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Autore: Moonage Daydreamer    11/07/2012    4 recensioni
Ero l'emarginata più emarginata dell'intera Liverpool: fin da quando era bambina, infatti, le altre persone mi tenevano alla larga, i miei coetanei mi escludevano dai loro giochi e persino i professori sembravano preferire avere a che fare con me il meno possibile, come se potessi, in uno scatto di follia, replicare ciò che aveva fatto mia madre.
(PRECEDENTE VERSIONE DELLA STORIA ERA Lucy in the Sky with Diamonds, ALLA QUALE SONO STATE APPORTATE ALCUNE MODIFICHE.)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Lennon , Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Strawberry Fields Forever.


Indugiai davanti alla porta dello Ye Cracke.                                                                                                     
Era passata più di una settimana dal giorno della mostra a Londra ed era da allora che continuavo a ripetermi che dovevo andare in quel locale almeno una volta: avevo fatto una promessa e la mia coscienza insisteva affinché la rispettassi.                                                                                                      

Dopo che Lennon e Cynthia erano rientrati nel nostro scompartimento, sul treno per Liverpool,  avevo cominciato a scrivere e non avevo più smesso fino al capolinea.
Ero stata completamente rapita dai miei pensieri, tanto che non mi ero nemmeno accorta che il treno si stava fermando.                                                                                                                                    
- Hai intenzione di alzarti, Mitchell, o preferisci rimanere qui?- mi aveva detto Lennon, irritato.               
Mi ero riscossa all'improvviso, e mi ero accorta che tutti e tre i miei compagni di viaggio erano già in piedi e stavano aspettando me.  Mi ci era voluto qualche secondo per riprendermi dalla confusione. Avevo guardato  verso lo stretto corridoio che divideva gli scompartimenti. Una colonna di persone era schiacciata lì dentro e ciascuno stava cercando di aprirsi la strada verso l'uscita.
Un gemito mi era sfuggito  dalle labbra.                                                                                                                                    
- Anna, va tutto bene.- aveva mormorato Cyn sedendosi al mio fianco e prendendomi la mano. Avevo cercato  di respirare, ma non ero riuscita, sebbene mi sforzassi,  ad avere abbastanza ossigeno. La testa aveva cominciato a girarmi.                                                                                              
- Cyn, dobbiamo andare. - aveva affermato Lennon, che stava visibilmente perdendo la pazienza . La mia amica lo aveva guardato come se avesse detto un assurdità, poi aveva fatto un cenno verso di me.  
- Cyn, vai. Sto bene.- avevo detto, ma la mia voce stava tremando.                                                                                         
- Non sparare cavolate, Anna. Io non ti lascio sola in questo stato!- aveva ribattuto Cynthia.                                            
- Rimango io. - si era a quel punto offerto Stu - Non è un problema per me. -                                                                     
- Se vuoi resto. - mi aveva sussurrato Cyn. Io avevo chiuso gli occhi, ma ero riuscita comunque a scuotere la testa.                                                                                                                                               
- Sta' tranquilla. Non fare aspettare troppo il tuo ragazzo, perché se arriva in ritardo sua zia gli fa il culo e noi non vogliamo che al povero Lennon sia fatto del male, giusto? -                                          
- Okay, questa è la prova definitiva che stai meglio!- aveva esclamato lei ridendo. - Ci sentiamo, va bene?-                                                                                                                                                    
i era alzata , aveva preso  per mano Lennon e lo aveva trascinato fuori dallo scompartimento prima che potesse rispondere alla mia provocazione.
La folla stava cominciando a diminuire e io piano piano ero riuscita a respirare meglio.                                                                                                                                                   
Ci erano voluti un paio di minuti perché mi riprendessi del tutto.                                                                     
- Stai meglio?- aveva chiesto gentilmente Stu, una volta accortosi che ero riuscita a calmarmi. Io avevo annuito e gli avevo sorriso, poi lo avevo ringraziato sottovoce.                                                                 
- Figurati! Quando una donzella ha bisogno di aiuto, è mio dovere correre in suo soccorso. - aveva replicato il ragazzo e alle sue parole ero scoppiata a ridere.                                                                    
- Bene, ser Stuart, forse è meglio che scendiamo dal treno, prima di trovarci chiusi dentro! -                                                          
Stu mi aveva offerto il braccio, ostentando una galanteria che aveva finto fino a quando fummo scesi dal treno.                                                                                                                                         
- Mi spiace averti trattenuto .- avevo detto allora abbassando lo sguardo.                                                                                 
 - Non ne hai alcun motivo, davvero. - aveva risposto Stuart - Senti, io, John e alcuni miei compagni della scuola d'arte ci troviamo quasi tutti i pomeriggi allo Ye Cracke. Ti va di venire un giorno? Per confrontare le idee e parlare un po'.-                                                                                                                        
Lo avevo guardato per diversi secondi. Ero rimasta davvero colpita dalla gentilezza che aveva dimostrato  nei miei confronti, anche dopo che l'avevo trattato decisamente male.                                            
Gli avevo sorriso.                                                                                                                                                
- Ma certo. Verrò volentieri.- dissi, senza pensarci troppo.                                                                                  
- Me lo prometti?-                                                                                                                                             
- Sì. -

