in precedenza, ma non ottenni niente di utile. Andai verso gli scaffali addossati al muro di fronte alla porta: pensandoci, il fatto che fossero due mobili separati poteva essere tanto strano e sospetto quanto potesse essere solo una coincidenza. Ma come credevo, no, non era una coincidenza: scoprii una porta nascosta.
Sorrisi fra me e me provando ad aprirla, ma quella fece resistenza: era chiusa a chiave. Allora tirai fuori quella che avevo appena pulito dalla ruggine e provai ad inserirla, ma senza successo.
Dovevo cercare altrove, ma tenni a mente la posizione della porta. Se aveva bisogno di essere nascosta ci doveva essere per forza un motivo valido; dietro di essa doveva esserci qualcosa di davvero interessante.
Passai oltre, procedendo alla mia destra, e tornai nella sala in cui avevo trovato l’interruttore della corrente. Guardai di nuovo nella libreria alla ricerca di qualcosa di utile, ma non trovai niente; l’interruttore era bloccato e la pianta non aveva niente di strano, come il resto delle pareti non coperte da mobili. Uscii di nuovo dirigendomi verso la stanza avanti a quella dove ero appena stato, ma qualcosa mi fece girare a controllarmi le spalle, e feci bene. Il demone che ci aveva aggredito fin dall’inizio era lì: mi stava spiando, e l’essere stato scoperto lo costrinse a riprendere a rincorrermi. E io, senza neanche inquietarmi più di tanto oramai, ripresi a scappare.
Evitai di andare nella stanza in cui stavo per entrare, che era un vicolo cieco, e scelsi di risalire al piano terra dell’edificio annesso alla villa per andare da qualche altra parte. Il mostro faceva fatica a tenere il passo, ed io non accennavo a rallentare, ma neanche osavo guardarmi dietro per confermare i miei pensieri.
Uscii dalla porta alla mia destra per evitare di ricadere nel buco nel pavimento del corridoio, quindi di tornare al punto di partenza, verso il sotterraneo; girai ancora una volta a destra quando mi ritrovai nella sala principale, e ancora una volta a destra verso la stanza delle bambole per chiudermi dentro di essa. Spensi la luce per disorientare il mostro, e quel trucco funzionò: lo sentii disorientato non sapere dove andare tra le due stanze, grugnire per avermi perso ancora una volta, ed infine sparire così com’era apparso. Riaccesi la luce; senza di essa era pressoché impossibile vedere. Feci mente locale, cercando di distrarmi dall’improvvisa apparizione del demone e frugando nella borsa. Mi ricordai di avere una lampadina con me; l’avevo presa dalla stanza del primo piano, dalla lampadina che era sul comò. Decisi di tenerla in mano; avrei potuto lanciarla contro qualcosa per fare rumore e distrarre il mostro nel caso di un nuovo inseguimento.
Richiusi la borsa, quindi alzai casualmente lo sguardo verso le bambole che avevo visto in precedenza. Erano due: una con le pietre bianche e una mano alzata, abbastanza allegra, come se stesse salutando, e l’altra decapitata per via del rebus della cassaforte della stanza speculare a questa. Mi avvicinai ancora una volta ad essa, guardandone il corpicino rimasto; giocai un po’ con le braccia, poi mi accorsi che intorno al vuoto lasciato dalla testa c’era una parte sopraelevata che nella bambola a fianco non c’era. Incuriosito, provai a spingerla, ma non successe niente; quando invece la ruotai, quella venne via. Posai la lampadina sul mobile per provare a prendere in mano la bambola, ma quella non si mosse: c’erano dei fili uscenti dai piedi che la tenevano attaccata alla superficie legnosa. Tornai a guardare il bulbo di vetro, poi ancora i fili; rimisi a posto la bambola dove l’avevo presa, provai ad avvitare il bulbo, e osservai con stupore che la lampadina funzionava. Incredibile; chi avrebbe mai progettato una lampada del genere?
Tornai a spegnere la luce vicino all’ingresso, e contemplai qualche secondo la luce soffusa che regnava ora nella camera prima di guardare l’ombra proiettata sul muro dalla stessa a causa della bambola che c’era davanti. Mi avvicinai tenendo una mano vicino alla parete, e sentii che qualcosa nella parte indicata dall’ombra non andava.
