Serie TV > Glee
Segui la storia  |       
Autore: lievebrezza    16/07/2012    17 recensioni
Kurt e Blaine, la Grande Mela e una prestigiosa scuola elementare.
Un bambino e una bambina, mezze verità e un tatuaggio.
Un grande fraintendimento, che potrebbe portarli a perdere una grande opportunità.
Daddy!Klaine
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Santana Lopez, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

SINGLE DADDIES ISSUES

 

Cap. 2

- Unexpectedly, a Dad -

 

Blaine sfrecciò nel traffico cittadino, si arrampicò maldestramente sul marciapiede con lo scooter e lo abbandonò lì in divieto di sosta, poi si precipitò verso lo studio di registrazione, inciampando nei suoi stessi piedi mentre correva verso l'ascensore. Nella fretta gli si era slacciata una stringa delle Converse, che ora gli serpeggiava senza controllo tra le caviglie: forse non era solo Daki ad avere bisogno di una lezione su come fare i nodi.

Comunque, non era in ritardo. Non di molto, almeno.

Meno del solito, ecco.

Si ravviò con una mano i riccioli sudati, pregò che nessuno dei presenti notasse gli imbarazzanti aloni umidi che facevano capolino da sotto le sue ascelle e il fatto che indossasse la stessa maglietta del giorno prima: si ficcò le cuffie sulle orecchie e aspettò il via per iniziare a cantare. Quel giorno avrebbe dovuto registrare la versione definitiva di un paio di jingle pubblicitari: mentre respirava con il fiato grosso per la corsa disperata, lesse sconsolato il ritornello che raccontava l'allegra scampagnata di due wurstel e alzò gli occhi al cielo.

Il suo orgoglio come performer l'aveva già abbandonato da tempo, quindi si stampò un sorriso in faccia e cominciò a scaldare la voce. Sebastian amava domandargli perchè diavolo non si decidesse a produrre da sé il suo dannato album, dato che aveva abbastanza soldi per farlo in tutta tranquillità; ma Blaine ogni volta scuoteva la testa e gli spiegava con pazienza le sue ragioni. Voleva trovare qualcuno disposto a investire su di lui, qualcuno che gli dicesse che aveva talento e che meritava il successo: non voleva scorciatoie offerte dagli abbondanti fondi della sua famiglia. E se per arrivare in cima doveva cantare stupide canzonicine e doppiare cartoni animati per bambini, allora l'avrebbe fatto senza lamentarsene; almeno quando avrebbe stretto il suo primo cd tra le mani, l'avrebbe fatto con la certezza di averlo ottenuto con il sudore della sua fronte e la forza della sua voce.

Era una questione di orgoglio.

Quando avrebbe sfondato, quando sarebbe stato una star, forse avrebbe ripensato con malinconia agli anni della gavetta e li avrebbe descritti con tenerezza a una giovane e impacciata giornalista di Rolling Stones. Poteva già immaginarsi stravaccato su un lussuoso divano in pelle nera, intento a strimpellare annoiato una chitarra mollemente appoggiata sulle ginocchia, con addosso dei jeans sdrucidi e una maglia costosa, atteggiato da gran divo, come se farsi intervistare fosse qualcosa di banale, che non meritava la sua piena attenzione. Lei gli avrebbe chiesto quali erano gli artisti cui si ispirava e lui avrebbe risposto con uno sbadiglio, lasciandosi rotolare fuori dalle labbra una sequela di nomi altisonanti.

Blaine scosse la testa di fronte a quella fantasia, e per poco non scoppiò a ridere: se mai fosse arrivato quel momento, di certo sarebbe andato tutto diversamente. Avrebbe trascorso la mattinata a riordinare l'appartamento, nascondendo nelle camere da letto tutto quello che non aveva un posto preciso dove essere riposto, poi sarebbe corso al supermercato per acquistare del caffè solubile e dei biscotti, perchè la dispensa era di nuovo vuota. Sarebbe rientrato in ritardo, fuori di sé dalla felicità e avrebbe vomitato sulla povera giornalista una valanga di scuse, parole e balbettii incoerenti, per poi rovesciarle addosso, con mani tremanti, il caffè tanto premurosamente preparato per l'occasione. Probabilmente inciampando in qualche giocattolo abbandonato da Daki in mezzo al salotto, fortuitamente sfuggito al suo affrettato tentativo di riordinare.

