Mi giro, indispettita.
«E tu chi saresti, il lupo cattivo?»
«Ti prego di non
scambiarmi per quelle bestiacce così prive di raffinatezza.» C’è un grosso
gatto tigrato che mi sorride pigramente. Assomiglierebbe allo Stregatto, se non
fosse così minaccioso.
Allarme rosso, allarme rosso, impazza una sirena
nella mia testa. Questo qua mi sta guardando come io guardo un barattolo di
Nutella, e la sensazione non è affatto piacevole.
«Solo perché ti fanno
paura» ribatto, cercando di mostrarmi sprezzante. Una specie di maschio Alfa,
come dicono in quegli stupidi documentari. Non ho idea se con i gatti funzioni
o se è qualcosa di prettamente canino; inutile dire che fallisco miseramente il
tentativo.
Il gatto piega la
testa da un lato, sornione. «Alquanto improbabile, dal momento che qui non ce
ne sono» replica. «Di cosa dovrei avere paura?»
«Ehm… dei lupi
mannari?» suggerisco.
«Oh, ma a loro
interessa solo la carne umana.» Gli vibrano i baffi, come se stesse ridendo.
«Non posso dar loro torto.» Si passa la lingua sul muso.
«Pensavo che voi gatti
mangiaste i topi» dico, arretrando un po’. «Sai, un po’ più indietro ne ho
visto uno. Era grassissimo e stufo di vivere, e diceva di odiare i gatti,
specialmente quelli tigrati. Dovresti dargli una lezione.»
«Bel tentativo»
risponde. «T’informo che noi gatti in genere ci limitiamo a ucciderli. Sono
giocattolini divertenti, finché corrono.» Le sue pupille verticali sono fisse
su di me, e ora so come si sentono le eroine dei film horror quando si trovano
il maniaco con il coltello davanti.
«Sono magra e
stoppacciosa» affermo. «Non ti divertiresti con me, e non ti sazierei.»
«Un aperitivo da
sgranocchiare è quello che ci voleva. E poi, lo so anch’io che non si gioca con
il cibo. È così crudele.»
Si avvicina, finché il
suo muso è a pochi centimetri da me. Ecco, adesso morirò tra i denti di un
gatto psicopatico, e sarà tutta colpa delle fate. Non ci potrebbe essere la
roscia al posto mio? Ma certo, lei ha quelle stupide ali, le basterebbe volare
via. Io invece sono inchiodata alle mie maledette gambe, e ridotta al ruolo di
una patatina.
«Ti farò venire una
terribile indigestione» minaccio. «Vomiterai palle di pelo per una settimana.»
«Non preoccuparti. Ho
mangiato cose più indigeste di te.» Si acquatta, scoprendo i denti
scintillanti, e io, con l’istinto irrazionale della preda, mi preparo a correre
via, anche se sono perfettamente consapevole che non servirà a un bel niente.
E poi una voce ci
blocca entrambi.
«Perché non te la
prendi con qualcuno della tua taglia, Willie?»
Un animale sinuoso,
dal muso aguzzo, si frappone fra me e il gatto omicida. Si scuote come un cane,
ma con più grazia, e anche se alzo le braccia per proteggermi mi ritrovo zuppa.
Neanche il gatto sembra gradire la doccia: sibila e indietreggia.
«Hai paura di un po’
d’acqua, micetto?» lo stuzzica lei.
Willie – che nome
stupido! Adesso capisco perché è diventato un serial killer – ringhia, i canini
in vista. Per tutta risposta, anche l’altra spalanca le fauci aguzze, e si
rannicchia.
«Sei fortunata che non
abbia voglia di affondare i denti nella tua pelliccia puzzolente» dice il
gatto, sprezzante.
«Corri a leccare un
po’ di latte» ribatte lei, «finché non ti passa la paura.»
Willie soffia un’altra
volta, poi si defila.
L’animale si volta
verso di me. È una lontra, con gli occhi scuri e intelligenti, e mi fissa
curiosa.