E quindi eccomi lì ad allungare la mano verso la maniglia della porta dello Ye Cracke e a ritrarla improvvisamente. Sapevo che non c'era motivo di indugiare in quel modo. Non poteva essere peggio del Cavern, no?                                                                                                                                    
"Sei una codarda, lo sai, Mitchell?"mi dissi. Sospirai, quindi mi decisi ad entrare.                                         
L'aria era impregnata di fumo, tanto che alcuni punti della carta da parati erano macchiate di tabacco.  Lo Ye Cracke era abbastanza affollato, poiché era il punto di ritrovo degli studenti della scuola d'arte e del Liverpool Institute.   Non mi sentivo per niente a mio agio, ma sarei stata peggio se, due secondi dopo essere entrata, fossi fuggita davanti a tutta quella gente.                                                
"Codarda, codarda, codarda..." continuava a ripetermi la vocina della mia coscienza. Forse lo feci per dimostrarle che si sbagliava, sta di fatto che cominciai a guardare in giro per il locale, alla ricerca di Stu e di Cyn, dei quali non riuscivo a trovare traccia. Quando giunsi nel War Office, la mia attenzione fu richiamata da un gruppo di meno di una decina di persone, che facevano più rumore di tutti gli altri clienti dello Ye Cracke messi insieme. Distinsi una chioma cotonata biondo platino.                                                                                                                                                                    
"Ti prego, dimmi che quello non è il gruppo di Cynthia." pensai, dando alla mia coscienza il pretesto per riattaccare con i complimenti. "Codarda, codarda, codarda, codarda."                                         
- Ehi, Anna, ce l'hai fatta ad arrivare!- mi salutò Cyn, seduta sulle ginocchia di Lennon. Sospirai.                   
Se c'era una probabilità su un milione di scoprire che le cose erano anche peggio di quanto sembrassero, nell'ultimo periodo riuscivo magicamente a beccarla.                                                                              "Dovrei provare a giocare alla lotteria."                                                                                                          
Mi avvicinai al gruppo, ma rimasi comunque in disparte, messa a disagio da tutte quelle persone che non conoscevo. Cyn e Stu si alzarono e mi vennero in contro, il secondo con un boccale di birra in mano.                                                                                                                                                                        
- Pensavo non saresti più venuta. - disse il ragazzo.                                                                                                            
- Anche io, in realtà.- risposi. Spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio.                                                  
Stuart sorrise:- Sono contento che tu sia qui. Vieni, ti presento gli altri.-                                                                     
Gli "altri", in realtà, non erano studenti d'arte, ma facevano parte della compagnia di Lennon: Eric Griffiths, Colin Hanton, Rod Davis, Len Garry. Nessuno di loro si disturbò più di tanto per salutarmi e dopo qualche ciao o un ehi! tornarono alle loro conversazioni. L'unico che sembrava realmente interessato a conoscermi era il ragazzo con cui Lennon stava parlando, un certo Pete Shotton.                          
- Ehi, ciao. Io sono Pete. - si presentò, lasciando a metà il discorso con Lennon.
Mi presentai a mia volta e mi morsi un labbro quando il ragazzo mi disse che "John aveva parlato molto di me". Sapevo che mi conosceva già almeno di vista, perché tutti i ragazzi che Stuart mi aveva presentato facevano parte del gruppetto che insieme a Lennon veniva quasi tutte le mattine davanti al mio liceo.                                                                                                                                          
 - ... ma John spara tante di quelle stronzate, che ormai non stiamo neanche più ad ascoltarlo. - continuò Pete.                                                                                                                                          
Ridacchiai, guardando Lennon di sfuggita: la conversazione sembrava stare prendere una piega del tutto inaspettata, ma subito dopo mi accorsi che cominciava girarmi la testa.                                      
- Frequenti la scuola d'arte?- chiesi, anche se mi aspettavo già la risposta, cercando di ignorare quelle sensazioni.                                                                                                                                                   - No, vado alla Quarry Bank. Anche John la frequenta, nonostante voglia far credere a tutti di essere dell'Istituto d'Arte.  E' per questo che ci chiamiamo Quarrymen. -                                                       
- Come, scusa?- Non riuscivo a seguire quella conversazione: non avevo idea di cosa Pete stesse parlando e non riuscivo a concentrarmi sulle sue parole. Sentivo le gambe cedere appena, ma riuscii a rimanere in piedi senza darlo a vedere.                                                                                                                                                
"Così sta diventando una cosa ingestibile!" pensai.                                                                                                                                                             
- I Quarrymen. E' il nome del gruppo in cui suoniamo. - rispose Shotton.                                                                                         
-Il  mio gruppo. - si intromise Lennon. Era infastidito dal fatto che avessi interrotto bruscamente la sua conversazione con l'amico.                                                                                            
- Il tuo gruppo ?- ripetei inarcando un sopracciglio. La mia attenzione si spostò tutta sul ragazzo, a scapito di Pete, che dopo poco cominciò a parlare insieme ad Hanton. Con la scusa di stare a sentire Lennon misi in secondo piano la claustrofobia.                                                                                                        
- E che musica suonereste?- chiesi.                                                                                                                  
- Skiffle.- rispose Lennon.                                                                                                                                    
Risi:- Sul serio? Skiffle?!-                                                                                                                                    
Il ragazzo scrollò le spalle.                                                                                                                                  
- E allora?-                                                                                                                                                            
- Avanti! Lo skiffle è la brutta imitazione che fanno quei gruppi che non hanno il talento o le palle per suonare il rock and roll! - esclamai.                                                                                       
Lennon mi guardò di sbieco e percepii le occhiatacce degli altri componenti del gruppo, ma alla fine anche loro sapevano che avevo ragione. Stu si intromise prima che la conversazione degenerasse.                         