Soppresse un sorriso, e cominciò a cantare, fingendo con se stesso di essere in uno studio di registrazione prestigioso, sul punto di vincere l'ennesimo disco di platino. Altre tre ore di canzoncine idiote su wurstel, poi sarebbe andato a pranzo con Sebastian. Conoscendo la fervida e perversa immaginazione dell'amico, Blaine pensò che forse sarebbe stato consigliabile tacere circa l'argomento dei jingle registrati in mattinata, o l'amico avrebbe dato davvero il meglio di sé nella ricerca di gustosi doppi sensi. Ed essere banditi da un altro Starbuck's a causa della boccaccia di Sebastian era proprio l'ultimo dei suoi desideri.

Sette anni prima, quando aveva lasciato l'Ohio, Blaine aveva immaginato per sé un futuro completamente diverso da quello che stava attualmente vivendo. Alla fine del liceo, appesa la divisa della Dalton al chiodo, Blaine aveva annunciato trionfante di voler studiare recitazione, canto e dizione: voleva essere un artista, esprimersi attraverso il suo corpo, vivere della propria arte. Si sarebbe iscritto alla Tisch e avrebbe girato il mondo con la sua chitarra sulle spalle alla ricerca dell'ispirazione e della canzone perfetta.

I suoi genitori, di fronte a quella mistica rivelazione, si erano duramente opposti, insistendo perchè invece si iscrivesse a Economia e seguisse le orme di suo padre o di suo zio; quando ogni tentativo di imposizione finì per schiantarsi contro la sua ferrea determinazione, gli Anderson lo misero alla porta.

Letteralmente.

In quella casa non c'era spazio per chi decideva di non vivere secondo le loro regole. Dopo un pomeriggio estivo passato a giocare a tennis con Wes al Country Club di Westerville, Blaine aveva trovato nella sua camera una delle cameriere che riponeva tutti i suoi vestiti dentro a lussuose valigie di pelle e le sue cose in scatoloni evidentemente acquistati per l'occasione. In quel momento, aveva compreso che i suoi genitori non l'avrebbero più sostenuto nelle sue decisioni. Infatti, se già avevano faticato a fingere che la sua omosessualità non fosse solo un capriccio adolescenziale, non erano riusciti ad accettare quello che ritenevano l'ennesimo tentativo di ribellione da parte di Blaine. Non lo avevano privato del suo fondo fiduciario, ottenuto al compimento dei diciotto anni, ma di fatto, lo abbandonarono a se stesso.

Blaine avrebbe voluto dirsi sorpreso di quella drastica reazione da parte della sua famiglia, ma la triste verità era che non lo era affatto; non che questa consapevolezza l'avesse aiutato in qualche modo nell'organizzare una controffensiva decente o nel convincerli a tornare sui loro passi.

Il ragazzo non aveva la minima idea di cosa fare, né di sé, né di tutti quei soldi cui aveva improvvisamente accesso. Smarrito, aveva fatto un paio di telefonate, acquistato un biglietto aereo per New York e bussato alla porta di sua cugina, l'unica che in passato aveva sempre preso le sue difese. Ovviamente senza successo, essendo a sua volta considerata dai parenti una pecora nera della peggior specie.

Artista, ragazza madre ed eccentrica fin dalla tenera età, Dalisay era stata l'unica ad accoglierlo a braccia aperte. L'aveva abbracciato stretto e gli aveva mostrato la sua camera: in quell'enorme attico in centro Manhattan, con un neonato che piangeva tutto il giorno e Dali che passava le giornate tra colori a olio e omogeneizzati biologici, Blaine aveva trovato il suo piccolo angolo di paradiso.

Esattamente come Blaine, anche Dalisay e le sue bizzarre aspirazioni si erano scontrati con il duro snobismo della sua famiglia. Dali era nipote di Amihan Tumibay Anderson, la madre di Blaine: era anche la sua unica cugina ed era più vecchia di lui di dieci anni. Per quanto si somigliavano, i due cugini potevano essere scambiati per fratelli: entrambi di bassa statura, con scuri capelli ricci e occhi color miele, non solo condividevano il fisico minuto e scattante, ma anche l'insofferenza nei confronti dell'aristocratico contegno della famiglia Tumibay.

