Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Callie_Stephanides    14/07/2012    11 recensioni
Quando si incontrano per la prima volta, in occasione della finale della Coppa del Mondo di Quidditch, Draco Malfoy e Hermione Granger devono ancora compiere quindici anni.
E' un rapido sguardo, il loro; la curiosità di un momento.
Qualche settimana più tardi, tuttavia, quando l'unico figlio di Lucius Malfoy arriva a Hogwarts con la legazione di Durmstrang per il Torneo Tremaghi, il Destino stringe il nodo di cui saranno gli estremi.
Puoi innamorarti della ragazza che ha rubato il cuore dello Czar di Durmstrang?
Se è tanto forte da sciogliere la prigione di ghiaccio in cui ti sei nascosto, forse sì.
Genere: Dark, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Severus Piton, Sirius Black, Viktor Krum | Coppie: Draco/Hermione, Vicktor/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Dum spiro, spero'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Višegrad, 02.03.1995

Vi scrivo, padre, e queste sono le memorie di un morto, perché non so se vedrò un altro tramonto e l’alba è così lontana che nemmeno il pensiero l’accarezza.
Non rispetto le regole, non rifinisco l’intestazione: non è così che avete educato l’erede del vostro nome, ma è così che morirò.
La guerra cancella tutto, padre.
Cancella il sangue e il suo valore.
Cancella i colori.
Dojna dice che a Višegrad il cielo sbiadiva dal viola al rosa e che la Drina era una vena d’oro.
La Drina ne ha inghiottito Milan, il fratello, e nelle sue acque ho visto svanire Branko e Goran e Pero.
La caccia ai bosniaci si è aperta ed è caccia vera.
Penso ai giorni di Durmstrang, al bianco e al nero che mi ha allevato.
Penso agli scherzi feroci che Klaus ed io facevamo al piccolo Florian, quando ci sentivamo i padroni del mondo.
Dojna dice che la vita era bella qui, confine sospeso tra due mondi; che due lingue e due fedi facevano solo più bello l’amore.
Dojna ne parla con occhi pieni di speranza, poi imbraccia il kalashnikov e torna a essere solo uno sniper bosniaco: un cane sciolto che abbatte i lupi di Karadžić e Mladić.
Dojna è una Babbana ed è la mia donna, padre. Della vita che avevo, della sposa che mi era stata promessa, non resta più niente.
Oggi, più che mai, so che la fede in cui sono stato cresciuto è la stessa che ha fatto impazzire il mondo.
Oggi so che i Babbani sono migliori di noi, perché le loro guerre sono sangue e fango e merda, non un igienico lampo verde.
Rinunciare alla magia vuol dire sporcarsi le mani. Quando l’ho fatto, padre, ho compreso che della vita non sapevo niente.
È successo a Sarajevo: è lì che ho perso tutto. Ho perso mio fratello, la mia identità, la mia bandiera.
È lì che ho trovato la guerra vera o che la guerra ha trovato me.
Se tornerò mai a casa, padre, non sarò chi ricordate: Kaspar Von Kessel è già morto mille volte.

Višegrad, 03.03.1995

Li hanno allineati lungo il costone del ponte. È un ponte famoso, sapete? È un ponte bellissimo.
C’erano vecchi e bambini. Le donne le hanno lasciate per ultime.
Un bambino piangeva: l’hanno colpito così forte da sfondargli la testa. Si è sgranato come un fiore, padre, ed io non ho potuto fare niente, perché ero troppo distante per sparare.
Slobo mi chiama
Zwei Zigaretten. Dice che non ho bisogno della terza, per far saltare una testa.
È una superstizione da cecchini: non si fuma al buio e non si usa mai lo stesso fiammifero. Il perché me l’ha insegnato Dojna, una notte in cui eravamo di guardia al ponte. Nell’oscurità, all’improvviso, si è accesa una brace monocola. L’ho vista imbracciare l’AK-47 e aspettare.
Alla seconda fiammella, ha aggiustato la mira.
Alla terza ha sparato.
Dopo lo sparo, la brace si è spenta.
“È stato Milan,” mi ha detto. “È lui che mi ha insegnato a usare il kalashnikov.”
Dojna ha ventitré anni, ma qui sono quasi tre secoli. Ha gli occhi verdi e i capelli neri. L’hanno stuprata in dodici: dodici serbi gliel’hanno messo dentro, finché non ha smesso del tutto di urlare.
Ha avuto un figlio, che è nato morto.
“Era inevitabile,” mi ha confessato. “Di vivo, qui intorno, non c’è più niente.”
L’ho incontrata a Sarajevo, dove mi sono perduto, padre.
Ho trovato lei e ho fatto la mia scelta.