- Speravo mi avresti portato qualche tuo schizzo.- mi disse, mentre Cynthia tornava sulle ginocchia di Lennon.                                                                                                                                              
- Mi dispiace, Stu, ma nessuno, tranne Cyn, ha mai visto i miei lavori. Credo di non essere ancora pronta.- gli risposi.                                                                                                                                              
 - Mi hai chiamato Stu. - osservò il ragazzo sorridendo.                                                                                         
- Be', io credo che... insomma, abbiamo fatto pace, no? Quindi... - mi interruppi bruscamente per respirare a fondo. Poi cercai di aggiungere qualcosa, ma aprii le labbra e le richiusi subito dopo.                
- Siamo amici.- disse Stu con una naturalezza che non fece altro che confondermi.                             
- Vuoi andare fuori a prendere una boccata d'aria?- chiese poi il ragazzo, intuendo il mio disagio.                                                     
- Sì!- risposi, con una veemenza che fece sembrare quella risposta una supplica.                                          
Quando fummo fuori tirai un lungo respiro e mi calmai in poco tempo, anche perché si era alzato il vento. Annusai l'odore dell'aria socchiudendo le palpebre.                                                                  
- Non ti piacciono gli spazi chiusi, a quanto pare. - disse Stu sorridendo.                                                          
- Ma che cosa dici? Li amo alla follia! - risposi con sarcasmo.                                                                         
- Come mai?-                                                                                                                                                          
- Non lo so. E' sempre stato così da che mi ricordo.- dissi a bassa voce.                                                
"Bugiarda, bugiarda, bugiarda..." riattaccò la vocina.                                                                                            
"Ma la vuoi piantare?!" pensai. Sapevo che la mia coscienza aveva ragione, ma non potevo certo dire la verità.                                                                                                                                                     
- Quindi niente Cavern. - continuò Stuart.                                                                                                      
Scossi la testa:- L'unica volta che ci sono entrata ho rischiato un collasso. Ma non mi pesa: sono un'associale, in fondo. Alla compagnia delle persone preferisco di gran lunga quella di una pagina bianca e di una penna, o di una tela ancora da dipingere.-                                                                                 
- Ma non sei così sprovvista di amici. -                                                                                                               
- A parte Cyn e te, e i miei genitori adottivi, gli umani con cui sono venuta a contatto in modo approfondito sono i miei professori, metà dei quali non mi sopportano, mentre l'altra metà mi odia.-     
Stu mi guardò sorpreso.                                                                                                                                              
- Ti spiace se fumo?- chiese poi.                                                                                                                            
- No, certo che no. - risposi sorridendogli. Era facile parlare con quel ragazzo.                                                     
- Vuoi?-                                                                                                                                                                  
Mi porse una sigaretta, ma io declinai l'offerta.                                                                                                         
- Non fumo. - dissi - E' meglio che mi incammini verso casa ora. Ho detto ai miei che non avrei tardato.  - dissi.                                                                                                   
- Se vuoi ti accompagno.- si offrì il ragazzo.                                                                                                          
- Non hai idea di cosa ti aspetterebbe! Sarebbe farsela a piedi da qui a Forthlin Road, e fidati, è bella lunga.-                                                                                                                                       
- Metti in dubbio la mia resistenza?-                                                                                                                            
- Certo che no!- risposi ridendo. - Tuttavia non ti chiedo di sacrificarti in questo modo per me, anche perché poi mi sentirei tremendamente in colpa.-                                                                                      
 Lo salutai con un bacio sulla guancia, ma prima che me ne andassi, Stu mi fermò.                                                                                                                     
- C'è la possibilità che io ti riveda nei prossimi giorni o mi farai aspettare un'altra settimana e mezza?- chiese sorridendo.                                                                                                                                        
- Chi lo sa? Ma dal momento che i compiti sono facoltativi per me, ci sono buone probabilità che ciò accada.- replicai allontanandomi.
Lo salutai un'ultima volta con la mano, quindi mi allontanai velocemente da Rice Street.                                                                                                                                        
In relatà non dovevo affatto tornare a casa. Era ancora abbastanza presto, così decisi di percorrere Smithdown Road.                                                           
Mi sentivo davvero a disagio quando ero costretta a mentire, ma del resto nessuno sapeva la verità. Non l'avevo mai detto a nessuno e quella cosa cominciava a pesarmi.
In realtà erano davvero poche le volte in cui mi ero trovata con la necessità di dire una menzogna, perché in genere la gente non faceva domande.                                                                           
Tuttavia ero stufa di quella situazione, ma non sapevo cosa fare. Certe cose erano troppo radicate dentro di me perché potessi cambiarle da sola.                                                                                  
 Persa nelle mie riflessioni non badai alla strada e imboccai la svolta sbagliata. Non me ne accorsi finché non mi ritrovai davanti a un cancello rosso che conoscevo fin troppo bene.                                                  
Lo Strawberry Field.                                                                                                                                           
Era parecchio tempo che non ci passavo vicino. Mi guardai intorno, spaesata. Era strano che i miei pensieri mi avessero condotta proprio lì.                                                                                                           Mi avvicinai al cancello e appoggiai la schiena contro di esso.                                                                
Guardai il cielo che cominciava a scurirsi con l'approssimarsi della sera, poi rivolsi di nuovo gli occhi al grande parco che circondava l'orfanatrofio.                                                                                         