Se gli Anderson erano ricchi, benestanti e terribilmente snob, la famiglia della madre di Blaine li superava sotto ciascuno di questi aspetti. Il padre di Dalisay e la madre di Blaine erano gli eredi di una multinazionale dalle lontane origini filippine che aveva sedi e stablimenti sparsi in ogni continente: Amihan si era disinteressata da tempo della gestione della società, lasciando ogni potere decisionale nelle mani del fratello maggiore.

In cambio di un vitalizio a otto zeri, ovviamente.

Blaine non aveva mai capito di cosa si occupasse esattamente lo zio, nonostante i suoi ripetuti tentativi di coinvolgerlo nelle dinamiche della società e nei delicati equilibri di potere che animavano il consiglio d'amministrazione. Ogni volta che lo zio gli illustrava numeri, documenti e calcoli percentuali, a Blaine veniva l'orticaria nello sforzo di capire che accidenti volessero dire.

Lo stesso era accaduto a Dalisay, che per descrivere la sua situazione amava citare una frase pronunciata da Mussolini a proposito del grande poeta Gabriele D'Annunzio: poteva anche essere considerata come un dente cariato, ma la famiglia era stata costretta a coprirla d'oro, dato che certo non la poteva estirpare. Potevano anche fingere che non esistesse, ma Dali rimaneva comunque una Tumibay.

Blaine le aveva chiesto spesso perchè non si fosse trasferita nel Village, dove abitava la maggior parte dei suoi amici: Dali aveva risposto semplicemente che c'era un legame tra lei e quella casa. Non poteva andarsene così, quello era il suo posto; adorava gli interni borghesi di quell'attico in centro, i muri dipinti in un bianco splendente e i tre bagni rivestiti di marmi preziosi. Somigliava alla villa in cui era cresciuta e da cui era fuggita, era lì che aveva concepito Daki ed era lì che insieme avevano mosso i primi passi.

Dalisay non l'avrebbe mai ammesso, ma amava davvero quella casa, di cui profanava continuamente gli aristocratici interni: ai divani di respiro neoclassico accompagnava mobili recuperati per strada e riportati a nuova vita; alle pareti appendeva i suoi quadri ancora umidi e odorosi di colore e solventi, coprendo gli stucchi vittoriani e le stampe design scelte da suo padre; nella vasca dell'enorme bagno padronale faceva lunghi bagni in compagnia di estranei, fumando e ridendo per sciocchezze.

In realtà, Blaine era convinto che sua cugina provasse una sorta di perverso piacere nel dividere l'ascensore con l'élite newyorkese, sbattendo il suo stile di vita anticonformista in faccia alle signore impellicciate che incontrava quotidianamente nell'ingresso. Amava inorridirle e sorprenderle con le sue stravaganze, che venivano puntualmente raccontate a suo padre, con cui ormai non parlava da anni. I legami tra Dalisay e la sua famiglia erano già duramente compromessi quando aveva annunciato trionfante la sua inaspettata gravidanza: il fatto che non sapesse chi fosse il padre, né fosse intenzionata a scoprirlo, aveva sancito la fine di ogni contatto e l'aprirsi di una insanabile voragine. Dakila non aveva mai conosciuto i suoi nonni e questa era una delle poche cose che l'avevano davvero ferita: non riusciva a comprendere come si potesse voltare lo sguardo a un neonato privo di colpe.

Ma Daki, nonostante tutto, era un bambino felice: la casa di Dalisay era sempre affollata di amici, artisti di passaggio e conoscenti, che lo vezzeggiavano continuamente e senza ritegno. Negli anni in cui Dali rimase con lui, il piccolo non sentì mai la mancanza di una figura paterna, né di una famiglia; viveva circondato d'affetto, colori e affetto sincero, che erano più che sufficienti per farlo crescere felice. E quando anche Blaine si era unito a quel variopinto quadro ed era diventato un punto di riferimento per lui e sua madre, Dakila fu ancora più sereno, se possibile.

Blaine si era presentato alla loro porta subito dopo il diploma, con due valigie piene di spartiti, la sua vecchia Playstation e il cuore gonfio di aspettative; a dispetto di ogni sua possibile previsione, nel giro di due anni dal suo trasferimento nella Grande Mela, si era ritrovato ad accantonare la vita spensierata dello studente universitario per vestire i panni di padre a tempo pieno di un bambino emotivamente distrutto.

Era successo tutto rapidamente.