Tirai fuori il pezzo di piatto come già avevo fatto in precedenza nel primo edificio, e divelsi la parte superficiale della parete, scoprendo una nuova porta nascosta. Ancora una volta, provai la chiave, ma quella non funzionò. Ancora una volta si stava complicando tutto, ma rimanendo fermo a respirare profondamente davanti alla porta, mantenni la mia solita calma senza dare segni di cedimento. Potevo farcela. Tutto stava nel trovare la serratura che quella chiave apriva, e si sarebbe sbloccato tutto.
Mi ricordai della stanza in cui stavo per entrare prima di essere interrotto dal mostro. Prima o dopo, di sicuro mi avrebbe fermato prima che avessi esplorato per bene quella stanza; perfetto, la chiave di tutto era lì.
Tornai indietro camminando rasente al muro, andando con cautela stavolta. Mi ero tranquillizzato abbastanza, certo, ma un po’ di prudenza in più non avrebbe di certo guastato. Andai di nuovo verso il corridoio interrotto, entrai nella stanza vuota con le scale e scesi tenendo il palmo sul passamano, avanzando a passo svelto ma silenzioso; diedi di nuovo un’occhiata intorno a me prima di entrare in quella camera, e vedendo che tutto era tranquillo, aprii la porta per poi richiuderla subito dietro di me.
La scrivania e la mobilia che ornavano la zona davanti e destra erano in un contrasto tanto strano quanto disarmonico con la vasca sulla sinistra. In quella vasca avevo già trovato la chiave che poi avevo lavato dalla ruggine, e non avevo pensato che ci potesse essere dell’altro; ma quando andai a controllare, effettivamente era così. La spinsi verso il muro, e s’intravidero delle scale, ma in quel modo non sarei mai potuto scendervi; quindi mi sforzai di tirarla ancora verso di me, quindi andai dall’altro lato e spinsi ancora.
Una rampa di marmo bianco, altrettanto triste e inquinata quanto il grigiore di tutta la cantina, conduceva ad una stanza sotterranea. La seguii senza preoccuparmi di guardarmi le spalle, e raggiunsi proprio ciò che avevo immaginato all’inizio: un cancello.
Tirai per la terza volta fuori dalla borsa la chiave, la inserii nella serratura e la girai. E finalmente quella scattò.
Per esperienza, appena entrai in quell’area richiusi subito anche la porta della cella dietro di me; non mi fidavo di quella casa, per niente. Già una volta avevo rischiato di essere preso, e il mostro andò su tutte le furie quando si rese conto di non poter aprire, scuotendo le sbarre; non avrei certo voluto che in quel momento quella furia potesse riversarsi su di me come una vendetta.
Diedi le spalle alle sbarre che separavano le scale dal resto della stanza per osservare ciò che avevo intorno.
Notai verso la mia sinistra una specie di televisione, spenta e nera, cubica. Mi avvicinai per guardarla meglio: sembrava non essere funzionante, e per quanto la studiassi e cercassi di trovare qualcosa non successe niente.
La lasciai perdere dopo non molto per continuare la mia indagine e spostai l’attenzione sulla parete grigia, stranamente decorata rispetto alle altre stanze, completamente monocromatiche.
C’erano dei quadri davanti a me, tre per la precisione, da sinistra a destra colorati prevalentemente di blu, di rosso e di giallo. Mi avvicinai per guardarli: erano tutti molto leggeri… E sotto le loro cornici c’erano dei bottoni. Provai a spostare i quadri dalla parete per premerli, ma non riuscii a smuoverli in nessun modo. Quando premetti i bottoni non successe niente, quindi lasciai la faccenda in sospeso per fermarmi a riflettere.
Ricordai quei segni sul dorso del disco che avevo trovato non molto prima. Lo tirai fuori e lo guardai di nuovo: come ricordavo, c’era una freccia che indicava il senso orario, poi una sequenza di colori come quella dei quadri. Seguendo le indicazioni dal codice, premetti in ordine i bottoni, quindi il quadro rosso cadde. Mostrò una rientranza nel muro con una stecca di metallo al suo interno. La presi e la studiai, alzandomi gli occhiali dal naso per vederci meglio. Da un lato c’era una parte più sottile e che procedeva a spirale, come se dovesse essere avvitata, mentre dall’altra c’era una protuberanza frastagliata. Alzai nella mano libera anche il disco e avvicinai i due oggetti. A quanto pareva, la parte sottile della stecca di metallo e il buco nel disco sembravano avere la stessa dimensione. Li incastrai, e come pensavo, ottenni una chiave.