Avevo pochi ricordi del periodo che avevo passato allo Strawberry Field, e la maggior parte di essi era confusa e sbiadita. Più che fatti, ricordavo suoni, odori, sensazioni. Quei nove mesi rappresentavano il periodo più duro di tutta la mia vita.
Trascorrevo le mie giornate da sola, in un angolo, a pensare. Non facevo altro, in quella grigia bruma che mi aveva inghiottita.                                                
Anche se non ne ero certa, credevo che all'interno dell'orfanatrofio fossi sempre esclusa da tutto, i bambini mi prendevano in giro,gli adulti mi trattavano con freddezza, ma all'epoca, come adesso, non mi importava affatto.                                                                                                                                     
Tutto il mio mondo era crollato e io stavo cercando di rimuovere le macerie e di ricostruire, ma avevo a disposizione soltanto una carriola giocattolo grande come un tappo di bottiglia.                      
Non piansi mai.                                                                                                                                                      
Quello era uno dei pochi ricordi che non mi avrebbero mai abbandonata. Non versai nemmeno una lacrima quando mi dissero che mio padre era morto e che mia madre era stata condannata all'ergastolo. Semplicemente, mi lasciai scivolare in un piatto susseguirsi di operazioni fondamentali a mantenere il mio corpo in vita: respiravo, mi nutrivo, dormivo. Il mio cuore continuava a battere, il mio sistema nervoso a funzionare, ma la mia anima era come morta. Poi, un giorno, presi in mano una penna e la appoggiai su un foglio bianco. Fu allora che cominciai a scrivere, a scrivere per davvero: se io non potevo vivere una vita felice, allora avrei lasciato che altri la vivessero al posto mio.                                                                                                                               
In seguito cominciai a disegnare, dando un volto ai personaggi che creavo e mentre tracciavo con la matita segni leggeri cantavo; fu una cosa graduale : prima sussurravo filastrocche, poi le canticchiai a bassa voce, fino a cantare a squarciagola canzoni inventate o quelle che sentivo ogni tanto.                                               
Era quello che rappresentava per me lo Strawberry Field: la creazione del mio mondo, dentro cui io potevo decidere di essere chiunque volessi, dove decidevo io quello che succedeva. In quel periodo cominciai a smettere di tentare di rimuovere le macerie che il terremoto che aveva sconvolto la mia vita si era lasciato alle spalle, e cominciai a costruirci sopra con dei mattoni immaginari che avevano la consistenza di una nuvola ed erano dei colori dell'arcobaleno.                     
Smisi per qualche mese di vivere sulla Terra. Quando potevo ero sempre sul mio pianeta, lontano da tutto e da tutti, dove c'era sempre il sole e la notte era sempre chiara. Tuttavia, spesso e volentieri, mi costringevano con la forza a tornare con i piedi per terra, ed io vivevo nell'angoscia: ero terrorizzata dall'idea che forse non sarei più riuscita a trovare la strada per tornare nella mia fantasia, per tornare a casa.                                                                                                                        
Cominciarono a temere che io perdessi i contatti con la realtà, ma non si rendevano conto che quello era l'unico modo che mi permetteva di sopportare quello che mi era successo. Avevo sei anni, e scrivere era per me quello che era giocare con le bambole per le altre bambine. Naturale e necessario. Ma era strano, e per questo non andava bene.                                                                                 
Mi proibirono di scrivere ancora.                                                                                                                         
Piansi per la prima volta dopo mesi e cominciai a manifestare apertamente i miei stati d'animo.                    
Mi dissero che non dovevo piangere, che ero una bambina viziata e capricciosa, così mi chiusi di nuovo a riccio in me stessa. Ricominciai a trascinarmi tutti i giorni da una parte all'altra, dove loro mi dicevano di andare.                                                                                                                                           
Mi dissero che avrei dovuto smettere di comportarmi in quel modo, poiché non ero l'unica ad aver perso i genitori, ma non ci riuscii. Mi avevano tolto tutto quello che mi avrebbe dato la forza per ritrovare un po' di pace.   