Una sera di ottobre, Blaine era seduto sul bordo della vasca e stava chiacchierando con Dalisay che, immersa nell'acqua bollente e coperta di schiuma, sembrava tranquilla. A distanza di anni, riusciva a ricordare ancora perfettamente l'argomento di discussione: lui e Dali stavano parlando di Sebastian e dell'intossicazione alimentare che si era preso in un ristorante giapponese, quando senza preavviso, Dali gli aveva detto di non sentirsi molto bene e aveva perso conoscenza. Blaine l'aveva afferrata prima che scivolasse sott'acqua e aveva chiamato un'ambulanza.

L'esito degli esami era stato un duro colpo.

Pochi mesi, tanti farmaci e tante scartoffie più tardi, Dalisay li lasciò soli. L'università, le serate al karaoke, i provini per i talent show e lo stalking degli agenti discografici erano passati immediatamente in secondo piano: tutto era diventato più sbiadito, nella sua vita. Riusciva solo ad appallottolarsi sul divano di quell'enorme appartamento con Daki tra le braccia, trascinarsi in cucina per scaldare del latte e metterlo a letto quando erano troppo stanchi perfino per piangere.

Quando Dalisay era morta, Blaine aveva vent'anni e Daki appena quattro. Il piccolo e sua madre erano tutto ciò che gli era rimasto della sua famiglia; Dalisay aveva informato la loro famiglia della malattia solo a un passo dalla fine e, anche a quel punto, non molto era cambiato. Fortunatamente nessuno aveva interferito nella sua decisione di nominare Blaine tutore legale del bambino: ovviamente avevano chiamato, avevano offerto il loro aiuto, ma erano stati silenziosamente sollevati quando Blaine aveva rifiutato. Prima ancora di diventarne ufficialmente responsabile, il ragazzo era già un padre per Daki: non se ne era reso conto finchè non si era trovato a essere il solo a preparargli la colazione, vestirlo e consolarlo.

Da quel giorno erano passati più di cinque anni e nel frattempo erano successe molte cose.

C'erano state le prime settimane, quando Blaine non lasciava mai l'appartamento e viveva in simbiosi con il bambino, preoccupandosi a stento di se stesso. La casa era vuota e silenziosa, senza Dalisay e la sua energia. A Blaine mancavano l'odore di solvente e di pennelli umidi, le nottate in bianco ad assisterla quando era troppo debole perfino per arrivare in bagno, il continuo viavai di gente, rumore e colore.

C'erano stati i primi mesi, quando era lentamente tornato in sé ed era stato costretto a prendere delle decisioni difficili. Blaine aveva appeso in ingresso l'unico quadro che sua cugina era riuscita a portare a termine negli ultimi mesi, aveva osservato a lungo quell'intrico nero che serpeggiava tra le pure lamine dorate e aveva rammendato a se stesso l'ultima raccomandazione di Dali: “Crescilo come se fosse tuo, e non sbaglierai. Mi fido di te.”

Con il cuore pesante, aveva accatastato tutti i quadri incompleti in una stanza e aveva finalmente liberando il salotto, la cucina e il corridoio da quelle ingombranti tele, in cui lui e il bambino continuavano a inciampare. La presenza di Dalisay era ancora potente, ma meno fisica: con il ricordo affettuoso dell'unica donna che avrebbe mai amato con tanta intensità, Blaine aveva ripreso il controllo della sua vita.

E con la sua, anche di quella di Daki.

Sapeva di non poterlo istruire in casa, così come sua madre avrebbe voluto. Per farlo, sarebbe stato costretto ad abbandonare gli studi universitari, che già erano stati duramente compromessi dai mesi di deriva emotiva che avevano seguito il funerale. Però aveva le risorse economiche necessarie a iscrivere Daki in un asilo ricco di programmi dedicati allo sviluppo delle capacità artistiche: pensò che se in passato la Dalton non era riuscita a soffocare la sua individualità, di certo non ci sarebbero riusciti in un posto del genere. Con serenità, aveva aiutato Daki a inserirsi progressivamente nel complesso mondo dell'istruzione privata; era stato estenuante per entrambi, ma alla fine avevano trovato un loro equilibrio. Si trattava di due vite sconvolte, ma insieme erano riusciti a sopravvivere, un compromesso dopo l'altro.

Tra leziosi, lavoretti saltuari e riunioni per i genitori, il più delle volte la casa era un vero caos, ma Blaine si premurava che il bambino fosse sempre pulito, sano e in ordine: se poi lui non aveva il tempo di sbarbarsi o i giocattoli di Daki erano sparsi per tutta la casa, quello era un prezzo che poteva permettersi di pagare. L'importante era che stessero bene.