Višegrad, 04.03.1995

Il fronte si è spostato a Tuzla.
Le notizie corrono lente, dove il mondo è finito e la Storia è alla deriva, ma sono veloce io, nel cielo sgombro.
Non sono riuscito ad avvicinarmi, perché era in corso un bombardamento.
Le forze dell’Onu e della Nato non reagiscono: usano le parole e le promesse, quando serve una scelta di campo. Io l’ho fatta.
Sono un disertore, padre? No, sono un uomo.
A Sarajevo ho visto sniper sparare a donne indifese che facevano la fila per il pane.
Ho visto i nostri connazionali arricchirsi, perché il marco è la valuta che pesa di più.
Ho capito che Voldemort non è un corpo, né uno spazio fisico, perché il Male ha ormai avvelenato tutto.
Si è preso anche me, padre.
Ho buttato via la bacchetta e

(Più tardi)

ho avuto in cambio un fucile. È stato un processo lento, come capita solo alle infezioni: poco alla volta, l’abitudine ai Babbani ha vinto la diffidenza del sangue.
Quando abbandoni la magia, quando sei costretto a farlo, perché attorno a te hai solo uomini, ti accorgi che il mondo ha colori diversi da quelli che hai sempre visto. Che la vita non è facile. Che il sangue è quello che trovi accanto a un bambino bianco come carta, con una rosa nel petto.
Un sangue che è rosso per tutti.
Penso al nonno, all’orgoglio con cui parlava di noi, i più puri e i più rari tra tutti i Purosangue, e penso a mia madre, al coraggio con cui ha accolto Florian, pur sapendo che l’avrebbe consumata.
Ci avete mai riflettuto, padre?
Quella della nostra famiglia è una storia di sangue diviso, come la terra in cui vivo e combatto.
È, soprattutto, una grande storia d’amore, dalla morale sorprendente: la vita ha un solo colore.
Maghi, Babbani, Sanguepuro o Sanguesporco, siamo fratelli e uguali anche quando ci ammazziamo. E allora, se devo diventare un assassino, voglio uccidere come un uomo, per sentire la responsabilità di un errore senza ritorno.
Prima della guerra, Dojna voleva diventare giornalista.
Studiava all’Università di Sarajevo e imparava la mia lingua. Dice che vuole fare l’amore in tedesco, perché è la voce del
prima: è tutto quello che ha salvato dalle macerie di una vita da buttare.
Ed io, padre? Io cosa ho salvato?
Quando riabbraccerete Florian, insegnategli a voler bene. L’odio e il sospetto non valgono i suoi anni e la sua intelligenza.
Non valevano i miei, ma l’ho scoperto tardi.

Srebrenica, 02.03.1995

Padre onorato,
vi scrivo dall’enclave di Srebrenica, dove, al termine di una marcia sfiancante, siamo arrivati ieri notte. Abbiamo attraversato a piedi un’autentica polveriera, come i cetnici degli anni Quaranta. L’abbiamo fatto per evitare nuovi scontri e per respirare l’odore della notte, anziché quello del sangue. Dopo la tregua invernale, la Bestia si è svegliata: solo ieri ho schiantato due Warg e catturato un licantropo. Combatto per non pensare a mio fratello. Combatto e sogno solo di riportarlo a casa con me, padre.
So di aver disatteso i miei doveri di figlio, poiché, dei diari che vi avevo promesso, non ho scritto niente, ma la piuma pesa tra le dita più di una bacchetta.
La piuma, padre, e il demone che i Babbani chiamano
anima. Ho perduto Kaspar, padre, e non so perdonarmelo. Se fossi stato più attento, se mi fossi affidato all’istinto, forse avrei potuto prevedere quel che è capitato. Avremmo combattuto e non posso dire che l’avrei sconfitto, perché voi sapete quanto forte e capace sia mio fratello, ma avrei avuto la consolazione dell’azione. Invece mi è toccata la parte ingrata dello spettatore inerte: non è tornato da Markale. Non l’abbiamo più trovato.
Ho battuto tutta Sarajevo per cinque giorni. I colpi dei cecchini sibilavano ovunque, ma non sono mai stato colpito: la morte era già in me.
Se l’avessi trovato riverso in terra, padre, forse avrei potuto accettarlo; se fosse stato ferito o mutilato o ridotto in fin di vita, avrei potuto vendicarlo. L’assenza, invece, è un vuoto incolmabile, che lascia spazio solo al rimpianto e alla nostalgia.
Anche il colonnello O’ Donnell ha accusato il colpo, poiché eravamo allievi suoi, dunque figli. Dai giorni della Krajina, tuttavia, ho capito che i soldati hanno un solo genitore: madre guerra.
La notte è spaventosa, qui, sapete? Non c’è più elettricità, il gas scarseggia e la benzina è un bene di lusso. Accanto ai soldati Babbani batto i villaggi, per garantire la sopravvivenza a questa povera gente. Sono rimasti quasi solo vecchi e bambini. Le donne – le poche che incontri – hanno occhi da belva ferita e ti si spogliano davanti.
Kolja Van Beek, del comando olandese, mi ha detto che i cetnici praticano lo stupro etnico e che non risparmiano nessuna sopra i dodici anni. Chi fa resistenza, non lo racconta.
Le bambine di tredici anni si rasano a zero e si fingono ragazzi. Qualcuna, invece, si pittura la bocca e ti sorride come una consumata puttana.