Tirai un pugno contro il cancello rosso, per sfogare l'ondata di sentimenti che mi aveva invasa. "Avevo sei anni, cazzo! Che cosa pretendevano da me? Che mi comportassi come un'adulta?!" pensai con rabbia. Chiusi gli occhi. Faceva male ricordare quegli anni, ma i miei pensieri vagavano senza che io riuscissi a trattenerli.

Con l'arrivo dell'autunno, ero di nuovo precipitata nell'apatia. Mi stavo spegnendo lentamente, ancora prima che avessi cominciato a brillare veramente.                                                                               
Poi un giorno tutto cambiò.                                                                                                                                      
Un raggio di sole, anzi, due raggi di sole squarciarono la nebbia scura che mi avvolgeva.                         
Due raggi di nome Elisabeth e James.                                                                                                                  
Non mi ricordavo esattamente il giorno in cui giunsero, ma doveva essere dicembre o gennaio.  Faceva davvero un freddo cane e io giravo perennemente con una coperta sulle spalle.                                      
Il freddo mi faceva paura, insieme ad un sacco di altre cose.                                                                                                                                                   
Quel giorno ero stata punita perché mi avevano scoperta a scrivere di nascosto. Ecco, di loro non avevo paura. Già allora ero troppo orgogliosa. Li avevo fissati mentre mi bacchettavano le dita e non avevo emesso un lamento. Mi piaceva sfidarli, e loro lo sapevano fin troppo bene; quel giorno mi impedirono di tenere la coperta. Non facevo altro che perdere, ma continuavo imperterrita a fare il contrario di quello che mi dicevano.
Stavo tornando nella stanza in cui dormivo quando in corridoio mi ero andata a scontrare contro qualcuno. Era una giovane donna, che mi sorrise, rassicurandomi del fatto che non era successo niente di grave,  quando si accorse delle mani arrossate.
Mi chiese come mi chiamavo, ma io non le  risposi perché avevo imparato a diffidare degli adulti. Qualcuno mi disse che dovevo risponderle, ma mi rifiutai. Anche se quella donna sembrava buona, sapevo che avrebbe potuto riprendersi tutto ciò che mi avrebbe dato in qualsiasi momento, come avevano fatto tutti quelli dello Strawberry Field.                                                  
Sia la donna che suo marito si inginocchiarono, in modo da potermi guardare negli occhi. Si presentarono, dicendo che si chiamavano Elisabeth e James, che l'uomo era un ufficiale dell'esercito congedato a causa di una ferita di guerra e che non potevano avere dei bambini. Mi raccontarono molte cose di loro e io rimasi ad ascoltare in silenzio, tremando per il freddo. James si tolse la giacca e me la fece infilare. Mi strinsi nella stoffa calda.                                                                                                                                                        
Alla fine mi chiesero se me la sentivo di dire loro il mio nome, ma che se non volevo loro non avrebbero insistito. Dissero che non volevano obbligarmi a fare cose che non volevo fare.                        
Non ero mai stata trattata con così tanta gentilezza da nessuno all'infuori di mia madre.                            
Esitai e li guardai a lungo, poi dissi il mio nome. Fu un sussurro talmente lieve che poteva a stento essere sentito, ma comunque aprii la bocca ed emisi un suono.                                                     
Non seppi mai ciò che Elisabeth e James videro quel giorno in quella bambina pelle e ossa, tremante e piena di paure, ma troppo orgogliosa per ammetterlo, testarda come un mulo, che non si fidava di nessuno, nemmeno di sé stessa.