Anche dopo anni dalla morte di Dalisay, Blaine viveva ancora nel terrore costante di combinare un pasticcio di troppo e trovare gli assistenti sociali fuori dalla sua porta, pronti a strappargli suo figlio. Non erano rare le notti in cui si svegliava e non riusciva a riaddormentarsi finchè non si alzava e controllava che Daki fosse a letto. Rimaneva mezz'ore intere appoggiato allo stipite della porta, osservandolo mentre respirava tranquillo, avvolto nelle lenzuola sbiadite che aveva dipinto insieme a Dalisay anni prima: Blaine si chiedeva se stesse facendo tutto per bene, se sarebbe stata fiera di lui, se Daki avrebbe preferito essere affidato a una famiglia più ordinaria, piuttosto che a uno zio troppo giovane e troppo sconclusionato.

Erano dubbi che lo assalivano di notte, perchè di giorno non aveva il tempo di pensarci.

Il primo giorno di scuola elementare, quando aveva aiutato Daki a infilarsi la divisa della St Patrick per la prima volta e lo aveva accompagnato in classe, accadde qualcosa di straordinario: mentre lo supplicava di non andarsene e non lasciarlo solo in mezzo a tutti quegli estranei, il bambino lo aveva chiamato papà per la prima volta.

E lo aveva fatto con una spontaneità tale da lasciare Blaine senza parole.

A quasi due anni dalla prematura scomparsa di sua cugina, rintanato di nascosto nel bagno dei professori e scosso dalle lacrime, Blaine provò qualcosa di terribilmente simile alla felicità: anche se tutto ciò che faceva era ben lontano dalla perfezione, ormai lui e Daki erano una famiglia. E Daki poteva anche non essere suo figlio biologicamente, ma lui e quel bambino si appartenevano e si completavano.

A distanza di quattro anni da quel giorno, non era cambiato nulla: l'appartamento era ancora un disastro, Blaine passava le giornate correndo da un angolo all'altro della città e Daki continuava a considerarlo suo padre. Il suo giovane, maldestro e affettuoso padre.

Fu con un sorriso ebete e questo pensiero in testa che Blaine si presentò nell'ufficio di Sebastian.

“Rose, il signor Smythe è libero? Abbiamo un appuntamento per pranzo.” disse timoroso all'arcigna segretaria che presidiava l'accesso allo studio di Sebastian. Lei alzò gli occhi dallo schermo e dedicò una lunga occhiata all'attenta scansione dell'aspetto di Blaine: disapprovò i capelli schiacciati dal casco, la maglietta stropicciata e le scarpe dal colore assurdo, ma alla fine si degnò di rispondergli.

“Il signor Smythe al momento è impegnato. Si accomodi pure, sarà mia premura avvisarlo dalla sua presenza non appena sarà libero.” La voce glaciale della donna confermò per l'ennesima volta che Sebastian era riuscito a trovare la più ferrea delle assistenti: entrambi sapevano benissimo che cosa stava facendo esattamente, dentro allo studio, ma l'espressione sul suo viso era indecifrabile. Con uno sbuffo annoiato, Blaine si lasciò cadere su una delle poltroncine e giocò con il cellulare finchè non si aprì la porta e sulla soglia si palesò un ragazzo con i capelli in disordine e la cravatta allentata. Dietro di lui, Sebastian era seduto alla scrivania e stava già facendo cenno a Blaine di raggiungerlo; il ragazzo trotterellò inquieto sotto gli occhi schivi della segretaria e richiuse la porta alle sue spalle, poi guardò Sebastian con disapprovazione.

“Che c'è?” sbottò quello, intento a infilarsi i lembi della camicia nei pantaloni.

“Che cosa avevamo detto circa il sesso sul posto di lavoro?” lo ammonì Blaine, appoggiandosi i pugni sui fianchi.

Sebastian roteò gli occhi e provò a rispondere ironico: “Avevamo detto che ci piace?”

“No. Avevamo detto che è poco professionale.” Blaine sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania e affondò avidamente la mano nella ciotola di caramelle che Sebastian teneva vicino al telefono.