«Si può sapere che ci
fai qua da sola, e rimpicciolita?» mi chiede.
Non sono esattamente
in grado di rispondere, quindi mi limito a guardarla come una stupida.
«Che hai?» domanda
lei. Poi sospira. «Ah, Willie ti ha spaventato. Te la sei vista brutta, eh? E
non è ancora finita.»
Sorride e lo sguardo
mi cade sulle sue zanne acuminate. Deglutisco nervosamente. «Mi vuoi mangiare
anche tu?»
«Pensi che ti abbia
salvato per tenerti per me?» Scoppia a ridere – una risata da lontra, tutta
fauci e sibili. «È un’idea. Sai che non ci avevo pensato?»
«E allora perché l’hai
fatto?»
«Tra ragazze ci si
deve aiutare.» Mi strizza l’occhio, e io finalmente respiro.
«Grazie» dico. «Non ci
tenevo a diventare l’aperitivo di quello psicopatico.»
«Figurati» risponde
lei. «È sempre un piacere dare una lezione a un gradasso. Ah, io sono Katie.»
«Alisea. Piacere.»
«Non per farmi gli
affari tuoi, ma c’è una ragione apparente per il tuo vagabondare?»
Per la centesima volta
in questa notte, ripeto le mie dis-avventure e la mia volontà di andare al
palazzo della regina delle fate.
«Se vuoi, ti ci
accompagno io» si offre Katie.
«Ma un merlo mi ha
detto…»
«Ah, lascia perdere i
merli» m’interrompe lei. «Sempre a riempirsi il becco di chiacchiere. Fidati e
salta su. Basta che pensi a quel tale di nome Liam, e io farò il resto.»
«Perché?» chiedo,
stupita.
«Oh, sono certa che lo
scoprirai» risponde, sibillina.
Ecco, sta’ a vedere
che mi porta dritto nella sua tana e mi sbrana. Ma dopotutto, che alternative
ho? Quel maniaco di Willie potrebbe anche essere appostato nell’oscurità, in
attesa di divorarmi.
Mi arrampico sul dorso
della lontra, che è sorprendentemente asciutta, al contrario di me. Non è
freddo, ma non è piacevole indossare un petalo bagnato. Ha la brutta tendenza a
sfaldarsi.
«Tieniti forte» dice
Katie, e poi via! Balza in avanti come una Ferrari. Faccio appena in tempo ad
aggrapparmi alla sua pelliccia prima di essere sbalzata in aria come un burattino.
La lontra è
velocissima: sfreccia nel sottobosco rapida e silenziosa tra cespugli e rametti
che ci passano accanto a velocità mortale, ogni volta mancandoci di un soffio.
Corre, balza, striscia senza mai fermarsi o esitare, valutando perfettamente le
distanze e i passaggi migliori.
Io mi stringo
convulsamente al pelo del suo collare, cercando di non essere scaraventata via
a ogni sobbalzo. Mi ritrovo ben presto indolenzita – per non parlare del mio
povero sedere, ormai diventato un unico enorme livido.
«Non potresti
rallentare?» grido, tentando di sovrastare il frastuono del vento e delle
piante.
«Non avevi fretta?» fa
lei di rimando, e io chiudo la bocca, concentrandomi sul rimanere viva.
Dopo un po’ comincio a
perdere il senso del tempo. Quanto sarà lontano questo palazzo? Dopotutto il
parco non è così grande.
«Non ti stai
concentrando» sbuffa Katie, saltando per evitare un ramo.
Cavolo, l’avevo
completamente scordato. Sarà per colpa mia che ci stiamo mettendo così tanto? Basta che pensi a quel tale di nome Liam.
Mi ci applico subito, cercando di richiamare alla mente il coleottero e i suoi
sgradevoli occupanti.