Cento marchi, bel soldato. Sono ancora vergine.

È questo che ha fatto impazzire Kaspar?
Sono stati quegli occhi?
Quella dignità oltraggiata?
Non lo so, ma non mi arrendo: voglio ritrovarlo, padre.
Trovarlo, portarlo a casa e costringerlo a combattere la guerra che ci aspetta.
I Babbani possono fare a meno dei fattucchieri, ma se c’è l’ombra del Signore Oscuro dietro quello che vedo, la tempesta che sta per abbattersi su di noi – su tutti noi – potrebbe cancellarci per sempre. Ed io no, padre: io voglio vivere.
Vostro Klaus Von Kessel.

Višegrad, 14.03.1995

L’hanno ammazzata.
Mi ha lasciato mentre dormivo, per comprare il pane.
Mi ha lasciato il suo profumo, senza che potessi dirle addio o raccontarle chi ero e quanto pericoloso fosse il mio sangue.
Mi sono svegliato ed ero solo: quell’evidenza è diventata un sospetto buono a divorare tutto il mio coraggio.
Ho preso il kalashnikov e sono uscito: l’alba di Višegrad era quella che Dojna mi aveva raccontato, ma lei non c’era. Non era al mio fianco. Non era da nessuna parte. Poi ho sentito lo schianto e le urla e ho capito che il silenzio era la coperta sotto la quale le tigri di Arkan si preparavano a colpire.
L’hanno ammazzata sul ponte – il nostro ponte.
Uno straccio dagli occhi pallidi.
Non sono riuscito a toccarla, perché non volevo il suo sangue nelle mie mani. Non potevo sopportarlo.
Ho pensato a voi, padre: al giorno in cui nostra madre è morta.
Siete stato voi, vero, ad assisterla? Voi avete lottato con l’emorragia e voi vi siete bagnato della poca vita che le restava.
Ora comprendo il vostro riserbo e la vostra freddezza; ora so perché non ci avete più abbracciato: non volevate che a contaminarci fossero le mani di un assassino.
È così che mi sento io, ultimo vivo in una città di morti. Una città che mi era estranea e che ora mi appartiene, perché si è presa Dojna. Si è presa tutto.
Vado a nord, incontro ai cetnici.
Vado a morire e queste sono le mie ultime parole. Le rivolgo a voi, ai miei fratelli, a Margaretha.
Non ditele che l’ho tradita, perché, a mio modo, ho amato anche lei. Solo che non conoscevo la vita, né l’amore. Non immaginavo che fosse così potente e velenoso.
Vi ho deluso, padre, e non lo meritate, perché da voi ho imparato la lezione più importante: la fedeltà al cuore. Quando vedrò mia madre, le racconterò quanto l’avete amata.
Che il suo sorriso vi protegga tutti.
Kaspar

P.S. Questo è l’ultimo ricordo felice che ho diviso con mio fratello. Restituiteglielo: saprà cosa farne.