“E' poco professionale se mi scopo qualche assistente contro la libreria e in cambio concedo una promozione. In questo caso, si tratta solo di un pompino e del ragazzo delle consegne. Non lavora nemmeno per me.” si strinse nelle spalle e si lasciò sfuggire una risatina vittoriosa. Con la bocca piena di caramelle gommose e i capelli stravolti, Blaine non era affatto minaccioso.

“Oh, vai al diavolo, Bas.” bofonchiò, rischiando di strozzarsi con un orsetto di gomma particolarmente ostico da ingoiare. L'altro rise più forte, poi aprì il primo cassetto della scrivania ed estrasse un plico voluminoso.

“Prima di andare a pranzo, vogliamo parlare un momento di lavoro?”

Blaine ingollò l'ammasso di caramelle e si sedette in modo più composto, canzonando Sebastian: “Ma certo signor Smythe, parliamo di lavoro. Prima magari si chiuda la patta dei pantaloni, riuscire a vedere da qui che indossa dei boxer rosso ciliegia mi porta a mettere in dubbio la sua professionalità.”

Risolta l'emergenza zip, Sebastian gli passò alcuni documenti, che Blaine firmò dopo una rapida lettura. Erano il contratto per un servizio di catering, il saldo per la prenotazione di una sala del Ritz e la scaletta musicale di un'orchesta.

A Sebastian non sfuggì la sua espressione nervosa nel controllare che tutto fosse perfetto, così allungò una mano e strinse quella di Blaine con la punta delle dita: “Non preoccuparti, andrà tutto bene. E ora andiamo a pranzo, aver concluso l'organizzazione dell'evento dell'anno mi ha fatto venire fame.”

Blaine sollevò un sopracciglio con aria scettica e commentò, mentre l'altro si infilava la giacca: “Evento dell'anno? Sbaglio o qui qualcuno sta un po' esagerando?”

Inaspettatamente, la risposta di Sebastian fu molto più seria di quanto Blaine si aspettasse: “Mi sono spaccato la schiena perchè domani sia tutto perfetto. Dalisay sarebbe fiera di noi. Sarà irriverente, colorato e divertente, saranno presenti tutti i pezzi grossi della città e tu farai un discorso splendido. Dato che la presenza della stampa renderà il tutto ancora più appetibile ai grandi e vanesi investitori, sto ancora contrattando con un paio di riviste per accertarmi che non mandino il primo degli idioti per le fotografie e l'articolo. Ma per il resto, è tutto pronto.”

Blaine annuì e lasciò che Sebastian gli cingesse affettuosamente le spalle, accompagnandolo verso l'ascensore: “Sushi?”

“Sushi.” approvò Sebastian. “E preparati, voglio sapere tutto del primo giorno di scuola di quel mostriciattolo che ti ostini a portarti appresso.”

Mezz'ora più tardi, comodamente seduti in un piccolo ristorante giapponese poco lontano dall'ufficio di Sebastian, Blaine raccontò il frenetico risveglio di quella mattina.

“... in ritardo. Mi stavano fissando tutti, ma per fortuna un ragazzo mi ha fatto cenno e ho trovato un posto vuoto dove sedermi. Lui era... bellissimo, tutto ben vestito e composto, mentre io puzzavo di smog e avevo l'aria stravolta. Mi sono seduto, ma volevo sprofondare, te lo giuro.” buttò giù un sorso di sakè e provò a continuare con il suo resoconto, quando Sebastian lo interruppe con una domanda.

“Un ragazzo? Bene bene... ed ecco che finalmente la St Patrick's diventa interessante. Un nuovo professore da corrompere? Ti sei fatto dare il suo numero di telefono?” commentò l'amico, strizzandogli l'occhio con aria complice.

“No, esattamente come me, era lì in qualità di genitore. Il mio gayradar stava lampeggiando come una sirena su un camion dei pompieri, ma alla fine del discorso del preside mi ha presentato sua figlia. E' in classe con Daki, hanno la stessa età.” Blaine s'infilò in bocca un nigiri e masticò mestamente, ripensando a quanto carino fosse quel papà.

E a quanto sarebbe stato bello, se fosse stato semplicemente un baby sitter.

“Ha una figlia di nove anni? Blaine, amico mio, devo proprio insegnarti tutto. Ricordati che quelli sopra i ventisette non devi guardarli nemmeno per sbaglio. Etero o meno, dopo una certa età a letto cominciano a fare cilecca, e ti posso assicurare che tu non vorrai essere presente quando accadrà. Quanti anni aveva quel tizio? Voglio dire... se non gli tira, non vale nemmeno la pena di scoprire se è sulla piazza.”