Per una chiave del genere non ci si poteva aspettare che una porta altrettanto difficile da scoprire; per quello, il mio pensiero corse subito alla porta nascosta dietro quelle due librerie, vicino a quella col codice dei colori. Mi ci fiondai letteralmente, pervaso da una certa foga. Speravo tanto che quella potesse essere una scoperta decisiva per evadere da quell’incubo. Inserii la chiave nella serratura con la mano leggermente tremante sia per l’eccitazione sia per la fretta, che mi stava mettendo ansia. Avanzai all’interno dello strano cunicolo in cui mi ritrovai stando vicino al muro per sentire dove stavo andando – non potevo vederlo a causa del buio: ma il rumore più vicino della pioggia di fuori mi costrinse ad accelerare fino a correre nuovamente.
Arrivai ad una scala bagnata. Stetti sotto la buca cui conduceva per qualche secondo, sorridendo rianimato, e sospirando sonoramente come se mi fossi tolto dalla schiena il peso di mattoni di piombo. Le gocce d’acqua mi bagnarono leggere il viso, urtando anche il vetro degli occhiali e scivolando lungo questo, rinfrescandomi i capelli, e l’odore di erba bagnata mi riempì i polmoni. Inspirai a fondo. Niente più aria viziata e di luogo chiuso. Non vedevo l’ora di uscire.
Ma qualcosa mi trattenne ancora dal salire: Takuro mi stava aspettando. Mi pulii con la parte asciutta della sciarpa le lenti per poi riprendere a correre, non curandomi di fare rumore: oramai eravamo ad un passo dall’uscire, non c’era più bisogno di stare attenti; bisognava solo essere veloci e reattivi.
Veloci e reattivi, come Takuro non poteva essere a causa della sua caviglia.
Quando lo avvisai, anche lui fu invaso dalla stessa eccitazione e felicità nervosa che assillava me, che mi ripeteva di sbrigarmi e di lasciare lì tutto al più presto, ma il suo non poter correre inquietò entrambi. Anche Takuro mi aveva sentito correre lungo il corridoio, ed entrambi avemmo lo stesso presentimento: non era stato l’unico.
Facemmo più in fretta possibile. Per aiutarlo, gli feci mettere un braccio intorno alle mie spalle e lo sostenni, andando più veloce che potevo per non farlo sforzare, e lui faceva di tutto per rimanere al passo. Spalancai la porta lasciandola per la prima volta aperta; non m’importava, non c’era motivo, l’unica cosa che importava al momento era di scappare.
Purtroppo per noi, però, avevamo immaginato bene. Come il mio compagno, anche il mostro aveva avvertito i miei passi, la mia posizione, e la mia eccitazione. Si doveva essere diretto mentre ero andato a prendere Takuro alla porta segreta, e magari trovandola scoperta si era affrettato a distruggere la nostra via di fuga.
Ed ora eccolo lì, le zanne di fuori che stringevano uno dei tanti pezzi di corda che erano sparsi per il tunnel, che agitava ferocemente il capo per continuare ad annientare quella che fino a non molto prima era una splendida scala verso la libertà.
Quando arrivammo al luogo dov’era la buca verso l’esterno, un tuono ci fece sobbalzare, facendoci vedere la sua figura prima in controluce, poi per quello che era: un’iratissima bestia. Riuscii a scorgere quasi delle fiamme nei suoi occhi, ora piccolissimi. Era spaventoso, e come se non bastasse, il fulmine aveva illuminato anche le nostre figure rendendole meglio visibili, e gli aveva permesso di accorgersi più in fretta di noi.
Rimanemmo pietrificati per qualche secondo prima che io fossi preso dal panico. Urlai di scappare anche a Takuro, ma nella foga del momento lo lasciai indietro. Grosso errore.
Lo sentii urlare all’improvviso dietro di me. Il demone gli si stava già avvicinando a passo lento, e lui, cercando di rialzarsi, lottava contro la sua caviglia che non voleva saperne di sostenerlo cercando di raggiungermi.