Agenzia Reuters, 21 marzo 1995

Su Tuzla le bombe tornano a seminare la morte.
Nelle prime ore di ieri l’esercito musulmano ha sferrato un attacco contro le forze serbo-bosniache che hanno risposto con una pesante offensiva, la più grave violazione del cessate il fuoco entrato in vigore in Bosnia dall’inizio di gennaio.
Stando a notizie non confermate, le vittime potrebbero essere fra le cinquanta e le duecento. Secondo fonti delle Nazioni Unite, la situazione è tanto allarmante da far temere che la tregua - la cui scadenza è fissata per il prossimo primo maggio - possa essere definitivamente dimenticata dalle parti in guerra.
Gli scontri sono esplosi prima dell’alba sulle colline di Majevica, a est di Tuzla, città controllata dalle forze governative, poi sul monte Vlasic, un picco in mano ai serbo-bosniaci, nei pressi della città di Travnik, nella parte centrale della Bosnia e infine a nord, nel corridoio di Posavina.
A Tuzla, una delle sei zone sotto la protezione dell’Onu, diverse bombe hanno centrato una caserma delle forze governative uccidendo almeno trenta soldati. Altri ottanta sono rimasti feriti. Secondo l’Unprofor, il bombardamento sarebbe stato conseguenza di un attacco sferrato dai musulmani contro i serbo-bosniaci nella parte orientale della città. Più di duecento persone sono state ricoverate nell’ospedale civico. Vittime anche fra i civili. L’Unprofor ha contato fra i quattrocento e i cinquecento colpi di artiglieria pesante a Majevica, a est di Tuzla, e ha registrato lo spostamento di almeno duemila soldati bosniaci.
«Tutto fa pensare che i governativi abbiano sferrato un’offensiva in grande stile nella regione» ha dichiarato Gary Coward, portavoce dei caschi blu. Molti colpi di artiglieria pesante sono stati uditi ieri mattina anche nel corridoio di Posavina, la zona cioè che permette ai serbi di tenere in collegamento i loro territori occidentali con quelli orientali, e a Travnik nel centro della Bosnia.
Si spara anche in Croazia.
Le truppe di Zagabria hanno attaccato domenica una pattuglia dell’Onu presso la ‘linea del fronte’ della Krajina (territorio geograficamente della Croazia, ma controllato da secessionisti serbi), ferendo un casco blu canadese. Lo ha reso noto ieri il quartiere generale Unprofor di Zagabria.
L’attacco - secondo l’Unprofor - è stato «deliberato». La pattuglia dei caschi blu stava pattugliando la zona, all’interno della Krajina, quando un’unità croata - a circa trecento metri di là dalla ‘linea del fronte’ - ha aperto il fuoco e ha intensificato i tiri mentre i soldati dell’Onu si ritiravano.
L’Unprofor ieri mattina ha inviato una nota di protesta al governo croato.
A Sarajevo sei persone sono state ferite dai cecchini. Fra queste un’anziana donna ricoverata in ospedale in gravi condizioni dopo essere stata colpita nel quartiere di Dobrinja.
Questa recrudescenza dei combattimenti, unita allo scarso successo delle iniziative diplomatiche fanno temere agli osservatori che con la fine dell’inverno la situazione possa precipitare riaccendendo il conflitto in tutta la Bosnia. Un portavoce dell’inviato delle Nazioni Unite in Bosnia Yasushi Akashi ha cercato di gettare acqua sul fuoco riconoscendo che le notizie provenienti da Travnik e Tuzla «sono allarmanti, ma non autorizzano a trarre conclusioni troppo drastiche sul futuro della tregua». Ma altre fonti diplomatiche danno per inevitabile il precipitare del conflitto: «Solo un più incisivo intervento internazionale potrebbe riaccendere la speranza. Per il momento, però, nessuna delle iniziative partite dopo gennaio ha avuto successo, così non deve sorprendere il fatto che abbiano ricominciato a farsi sentire le armi».
Gli ultimi sviluppi della situazione e il futuro della missione Unprofor in Croazia sono stati discussi ieri a Belgrado dal co-presidente della Conferenza internazionale di pace Thorvald Stoltenberg con il presidente serbo Slobodan Milošević.
Gli stessi temi – ha detto Radio Belgrado – sono stati anche al centro di un colloquio, nel pomeriggio, tra Stoltenberg e il leader dei serbi della Krajina Milan Martić
(1).

Sarajevo, 23.03.1995

Ritrovato Kaspar.
Condizioni disperate.
Siamo all’ospedale Kosevo. Colonnello O’ Donnell autorizza visita.
Rivolgersi Ambasciata Sarajevo.

***

Von Humboldt solleva lo sguardo.
Von Kessel tace.
“Andate e non guardatevi alle spalle. Ho buoni contatti con il Ministero Babbano e sarà un piacere usarli per voi.”
Axel s’inchina.
“Non siate troppo severo: i figli sono foglie; prima o poi, abbandonano tutti il ramo che li ha nutriti.”
Von Kessel annuisce, il cuore altrove: quando il falco di Florian raggiunge Lübeck, è già a Sarajevo, né leggerà mai quanto gli è destinato.

È un quadrato di pergamena, stracciato ai bordi, per tre parole.

Rette mich, Vati.
Aiutami, papà.

Finisce bruciato in volo, dalle parti di Zenica, con il piumato messaggero.
È la prima volta che Florian non usa il Sie e chiede aiuto.
Della sua voce disperata, tuttavia, restano appena cenere e fumo.


Nota: (1) Il brano è tratto da La Repubblica del 21/03/1995.

   
 
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Callie_Stephanides