La coppia seduta al tavolo accanto al loro si voltò a guardare Sebastian, che ricambiò lo sguardo con un sorrisetto; Blaine si soffocò con il boccone che stava masticando.

“Non era vecchio! Avrà avuto la mia età, forse era addirittura più giovane.” precisò.

“Più giovane? Sicuro che non fosse un baby sitter, o il fratello maggiore?” lo incalzò Sebastian.

“Era suo padre, me l'ha detto chiaramente.” concluse Blaine, togliendo ogni dubbio.

Sebastian si aggiustò la giacca e giocherellò con i gemelli della camicia, come faceva sempre prima di porre una domanda importante; Blaine appoggiò le bacchette e rimase in attesa.

“Blaine, seriamente... quand'è che ti sei fatto una scopata degna di questo nome? Perchè se stai cominciando a fantasticare sui papà della tua scuola pur di non metterti in gioco, io ritengo opportuno preoccuparmi per la salute della tua inesistente vita sessuale.”

Di nuovo, la coppia accanto al loro tavolo si voltò, ma questa volta l'occhiataccia che scagliarono a Sebastian passò del tutto inosservata; era troppo preso a fissare Blaine.

“L'ultima... è stata... ehm...” balbettò. Poi all'improvviso ricordò e schioccò le dita trionfante: “Luglio, la festa di laurea di Peter. Si chiamava Danny e...”

Deluso, Sebastian scosse la testa e lo interruppe, impedendogli di aggiungere altri dettagli: “Blaine. Blaine. Blaine. Quando dico scopata degna di questo nome, lo intendo sul serio. Intendo te che rientri a casa strisciando carponi, con la maglietta indossata a rovescio, segni di denti su una chiappa e ogni singolo muscolo del tuo corpo che implora pietà. Non mi riferisco a te che mi telefoni subito dopo essere venuto, per chiedermi se ho dato l'antibiotico a Daki; Danny mi ha detto che aveva ancora addosso il preservativo e tu avevi già preso il cellulare. Così non va bene. Non è sano, capisci?”

Senza successo, Blaine provò a difendersi: “Ehi, sei ingiusto! Lo sai anche tu che quella tonsillite era una brutta bestia, se avesse saltato anche solo una dose non...”

Il cellulare di Sebastian s'illuminò e squillò due volte, costringendolo ad alzarsi e allontanarsi dal tavolo per rispondere; l'espressione che aveva in viso sembrava promettere che la questione non era affatto chiusa, ma quando tornò a sedersi sembrava essersene completamente dimenticato. Con il palmare stretto tra le dita, prese a digitare freneticamente dal suo account twitter: “Blaine, hai presente il galà che sto organizzando da due mesi, quello per celebrare i cinque anni della tua fondazione? Abbiamo Vanity Fair, per domani sera. Manderanno un fotografo e un esperto di stile per fotografare gli abiti dell'èlite newyorkese presente all'evento; dobbiamo subito far trapelare la cosa, le donne impazziranno.”

Blaine lo osservò divertito, ma il suo sorriso si spense quando Sebastian alzò la testa di scatto e chiese con nonchalance: “Hai ritirato il tuo smocking dalla lavanderia, vero?”.

Mentre afferrava la sua tracolla e usciva di corsa, Blaine desiderò intensamente essere come quel padre conosciuto a scuola: ordinato, puntuale e attento ai dettagli. Perfetto.

La sua vita sarebbe stata infinitamente più semplice.

 

 

 

 

 

 

Nda (aka L'angolo di LieveB):

Ed eccoci qui con il secondo capitolo. Sulla mia pagina Fb vi avevo chiesto se preferivate scoprire prima la storia della paternità di Blaine oppure quella di Kurt, e la maggior parte di voi voleva sapere di più su Blaine e Dakila. Ammetto che ancora qualcosa è nell'ombra, ma direi che ormai è tutto abbastanza chiaro, spero. In ogni caso, io sono a disposizione per qualsiasi domanda.

Nel prossimo capitolo, vedremo il passato di Kurt. E dal quarto capitolo... Klaine, ovvio. ^_^

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che hanno concesso una chance alla storia e l'hanno aggiunta alle seguite/ricordate/preferite. You made my day, quindi grazie.

   
 
Leggi le 17 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Glee / Vai alla pagina dell'autore: lievebrezza