-Tesoro. - mi chiamò la voce di Elisabeth, scuotendomi dalle miei pensieri. Mi voltai immediatamente verso di lei.                                                                                                                              
- Come mai qui?- chiesi. La mia madre adottiva sorrise dolcemente.                                                               
- Lo sai che ore sono?-                                                                                                                                               
Scossi la testa e mi accorsi solo in quel momento che il sole era già tramontato. Quanto tempo ero rimasta a pensare appoggiata alla cancellata dello Strawberry Field?                                                        
- Cominciavamo a essere un po' in ansia. - spiegò Elisabeth.                                                                                
- Come mai eri sicura di trovarmi qui?-                                                                                                                 
Mi fece l'occhiolino:- Chiamalo sesto senso materno, ma avevo la sensazione che tu fossi qui, anche se non ne ero sicura.-                                                                                                                    
Sorrisi:- Difficilmente le madri sbagliano, non è così?-                                                                                    
Mi faceva male anche solo pensarlo, ma era la verità. Io avevo due mamme. Una era la mia madre biologica, che mi aveva dato la vita, che mi aveva insegnato a camminare e che mi aveva sempre protetta, cui  ero legata da un affetto innato, naturale per me come il respirare, l'altra era la donna che mi aveva cresciuta, che mi aveva vista diventare una ragazza, insegnandomi tutto quello che sapeva sulla vita.
Elisabeth mi si avvicinò e mi prese per mano ed io appoggiai la testa sulla sua spalla.                                                                                               
Compresi che non c'era vergogna nell'ammetterlo: avevo due madri e volevo loro bene in egual misura, ma in due modi diversi. Le amavo entrambe; che male c'era in questo? L'amore di una figlia verso sua madre non può essere sbagliato.                                                                                                                            
Sorridemmo entrambe, poi ci avviammo verso casa, senza dire una parola.