Ero sconvolto. L’ultimo sguardo che mi rivolse mi diceva chiaramente di mettermi in salvo anche senza di lui. Ormai non potevo fare altro, non avrei mai fatto in tempo a tirarlo via o a distrarre il mostro prima che potesse prenderlo, quindi rispettai il suo volere correndo a perdifiato. Più delle altre volte.
Tornai a rinchiudermi in un armadio, quello dove prima era nascosto Takuro. Tremavo, e mi tenevo la testa tra le mani. Non ero riuscito a salvare nemmeno lui. Quella specie di condanna non voleva saperne di terminare, ed il tempo che scorreva non faceva che reclutarci ad uno ad uno tra le fila del mostro.
Ma a differenza di come era capitato a Takeshi, no, io non mi sarei mai lasciato sopraffare da tutto quello che stava succedendo. Dovevo andare avanti! Dovevo uscire! Fuggire! Era un tormento, un terribile supplizio che doveva assolutamente finire!
Presi a trattenere il fiato quando sentii la porta sbattere ancora una volta e il respiro affannato del mostro che mi cercava. Ci aveva messo del tempo, ma avevo sentito distrattamente i suoi passi concitati per il corridoio; non era stato da Takuro. Forse c’era ancora una possibilità. Mi aggrappai con tutte le mie forze a quella speranza mentre chiesi mentalmente al mostro di non trovarmi, e mi strinsi ancora di più le gambe al petto.
Sobbalzai silenziosamente quando il mostro aprì un’anta dell’armadio per vedervi nervosamente all’interno. Sbiancai. Tuttora non ho idea di quanto tempo passò a guardare l’armadio in quel modo, ma posso immaginare che fu molto meno dell’infinità che mi sembrò, perché sbatté altrettanto furioso la porta e se ne andò.
Capii dopo qualche secondo quello che era successo. Stringendomi ancora di più, avevo fatto appena in tempo a farmi abbastanza da parte da non risultare visibile da un lato dell’armadio; e a quanto sembrava ero stato abbastanza fortunato da stare dal lato giusto per scampare la mia cattura. Già, la fortuna era davvero dalla mia parte. Quando non sentii più niente, un po’ rassicurato da ciò che era appena successo, uscii ed andai a esaminare ancora il tunnel della porta nascosta.
Ma già appena entrai capii che Takuro non era più lì, e quella sottospecie di entusiasmo che avevo si spense come una candela intrappolata sotto un bicchiere di vetro. Non si sentivano altri rumori eccetto quello insistente della pioggia, che era diventata più violenta; andai fino in fondo a dov’era la scala, ma non trovai nulla. O meglio, quasi nulla.
Un nuovo lampo fece luccicare qualcosa vicino a dei pezzi di corda. Mi abbassai a vedere: era ancora un’altra chiave. Rispetto all’ultima che avevo trovato, quella della cella, questa era più sottile e chiara, anche meglio messa. La sua parte terminale era caratterizzata da un codice di serratura davvero complesso. Non poteva che essere il pass d’accesso all’ultima bloccata dell’edificio annesso.
L’uscio sul retro, nella stanza delle bambole.
Ancora un po’ disorientato dallo scoraggiamento di non aver trovato ancora il mio amico – la qual cosa mi spaventava e tranquillizzava allo stesso tempo, perché poteva significare sia che era riuscito miracolosamente a nascondersi di nuovo sia che era stato catturato e portato chissà dove – varcai nuovamente la soglia passata poco prima nella direzione opposta, e camminai a passo lento verso l’uscita della cantina, continuando a rigirarmi la chiave tra le mani, sovrappensiero.
Stavo ricordando lo sguardo di Takuro prima di scappare. Era uno sguardo così preso dal terrore e supplichevole che mi aveva fatto rabbrividire. E a fianco al suo volto, ricordai gli occhi fissi nel vuoto di Takeshi che penzolava dalla corda, l’espressione di Mika mentre cercavo di svegliarla nella stanza da letto e quella poco prima di trasformarsi in un mostro. Tuttavia, per quanto mi inquietassero e mi innervosissero, tanto quanto i pozzi neri che erano gli occhi del demone, questa volta non c’erano altri pensieri ad affollarmi la testa.
Niente.