Ok. Liam. Visualizzo
riccioli castani e una fascetta che gli cinge la fronte, ma oltre non riesco ad
andare. Non ricordo nemmeno se fosse particolarmente carino. Mmm, mi pare che
tutti i ragazzi non fossero niente male – sarà una caratteristica delle fate,
beati loro – quindi penso proprio di sì. La roscia la ricordo meglio. Che odio!
Con quei suoi stupidi capelli fulvi e quella spruzzata di lentiggini sul viso
perfetto. Probabilmente si crede la bella del reame. Meno male che lei e quegli
svitati dei suoi amici sono andati a quello stupido rave, almeno non c’è il
rischio di incontrarli, al palazzo.
E non appena penso
“palazzo”, con tutte le immagini che esso implica – la regina Titania, Oberon,
fatine, polvere magica eccetera – noto che il sottobosco comincia a diradarsi.
Oltre gli ultimi cespugli c’è un gran chiarore.
«Alleluia» sospira
Katie, e rallenta fino a camminare.
E poi sbuchiamo nella radura
più graziosa che possa immaginare. Ogni filo d’erba scintilla, la rugiada
spruzza di diamanti i petali dei fiori selvatici; l’aria è pervasa di fragranze
e luccichii e la luce argentea della luna bagna un’atmosfera di vera e propria
magia. Dove poteva vivere la regina delle fate, se non in un tale locus amoenus?
Al centro di quella
meraviglia troneggia un’enorme quercia secolare. (Un po’ prevedibile, a mio
parere. Perché non un tasso, un albero della pioggia, una palma da cocco, una
sequoia canadese, o un baobab? Ecco, il baobab ce l’avrei visto bene. Vabbe’,
non voglio polemizzare sulle scelte di vita delle fate.) I suoi rami nodosi si
estendono in tutte le direzioni, e solo osservandoli bene noto che ospitano una
struttura fantasiosa, a cui non saprei dare un nome né una forma. È fatta dei
più disparati materiali: corteccia, foglie, fiori, rametti, ragnatele, liane,
resina così antica e lucente che penso possa essere ambra. Ci sono torrette,
piattaforme, terrazze, ponticelli, disposti a casaccio, da quel che vedo;
eppure l’insieme è incantevole e armonioso. Un po’ in ritardo, realizzo che il
famoso palazzo reale è questo.
Devo fare i
complimenti all’architetto.
«Bello, eh?»
interviene Katie, con le fauci aguzze che brillano alla luce della luna, e io mi
riscuoto dalla contemplazione.
«Ha il suo fascino.»
Salto giù dal suo dorso, con le giunture che scricchiolano. Una lontra sarà
anche un mezzo veloce, ma di sicuro non è il più comodo.
Comunque… wow. Ci sono
davvero. Mi trovo nel centro di Faerie. Chi l’avrebbe mai detto?
«Grazie davvero,
Katie» dico. «Mi hai salvato la vita due volte. Ti sono debitrice. Come potrò
mai ringraziarti?»
«Oh, qualcosa
troverò.» I suoi baffi vibrano, e lei sbuffa. Immagino stia ridendo. «Buona
fortuna con la regina Titania. Sono sicura che non avrai problemi.» Mi strizza
l’occhio, poi si volta e si dilegua fra i cespugli.
Ora che sono rimasta
sola, faccio un bel respiro per trovare il coraggio. Basta arrivare alla
quercia e chiedere di parlare con la regina. Quanto potrà mai essere difficile?
Su un albero nelle
vicinanze un usignolo comincia a cantare, facendomi trasalire. Cinguetta un
motivo pieno di virtuosismi, lungo e complesso, per chiudere con un acuto che
termina in un vibrato. Santo cielo, neanche Mariah Carey si pavoneggia così.
«Sborone» commento.
«Rosica, tesoro»
ribatte quello dall’alto, e con un frullo d’ali se ne va.
Ecco, bella figura.
Facendo finta di niente, mi dirigo verso la quercia, chiedendomi cosa mi
capiterà adesso.