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Here I am, con un capitolo scritto in tempo record: l'ho iniziato due giorni fa, anzi due notti, e 'sta sera me lo sono trovato magicamente pronto sul computer.                                                                               
La prima parte non è un granché, lo so, ma dovevo riempire un po' di buchi e non avevo idea di cosa scrivere. La seconda, invece, mi piace molto e ne sono abbastanza soddisfatta.
 

Ruben_J_Jagger: sono davvero felice che la storia ti piaccia e ti ringrazio per averla recensita.

Beba257: Hallelujah, ce l'hai fatta a ritrovare i dati per entrare nel tuo account! I'm very proud (da leggersi obbligatoriamente "prud"!) of you!                                        
Ti ringrazio dal più profondo del cuore per aver scritto queste sette  righe davvero commoventi!                                                                                                            
A parte gli scherzi, la tua opinione è quella che conta di più per me in questo momento.                                
(A proposito di Liverpool, lo sai che prima o poi un salto ce lo facciamo, vero?)

Cherry Blues: anche io credo che i Beatles siano fra i più grandi artisti dal secolo scorso ad oggi ed è proprio per questo motivo che ho sentito il bisogno di scrivere la mia prima fanfiction proprio su di loro. Ti ringrazio per la tua recensione, mi ha davvero fatta sentire orgogliosa della mia storia. (Spero che in futuro io non ti spinga a scappare a gambe levate!)

Un sincero grazie a tutti quelli che stanno leggendo la mia storia.


Peace n Love.


 
  
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