Un silenzio assordante regnava nella mia mente, e contagiava anche l’esterno, che si fondeva con esso e diveniva quasi impossibile da distinguere. Non ero preso dai sensi di colpa, e non sentivo la mia coscienza rimproverarmi di non aver fatto abbastanza come prima. Non ero preso dallo spavento, e non udivo nessuna incitazione a sbrigare la mia fuga. Non ero preso dalla disperazione, e niente mi incitava ripetendomi che forse c’era ancora qualcosa da fare.
Assolutamente niente… finché qualcosa non ruggì alle mie spalle.
Il mostro, dopo aver lasciato la stanza in cui ero nascosto chiuso nell’armadio, non si era rassegnato ancora dal cercarmi come le altre volte. Aveva ancora i denti aguzzi digrignati, e la sua espressione mi parve ancora più alterata di prima. Inorridii e ricominciai a correre, col fiato smorzato dallo sgomento.
Arrivai ancora per primo alla stanza delle bambole. Spensi di nuovo la luce, ma lo stesso trucco non poteva funzionare due volte; non solo l’avevo già ingannato in precedenza in quella maniera, ma ora anche la lampadina avvitata sul corpo della bambola di legno continuava a segnalare la mia presenza lì.
Stavolta arrivai subito alla porta e feci scattare in fretta la serratura.
Fui sorpreso dalla pioggia non appena superai l’uscita dalla stanza: era un passaggio esterno.
Per prendere tempo, decisi di chiudere di nuovo a chiave la porta, e feci appena in tempo per sentire il tonfo del mostro che ci sbatteva contro per aprirla. Persi l’equilibrio cadendo all’indietro, ma subito mi rialzai nonostante il fango che mi faceva scivolare, lasciai la chiave e ripresi a correre. Ma poi rallentai il passo, fermandomi in mezzo all’erba della stradina segnata da quella specie di recinto di colonne che impediva la fuga, e guardai in alto.
A differenza di quando avevo guardato il cielo dal basso del tunnel celato, ora tutte quelle nuvole mi sembravano davvero pesanti. La pioggia batteva sulle mie spalle e sul mio corpo come se volesse spingermi di nuovo sottoterra. Il grigio imperava severo sopra di me, e mi condannava ad una nuova serie di enigmi che sapevo attendermi al terminare del passaggio esterno. Mi sentii come una marionetta in mano a qualcosa più grande e incomprensibile per una semplice mente umana, qualcosa che stava semplicemente giocando con una delle sue impotenti creature, le quali non potevano fare altro che abbassare la testa e accondiscendere a tutto ciò che veniva loro imposto.
Gridai preso dal furore contemporaneamente ad un nuovo tonfo proveniente dalla porta chiusa alle mie spalle.
Non l’avrei data vinta a quel cinico pianificatore che stava sogghignando da lassù, nascondendosi dietro le nubi sue serve che mi riferivano il suo messaggio: “Sei impotente, non puoi che continuare”, da perfetto codardo. E non l’avrei data vinta nemmeno a quell’obbrobrio che mi stava dando la caccia da ore.
Mi ripromisi che, una volta fuori di lì, avrei fatto di tutto per salvare i miei amici, o quantomeno vendicarli. Ormai parlare di assurdità in quella situazione era un vero e proprio paradosso; chi poteva confermare con sicurezza che non c’era rimedio a tutto quello che stava succedendo dopo essere stato perseguitato per un pomeriggio intero da un essere la cui esistenza andava contro ogni logica? Nessuno. E per quello sarei andato avanti.
Ripresi a camminare a passo deciso, ignorando gli ultimi colpi che il mostro diede alla porta prima che quella cedesse, ed ebbi accesso alla struttura successiva. Mentre iniziai a perlustrare le stanze che mi erano proposte dalla costruzione ripartendo per la terza volta da zero, sentii i mostri che si fermarono nel passaggio esterno. La mia direzione era ovvia, ma per qualche motivo che non compresi, smisero di seguirmi e non sentii più passi alle mie spalle. Ero di nuovo solo, e la solitudine rafforzò ancora di più il mio desiderio di uscire. Ma non era più un desiderio disperato. Era un desiderio ardente e irremovibile, carico di volontà, ma anche di fermezza e di sangue freddo. Ero determinato a porre fine a quell’incubo, e niente mi avrebbe smosso più.
Lo giurai di fronte alla madonna di una piccola cappella che scoprii al piano terra.
E tutt’oggi lo ricordo come se l’avessi fatto ieri, e vi manterrò fede fino alla morte.

  
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